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di MARIANNA STURBA – 7 agosto 2017
La domanda da cui parte questo articolo è “Ha ancora senso parlare di Welfare”?
In una visione dello stato che sembra aver dimenticato che ci sono delle classi sociali che versano in condizioni di svantaggio reale, e che non trovano nelle politiche del Welfare, alcuna risposta ai propri bisogni.
Occorre però fare un passo indietro e capire come siamo arrivati al welfare italiano.
In Italia il sistema di welfare non è rimasto sempre lo stesso, è mutato in continuazione a seconda di chi governasse e delle condizioni di vita. Cosí come in Grecia Spagna Portogallo, anche in Italia si riscontra discontinuità di modelli. In Francia invece è rimasto sempre assicurativo (con adattamenti e trasformazioni) . In Italia si attraverso tre forme di welfare. La maggior parte è sanitario.
La prima fase che inizia nel 1861 e termina nel 1924: dall’unità al prefascismo, definita Fase Liberale.
Lo Stato non si fa carico della tutela sanitaria. Se ne occupano le Famiglie o la chiesa e solo quando queste non possono intervenire, interviene lo Stato. L’assistenza riguarda i poveri, chi non ha lavoro né; la cura è affidata al medico condotto che è alle dipendenze dei comuni.
Nella seconda fase 1924-1978, periodo fascista e repubblicano, ci troviamo nel Periodo Assicurativo.
La tutela è a carico di una assicurazione che può essere privata o pubblica. Ma per chi lavora è prevista la copertura assicurativa mutualistica. Si chiama anche fase meritocratica o lavorativa.
Solo nel 1978 (anno cruciale per molti temi in Italia) inizia la terza fase che è quella che ci portiamo dietro ancora oggi. Legge 833/78, del servizio sanitario nazionale. Il sistema è universalistico-istituzionale. Si è tutti uguali e la gestione è diretta nazionale.
Ma per quanto ancora questo sistema, depotenziato nei fatti, ucciso da un’austerità anche dei servizi, e criticato da certa politica, reggerà alla contemporaneità?
L’austerità, appunto, utilizzata strumentalmente nella crisi economica, impone tagli anche alla spesa sociale perché il primo obiettivo è “essere competitivi”, e mai l’assistenza e i servizi hanno prodotto competitività. Si diventa competitivi abbassando il costo del lavoro e diminuendo le spese sociali. Delusi dalla Idea capitalistica che aveva promesso benessere, ciò che raccogliamo è che questa forma di sviluppo non ha portato né lavoro né benessere. Le poche risorse economiche di uno stato non possono sostenere un settore in continua “perdita”, si sceglie di investire nella produzione di benessere e di investite in altro, ad esempio in settori industriali che rendano competitiva l’economia, sostenendo la spirale soffocante di salari sempre più bassi per i lavoratori e sempre meno servizi a basso costo o gratuiti. Un modello di società che soffoca e uccide sé stessa. Siamo in quel momento in cui la critica al capitalismo parlerebbe di crisi da sovrapproduzioni, in questo caso non si parla di merci ma di persone. Siamo troppi, viviamo a lungo e ricorriamo sempre di più ai servizi alla persona che sono un costo per lo stato, nel contempo però non aumenta la popolazione che produce reddito e che con le sue tasse può salvare il sistema.
Assistiamo alla discrepanza crescente fra diritti e risorse in un meccanismo produttivo che aumenta le disuguaglianze.
In Italia, così come in Europa, lo Stato Sociale non è più in grado di far fronte alle spese del welfare, frutto anche della mancanza di coraggio e lungimiranza di questa classe politica che ha paura di imporre misure necessarie, e che risponde alla crisi con misure non adeguate e risolutorie.
L’efficienza economica a cui siamo chiamati ci impedisce di avere voci “produttivamente inutili” , il welfare è fra queste.
I governi le pensano tutte per non deludere le classi agiate, alle quali evitano di chiedere imposte patrimoniali, ma per evitare la rivoluzione di quelle talmente impoverite da non avere più nulla da perdere, danno l’avvio a nuovi modelli, importati e da sperimentare.
Ci troviamo improvvisamente proiettati in un nuovo modello di welfare che tende a coniugare diverse esigenze mettendo in piedi un insieme di iniziative con le quali le aziende si fanno carico dei bisogni dei propri dipendenti e dei loro familiari, concedendo, benefit e agevolazioni sotto forma di beni e servizi: questo modello si chiama Welfare Aziendale.
I suoi principali obbiettivi sono:
*attrarre e trattenere i lavoratori migliori, rendendo appetibile l’azienda e rafforzando il loro senso di appartenenza;
*motivare i lavoratori, soddisfacendo i loro bisogni personali e familiari;
*favorire il benessere dei propri dipendenti, supportando il loro potere di acquisto;
*favorire la conciliazione dei tempi famiglia-lavoro;
*aumentare la produttività e l’efficienza;
*valorizzare l’immagine e la reputazione aziendale.
