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di Alfredo Morganti – 9 giugno 2015
(Mi pare che il tema della tecnica – viepiù associato a quello della politica – ‘tiri’ molto. Non potrebbe essere diversamente, visto che la tecnica, ben più della semplice tecnologia, è anche una forma del pensiero, un’ideologia direi. Il fior fiore dei pensatori si sono spesi, soprattutto nel novecento, a marcarne i confini e a saggiarne la natura, anche in relazione alle dinamiche del potere. Giorni or sono su Pandora – rivista è comparso un intervento di Gian Paolo Faella su ‘Tecnica e Politica’. Io mi sono limitato solo a qualche glossa, che pubblico qui sotto.
Tecnica e politica. Glosse a Faella.
Gian Paolo Faella ha postato su ‘Pandora Rivista’ alcune riflessioni su ‘Tecnica e Politica’. Tema quanto mai vasto e suggestivo, che si presta naturalmente a essere dibattuto. Faella si sofferma su due aspetti rilevanti della questione, quello del professionismo politico e quello del rapporto tra politica ed economia politica. “La politica [è] tanto più interpretabile come tecnica quanto più essa si avvicina al professionismo politico”, scrive a proposito del primo punto. L’economia politica, invece, spiega Faella riguardo al secondo, poggia su un “principio logico-scientifico che ha caratteristiche argomentative peculiari, tra le quali l’opzione fortemente antiretorica in favore di una tecnicizzazione del proprio linguaggio”. Insomma, la tecnica è nelle forme e negli assetti dell’agire politico (il professionismo), oppure nei principi e nelle forme del linguaggio (l’economia politica).
Ora, io penso che la tecnica sia fondamentalmente un’ideologia, più che un fatto. O meglio sia un’ideologia che nasconde un fatto. Credo che la curvatura tecnica della politica si esprima quando si esclude dalla politica stessa il carattere pluralistico, che si sostanzia nel dibattito sulle opzioni in campo, nelle scelte possibili (di governo e non solo) e, quindi, nella decisione finale che, per essere tale, deve prevedere varie ipotesi di partenza e, poi, il prevalere di una di queste. Nella visione ‘tecnica’ (spogliata quindi da ogni carattere ‘politico’) è, invece, ammessa un’unica soluzione al problema, quella ‘veramente’ efficace, che non nasce da dibattiti e parlamenti, ma dalla competenza e dalla abilità del singolo soggetto decidente, che oppone ai problemi il suo sapere e non solo la propria abilità oratoria. Una decisione, quindi, che si riduce a essere la mera e ‘lineare’ presa d’atto di quell’unica soluzione possibile.
Se ne trae che la tecnica esclude, almeno apparentemente, interessi, personalismi, spiriti di parte. Essa si presenta nella sua lucida obiettività, estranea alle parti in causa e fuori dai partiti. La tecnica è un fare (una pratica pura) che trova ‘la’ soluzione, l’unica, quella che serve, quella ‘evocata’ dal problema stesso, non quella che i ‘partiti’ invocano pensando soprattutto alla propria ‘parte’ e dunque alla propria ‘rappresentanza’. Ma se c’è ‘la’ soluzione efficace, se tutte le altre sono di parte e dunque parziali e inefficaci, della politica resta davvero ben poco. Per definizione essa è invece agorà, conflitto tra punti di vista parziali, tentativo alto di mediazione che incorpora comunque interessi attivi, fazioni in lotta, soluzioni plurali e precarie, partecipazione democratica. La soluzione unica esclude il conflitto, invece, pretende di cogliere obiettivamente e linearmente l’interesse generale, ‘taglia’ il dibattito e, così, ci libera dal chiacchiericcio parlamentare. La tecnocrazia, in fondo, è semplicemente la tecnica al potere, è l’evocazione del pensiero unico contro ogni ideologia politica. È la decisione massimamente ‘compatibile’, quella che non ammette alternative.
