Autore originale del testo: Marco Furfaro
di Marco Furfaro 8 giugno 2016
Il Pd e Renzi perdono le elezioni amministrative, il Movimento 5 Stelle politicamente sfonda, il centrodestra si riorganizza. E la sinistra, seppur con un progetto embrionale e quindi anche con alcune giustificazioni, arranca. Questi i titoli delle elezioni amministrative. Ma c’è di più, ed è il dato più preoccupante del voto: la sinistra non rappresenta quelli che dovrebbe rappresentare. Nelle periferie, nei quartieri dove vivono le persone più in difficoltà, dove la precarietà e la disoccupazione la fanno da padrone, il voto a sinistra sprofonda allo zero virgola. È questo il fallimento, politico, prima che elettorale.
Ancor più dei casi di Roma e Torino, dove Sinistra Italiana aveva candidato due dei suoi maggiori esponenti nazionali e il cui risultato, nonostante la loro lodevole generosità, è ben al di sotto delle aspettative (circa 2/3 – 20 mila- di voti in meno a Torino di quelli raccolti dalla sinistra nelle precedenti amministrative, il 40% – 32 mila – a Roma).
Sono stati fatti molti errori. Alcuni hanno pensato che bastasse dire quanto era brutto e cattivo Matteo Renzi o il Pd per prendere voti. Magari fosse così facile. Eppure sta proprio qui il motivo per cui non prendiamo voti nelle periferie: non aver capito che il problema comprende Renzi, ma non si esaurisce con lui. Riguarda un ciclo di venti anni in cui la sinistra ha perso ogni credibilità, ha realizzato -nel peggiore dei casi- o ha provato a mitigare -nel migliore- politiche che ruotavano attorno alla precarizzazione delle vite delle persone e allo sfruttamento dell’ambiente. E le persone che perdevano il lavoro, a cui veniva a mancare il welfare, quelli che cadevano nella disperazione hanno trovato una proposta politica alternativa nel Movimento 5 Stelle o addirittura nelle destra (sì, oggi la Lega prende più voti dagli operai e dai soggetti più deboli di quanti ne prendiamo noi).
La sinistra non ha mai fatto i conti con i propri errori, anzi. C’arriva con anni di ritardo, quando oramai si è persa il vincolo con il proprio popolo e non capisce che sta parlando a vuoto. Perché in passato era questo teneva in piedi la sinistra: l’idea che a prescindere dalla condizione economica della famiglia in cui nascevi, sapevi che potevi batterti, assieme ad altri, per avere un’opportunità di futuro. Era una parte di società, ma riconoscibile e a cui affidare il voto come una speranza. Oggi la sinistra ha perso una visione autonoma del mondo, è incapace di designare un modello di sviluppo alternativo se non con una retorica che non riesce ad andare oltre gli anni Novanta. Il mondo parla di economia circolare, industria 4.0, reddito minimo garantito, resilienza. I nostri dirigenti di partito del lavoro. Giusto, per carità. Ma quando incontri un ragazzo di venti anni che ti dice che il suo lavoro è uno schifo di 12 ore a nero e il resto in voucher, forse dovresti porti il problema dell’importanza del significato che oggi hanno assunto le parole sulla pelle delle persone. E assumerne altre per rendere tangibile che la tua proposta non è solo la retorica di chi vive fuori dal mondo, ma la concretezza di una politica che crea lavoro tenendo dentro anche la dignità delle persone e la cura dell’ambiente. Cioè le questioni del nostro tempo.
I progetti autonomi senz’anima, senza empatia, basati solo sul circuito dirigenziale che si riunisce intorno al tavolo e che si parla addosso, non funzionano. Questo dicono le elezioni. Per non parlare del mantra dell’unità della sinistra, spesso unità di dirigenti in cerca di dare rappresentanza al proprio ego più che unità delle lotte, delle vertenze, delle istanze delle persone in difficoltà. Le liste più caratterizzate sull’unità del ceto politico sono, guarda caso, quelle che vanno peggio. Le liste che privilegiano la proposta politica, magari con tanto di civismo, e intorno a quella coagulano forze politiche, civiche e sociali, sono quelle che vanno meglio.
Sono le esperienze positive di queste elezioni. Che non sono solo il terreno da cui ripartire, ma la lente con cui guardare a ciò che dobbiamo fare. Nell’anomalia Cagliari, una delle poche grandi città a guida Sel e con una coalizione di centro-sinistra, la conferma di Massimo Zedda al primo turno è la dimostrazione che la sinistra che governa bene, che non diventa destra, che se ne frega dei mille politicismi che affliggono il ceto politico ma privilegia un vincolo di popolo e risponde a quello, ecco, quella sinistra vince e rivince. Nell’anomalia Napoli, unica città dove esiste (davvero) il quarto polo, De Magistris si afferma senza rivali. Con un’identità fortissima e un suo racconto: diseguaglianze, ambiente, partecipazione. E la credibilità per mostrarsi autonomo, per parlare ai centri sociali quanto alle persone che in passato votavano a destra. La sua proposta, la sua figura sta dentro al popolo, nelle sue viscere, nelle sue contraddizioni. Perché questo siamo, perché questo sono le persone disperate: non c’è niente di lineare, non c’è certezza o idealità che tenga di fronte all’esigenza di dover garantire a tuo figlio o a tua figlia la cena. E allora serve una proposta politica forte, che dia il senso della vicinanza quanto della risposta alle condizioni materiali di una vita in difficoltà.