La legge di stabilità 2016 del Governo Renzi ha dato ulteriore spinta a questo sistema: “la Legge ha potenziato le agevolazioni fiscali per le aziende che concedono servizi (…); permette l’erogazione di premi di risultato in forma di servizi e welfare (..). Le aziende inoltre hanno compreso che il welfare sussidiario (…) è fonte di numerose opportunità (…) contiene i costi (…) fidelizza i dipendenti” (Il Sole 24 Ore 26 ottobre 2016).
In teoria, e semplificando, proveremmo a dire: il governo defiscalizza, il lavoratore incassa, l’azienda concede. Ma non avviene questo perché le quote di Welfare aziendale che l’azienda incassa saranno considerate sostitutive degli aumenti di stipendi in busta paga: come a dire siccome ti do i servizi che hanno un valore non occorre che io ti dia anche aumento in busta paga.
È da considerare che il welfare aziendale ricade su una piccola fetta di popolazione e soprattutto non tiene conto dei disoccupati, di chi non ha un lavoro stabile, che, nella già difficile situazione in cui si trova, si vede negati i diritti fondamentali penalizzato dalla sua situazione di svantaggio invece che garantito in funzione della mancanza di mezzi.
Il welfare aziendale diventa funzionale al disfacimento dei servizi pubblici fondamentali, un riforma finta progressista che fa da apripista alla privatizzazione dei servizi e del welfare.
Lo Stato, in questo modo, avendo meno entrate fiscali, a sua volta destinerà meno fondi a sanità, istruzione e pensioni pubbliche, perché integrate privatamente dai dipendenti che hanno accesso al welfare aziendale. Le tassazioni invece di sostenere la Fiscalità Generale, andranno a incentivare strutture private creando, di fatto, l’impoverimento e lo smantellamento dello Stato Sociale.
Accanto alle misure di welfare aziendale la Legge di Stabilità prevede anche diversi provvedimenti che favoriscono la conciliazione tra vita e lavoro, sebbene ancora troppo focalizzati sui meri trasferimenti monetari.
Oggi nel 2017 ha ancora senso parlare di Welfare, di servizi sociali, perché le disuguaglianze sono ancora troppo alte e solo un intervento serio dello stato può assicurare a ciascuno i medesimi diritti. Non tutti accedono alle cure nella stessa quantità e qualità, perché la carenza di fondi ha portato ad una progressiva diminuzione dell’offerta, a liste di attese pubbliche sempre più lunghe, e condannando alle “non cure”, una parte di popolazione impossibilitata ad accedere ai servizi a pagamento. Insieme alla sanità, peggiorano i trasporti anche essi sempre più privatizzati nella insana lettura che un privato, siccome ci tiene al suo guadagno, fa funzionare meglio l’azienda, ma poi lo stesso osannato privato, accecato dal bisogno di un ampio margine di guadagno deve aumentare i prezzi e magari tagliare quelli che a lui sembrano rami secchi, che per noi invece rappresentano la copertura di una “linea” di una direttrice, importante per quei pochi cittadini che vi abitano ma che da cittadini hanno diritto agli stessi servizi di quelli che risiedono nei quartieri o paesi più popolosi.
Nidi e scuole sempre più privati!
Nella fascia 0/3 il privato si fa necessario per mancanza di strutture pubbliche ; nella scuola dell’obbligo vengono invece preferite le scuole private illusi dalla chimera del servizio professionalmente migliore, perché ” il privato è meglio” e attratti dal confinamento degli stranieri fuori dalla propria isola di benessere.
Quello da sovvertire, in primis, è l’ordine mentale per cui il privato è meglio del pubblico, questo si fa però investendo nel pubblico, dotando i servizi di strutture e personale adeguato, e disinvestendo nel privato, che proprio per definizione non deve sostenersi con risorse pubbliche. Naturale che se la struttura pubblica ha il blocco delle assunzioni e gli strumenti vetusti, non sarà attrattiva e scadrà nella qualità della prestazione erogata. Ed altrettanto normale sarà scegliere la scuola privata dotata di palestra, aule di informatica e corsi di lingua straniera con insegnanti madrelingua, piuttosto che quella pubblica che porta i ragazzi a fare motoria in giardini non attrezzati, fa informatica a lungo e con pochi strumenti e non ha fondi per aumentare le ore di insegnamento delle lingue straniere.
Tornare ad investire nel welfare non significa sprecare le poche risorse che si hanno, ma riappropriarsi di una visione Italiana di cura e sostegno che culturalmente ci ha distinto nel mondo per civiltà e che ora abbiamo perso forse anche a causa del giustificato egoismo che, le situazioni di precarietà insanamente ma spontaneamente, alimentano.
Si torni ad investire nel welfare! Si torni ad una visione e condivisione collettiva del bene dei cittadini!