Ma cosa c’è di più ideologico dell’idea che non esistano più ideologie? La tecnica è ideologia proprio perché incolpa di ‘politicismo’ il conflitto politico. È un pensiero unico che vorrebbe mostrarsi ‘obiettivo’ e senza alternative (se non demagogiche, populiste, irragionevoli, di parte). E vorrebbe che la ‘sua’ soluzione fosse accettata come quella davvero risolutiva, proprio perché fuori dal dibattito politico. Ma questa ‘unicità’ non desta sospetto? L’Unico, solitamente, prevale sull’Altro per escluderlo, e lo fa presentandosi come ‘puro’, come unico appunto. Non come il vincitore finale di una lotta storica (faccio l’esempio chiarissimo del neoliberismo) ma come un’entità che stava già lì, obiettivamente, da sempre, e che la politica offuscava ed emarginava a causa della sua partigianeria. In realtà, le soluzioni sono sempre ‘possibili’ e non necessarie, e ognuna di esse raffigura il prevalere di un interesse o di un altro. Il livello della mediazione consente un dibattito ricco, una partecipazione ampia. Non stringe nel collo di un imbuto ma libera la discussione e il conflitto, e così fa evaporare l’ideologia perché, semplicemente, la pluralizza. Si chiama democrazia.
Il professionismo politico, in sé, non produce ‘tecnici’ (portatori di soluzioni uniche), a meno che non prevalga l’opportunismo personale. I rivoluzionari di professione vivevano di conflitto, non lo nascondevano, non si presentava ‘obiettivamente’, anzi. Gramsci diceva sono di parte. Odio gli indifferenti. D’altra parte, il linguaggio dell’economia diffonde una terminologia tecnica, ma con ciò siamo ancora in campo simbolico-culturale, quando invece la tecnica come ideologia è un eminente fatto politico, non altro. Direi invece che, quando compare la ‘tecnica’, la lotta per l’egemonia si è momentaneamente conclusa, producendo un vincitore che si presenta come portatore di una Verità. Anche se la battaglia non è affatto cessata, perché i suoi avversari, se sono dotati di una cultura politica, di un partito, di risorse possono immediatamente lottare per ‘pluralizzare’ di nuovo il pensiero unico. Con ciò, la domanda è, fuori da ogni diplomazia: il PD, oggi, è un pezzo di quel pensiero unico? Ha ancora in sé la forza di ‘pluralizzare’? O il modello dell’uomo solo al comando, in fondo, è il modello stesso della tecnica, nelle forme più dure e articolate?
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Gian Paolo Faella – 25 maggio 2015
Si discute spesso, in Europa, del rapporto tra tecnocrazia e potere politico. L’attuale fase storica viene da più lati interpretata, infatti, come una stagione in cui l’agire politico, e in particolare quello delle sinistre, viene stretto tra tecnocrazia e populismo. Ci proponiamo di declinare, qui, alcuni dei rapporti che avvicinano intrinsecamente agire politico e tecnica, e di determinare che cosa, di conseguenza, questi rapporti abbiano da dirci a proposito della tecnocrazia in generale.
Ci sono due aspetti diversi del rapporto tra politica e tecnica che vengono innanzitutto all’attenzione: il primo è determinato dal fatto che la politica stessa può essere intesa come una tecnica a causa del rapporto stretto tra attività politica e professionismo politico; la seconda ragione di questa relazione stretta è determinata dal rapporto, così intrinseco, che la politica intrattiene con l’economia politica.
Per quanto riguarda il primo punto, si può dire che la politica sia tanto più interpretabile come tecnica quanto più essa si avvicina al professionismo politico. Ma la nozione stessa di professionismo politico è culturalmente e geopoliticamente estremamente situata, mentre inoltre ogni forma di azione politico può essere interpretato come professionistico se praticato con un ragionevole livello di efficienza razionalisticamente intesa, e cioè di conformità dei mezzi agli scopi. Si può dire allora che la politica sia una professione affatto diversa a seconda della natura del sistema di potere nel quale un determinato politico si trova ad operare e cioè a seconda delle finalità dell’agire pubblico in un determinato sistema politico-culturale o, secondo un’altra interpretazione che però qui non adotteremo, in una determinata cornice istituzionale. Ogni civiltà, infatti, ha una propria concezione di quale dovrebbe essere l’aspetto di una classe dirigente e di quali dovrebbero essere le sue mansioni.