A Bologna, Federico Martelloni e la sua coalizione civica prendono il 7%. Un risultato figlio di una candidatura competente che ha saputo incrociare realtà civiche e sociali, privilegiando l’essere sinistra non come un feticcio da sbandierare, ma come una pratica di cura della città e della costruzione di una comunità. Il risultato simbolico più importante è quello arrivato nel cuore del potere di Renzi, a Sesto Fiorentino, dove Lorenzo Falchi va al ballottaggio con il 27,4%. La sua, a mio avviso, è stata la campagna elettorale più bella di tutta Italia. Una campagna diretta, cruda, eppure mai rancorosa, non basata sulle parole d’ordine ma sulla materialità della vita. Così come è stato fatto a Brindisi, Cosenza, e tanti altri posti dove i risultati hanno premiato schemi molto simili.
Buone esperienze che ci indicano un’altra cosa, che a sinistra si fatica a pronunciare, pena essere tacciati di “nuovismo” o peggio ancora di “giovanilismo”: le candidature che hanno ottenuto i risultati migliori sono quelle con profili “freschi” (non tanto e non solo di età), innovativi, competenti, radicati nel territorio, magari pure meno conosciuti al grande pubblico ma capaci di stare dove la vita reale scorre in tutte le sue articolazioni. Questo è un punto, a sinistra, che non possiamo più far finta di non vedere. E non è una mera questione anagrafica, ma una questione politica: chi sa interpretare il suo tempo, chi non ha biografie usurate, chi delinea la sinistra a suon di fatti e costruzioni di simboli va meglio di chi la declama come una vecchia (e stanca) canzone nostalgica.
Il dato è inequivocabile, i profili contano. Le biografie contano. Eccome se contano. Si può far finta di non vedere, si può restare chiusi nel circolo social di riferimento in cui la purezza si associa alle parole e non alla quotidianità. Ma poi fuori c’è la realtà che ti presenta il conto. Una realtà che chiede radicalità almeno quanto contemporaneità (che è il contrario di bella e facile, ma è contraddizione e crampi allo stomaco). Per questo a Torino e Roma, la sinistra va peggio, per questo in altri posti va molto meglio. Sinistra Italiana, se vuole avere un futuro, anziché portare l’argomento auto assolutorio “dell’infondo teniamo”, è bene che guardi a tutto questo con schiettezza e onestà.
In questi anni, tanti sbagli sono stati taciuti. E chi porta la responsabilità di quei sbagli non ha mai voluto prendersela. E non lo scrivo perché penso che sia giusto mettersi da parte, ma perché siamo in un’epoca in cui gli elettori non ti perdonano niente. E se ti fai alfiere di questione morale ed etica pubblica, di sobrietà e lotta alla disoccupazione o ai privilegi, devi risponderne di conseguenza. Con serietà, anche con elementi simbolici (se ci si candida alle elezioni, è bene farlo scaturendo da processi dal basso e diffuso, ad alta rappresentatività) e pedagogici: il messaggio deve essere che la politica è qui e ora, se va bene si vince, se si perde, si fa un passo, non indietro, ma almeno di lato, visto che c’è gente che se ritarda di un minuto la pausa sigaretta viene licenziato.
Ma so anche che in politica nessuno ti concede niente. Per questo chi ha a cuore la costruzione di un progetto di alternativa deve uscire dal lamento e dare battaglia. Le rotture spesso sono necessarie e positive. E non parlo di quella col Pd. È acquisita, scontata, assunta. E fin troppo facile. Parlo delle rotture con pratiche arcaiche, consumate, che non parlano più a nessuno. Parlo della necessità di dire la verità: che una generazione (politica, non anagrafica) non è più spendibile, che abbiamo spacciato l’unità della sinistra per il rassemblementdel ceto politico (e che oggi sinistra italiana è questo e poco altro nel paese), dimenticando che i movimenti, i comitati, le periferie di questo paese nemmeno ci considerano. E che hanno ragione loro. Perché stanno male. Perché la mattina la gente si sveglia con le gambe che tremano. E allora se ne frega del tuo saper parlare solo e sempre del Pd, di Renzi e del posizionamento. Vogliono risposte, vogliono sapere che empatizzi con quella condizione, che sai che significa, che sei capace di rappresentarla e avere le soluzioni che possano migliorare la loro quotidianità. E per starci, cara sinistra, bisogna stare per strada e nel fango. Quello dove dormono i migranti del Baobab quanto quello sui cigli della Togliatti, dove stanno le prostitute. O a Tor di Quinto, dove ogni alba si materializza il mercato delle braccia e lo schiavismo che di nome fa caporalato. Perché puoi parlare delle periferie come un mantra, ma se non ci sei passato nemmeno mezzora della tua vita, la gente se ne accorge e non solo non ti vota, ma ti schifa proprio.
Cosa fare non è semplice né scontato. Sarebbe retorica vuota pure invocare di cambiare tutto a sinistra. Infatti va fatto e basta. Guardando anche a quanto di buono ci lasciano queste elezioni e a quanto di buono c’è là fuori. Dando spazio a chi non ne ha mai avuto e mettendoci coraggio, quel coraggio di chi non ha niente da perdere, sapendo che nessuno concederà niente a nessuno. Ma così funziona, da sempre. La storia, anche la più piccola, bisogna conquistarsela. Io sarò con chi sceglierà di provarci.
Fonte: Huffington post – blog dell’Autore