Il potere, all’interno e al di fuori dei partiti, si amministra secondo varie modalità antropologiche: militari, burocratiche, retorico-politiche. E la natura di queste modalità è tale da riflettersi all’interno della struttura stessa dei partiti, nel senso che i partiti sono organizzati secondo queste diverse modalità a seconda dei loro obiettivi specifici, della antropologia politica in base alla quale essi selezionano classi dirigenti, e della loro ragione sociale.
Si è detto, prima, dell’apparente rilevanza della cornice istituzionale per la determinazione dei caratteri di un’azione politica come professionistica. In realtà, tuttavia, secondo una impostazione teorica di tipo marxiano-gramsciano, ogni gruppo organizzato per finalità politiche è de facto un partito politico, e cioè indipendentemente dal suo partecipare alla competizione per cariche elettive, e il livello di organizzazione che sarà richiesto a tale gruppo per essere definibile come un soggetto politico sono poi diversi a seconda del suo collocarsi a sinistra o a destra nello spettro politico. Questo a causa del fatto che Marx ipotizzava l’enorme rilievo dello stesso capitale in quanto soggetto storico-politico, il quale opererebbe nei fatti non diversamente da un partito politico (di destra), e ciò nonostante esso non abbia un principio di organizzazione politica interno (esso, cioè, sarebbe quello che si suole chiamare una forza oggettiva). Si tratta, in altri termini, come sempre, di accettare o meno l’impostazione secondo cui la lotta politica è un tipo di azione che non è semplicemente riducibile alla competizione politica, poiché comprende al suo interno un’ipotesi di egemonia culturale.
Se ci ritroviamo ad accettare questo specifico punto di vista – il quale ovviamente non è poi neutrale quanto alle sue conseguenze – otteniamo allora che il professionismo politico sia qualificabile come tale, indipendentemente dalla cornice istituzionale nel quale si trova ad operare, soltanto all’interno di una determinazione di quale sia la forma-partito nel quale esso si trova a realizzare il proprio compito. Questo, tuttavia, non toglie che la struttura stessa dei partiti sarà influenzata, a sua volta, dalla cornice istituzionale. Ogni struttura politica avrà allora in definitiva al suo interno principi di organizzazione militari, burocratici e retorico-politici, i quali molto spesso saranno compresenti nella stessa organizzazione nominale, in quanto forze o culture politiche che agiscono al suo interno in una tensione reciproca. Ecco, ora, che una delle particolarità del sistema politico italiano – come struttura costituita da gruppi organizzati attorno a determinate culture politiche e, cioè indipendentemente dal ruolo in questa fase pressoché esclusivamente nominale svolto attualmente dai partiti che competono per le cariche elettive – sia proprio nella maniera in cui è organizzata la politica intesa come sistema di competenze.
Si ha che in buona parte delle culture politiche centrali (nel senso di più vicine, ideologicamente, al problema del governo) dello schieramento politico italiano, in modo particolare, il professionismo politico sia inteso largamente come una competenza tecnica di tipo scarsamente burocratizzabile. Si tratta, cioè, della pura capacità retorica di accumulazione del consenso, e di quella, che potremmo definire para-militare, di gestione diretta del potere. Si ha, inoltre, che la tendenza al dibattito politico-culturale sia allora più in voga nelle culture politiche estreme che in quelle centrali, mentre dal punto di vista organizzativo si ha ovviamente una predilezione, dal lato della sinistra estrema, per principi organizzativi burocratici e dal lato della destra estrema per principi organizzativi para-militari.
Sebbene parte di queste proposizioni siano adattabili a tutto il contesto internazionale, o comunque a tutto il contesto europeo, il sistema italiano ha però degli elementi di peculiarità sociologica specifica, che consistono appunto soprattutto nella sostanziale assenza, nelle culture politiche centrali, di un elemento di autentico burocratismo politico, e ciò proprio a causa della natura scarsamente istituzionale dei partiti.
La precarietà delle strutture politiche di supporto all’attività di governo centrale fa si infatti che l’elemento del professionismo politico sia, nelle strutture politiche ideologicamente centrali, raccolto dalle prassi del governo locale o piuttosto dalle prassi tratte immediatamente dalle professioni borghesi dalle quali la maggior parte dei dirigenti politici proviene.
Vi è poi il secondo dei problemi cui abbiamo accennato in esergo, vale a dire quello del rapporto tra politica ed economia politica. L’economia politica non è affatto una questione tecnica, ma è un’interpretazione tecnicistica e scientificamente fondata dello spazio politico. Ora, però, va anche detto che l’economia politica è fondamentalmente un principio di organizzazione di quelle conversazioni orali che hanno un oggetto di natura politica. Un principio logico-scientifico che ha caratteristiche argomentative peculiari, tra le quali l’opzione fortemente anti-retorica in favore di una tecnicizzazione del proprio linguaggio. Tuttavia l’economia politica non coincide affatto con l’economia come scienza, o con quella che gli inglesi chiamano Economics. Quello che in economia politica è definito come tecnico – la capacità argomentativa in base all’uso tecnicistico del linguaggio socile – è definito come non-tecnico nell’Economics, e quello che è definito come tecnico nell’Economics – la matematica pura – è definito come non-tecnico (cioè economicamente irrilevante) dai sostenitori della Political Economy.
Si ha pertanto, nel dialogo tra la politica e la tecnica, la riproposizione in altre forme del dibattito scientifico tra sostenitori dell’Economics e sostenitori della Political Economy.
Il problema del rapporto tra politica ed economia politica, allora, si pone come il problema del giusto rapporto che debba intrattenersi tra il dibattito politico e il dibattito scientifico sulle conseguenze ideologiche della svolta neo-liberista nell’ambito del pensiero economico. Tale problema, ancora una volta, è un problema che attiene in ultima analisi soprattutto alla struttura interna dei partiti, e in particolare alla formazione politica. In un partito di sinistra, tendenzialmente, l’educazione alla Political Economy dovrebbe essere un elemento portante della formazione politica della classe dirigente.
Che cosa hanno da dire, provvisoriamente, queste due questioni sulla questione della tecnocrazia?
- Che in un’epoca di discredito della politica, la politica intesa come professionismo diviene quasi naturalmente sotto attacco. Ma secondo un’analisi rigorosa del concetto dell’agire politico, non esiste un agire politico professionistico in quanto distinto da un agire politico non-professionistico, ma soltanto diversi principi di organizzazione astratti che convergono nella struttura dei partiti realmente esistenti. Ma, secondo quest’analisi, è la struttura dei partiti realmente esistenti che dovrebbe determinare gli assetti istituzionali, e non viceversa. In particolare, l’istituzionalizzazione dei partiti comporterebbe probabilmente un’immissione nella sociologia politica delle classi dirigenti dei partiti ideologicamente centrali dello schieramento politico, quell’elemento di burocratismo che potrebbe portare a una maggiore auspicata integrazione del sistema politico italiano nel sistema politico europeo.
- Che il dibattito sulla tecnocrazia non è che l’altra faccia del dibattito scientifico sulla struttura interna del sapere economico, e che la classe dirigente di un partito che metta al suo centro un’analisi anche soltanto in parte materialistica della realtà non può ignorare il problema fondamentale dei fondamenti metodologici e e filosofici dell’economia politica e del suo rapporto con la politica.
Nato a Nocera Inferiore nel 1984. Dottore di ricerca in storia delle idee presso la Scuola Normale Superiore. Studia storia e filosofia e si prepara a insegnarle nei licei. Si interessa di politica e di scienza politica. Suona il basso elettrico e il contrabbasso.