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di Emanuele Macaluso – 6 maggio 2017
Ieri ho partecipato ai funerali di Valentino Parlato che si sono svolti al Comune di Roma. C’era tantissima gente e, come ho detto nel mio breve discorso, vi era rappresentato tutto il mondo della sinistra, di ieri e di oggi: una diaspora che sembrava aver trovato la sua unità attorno alle spoglie di Valentino. Tutti i giornali hanno dedicato ampi servizi per ricordare non solo l’opera ma il carattere di Valentino, la sua disponibilità a capire le ragioni dell’altro, la gentilezza e anche la fermezza dell’uomo. A tutti ho ricordato che Parlato era un comunista italiano e che la storia di questa realtà politica e sociale del “comunismo italiano”, si può leggere e capire meglio attraverso le biografie di tante persone; non semplicemente di chi ha avuto un ruolo pubblico ma di molti militanti di base, segretari di sezione del Pci o delle Camere del Lavoro, i responsabili di associazioni del volontariato comunista e così via.
Si tratta di biografie molto diverse tra loro: il primo segretario della Cgil, il comunista Giuseppe Di Vittorio, era un bracciante figlio di braccianti; Bruno Trentin, un altro grande segretario della Cgil, era un intellettuale, figlio di un grande intellettuale azionista. E come loro due, tanti altri: nel sindacato, nel Pci, nel comunismo italiano. Ricordo che il professore Pietro Barcellona, scomparso tre anni e mezzo fa, emerito intellettuale, fu per anni segretario del comitato cittadino del Pci a Catania. Faceva, cioè, un lavoro di base e, come lui, tanti intellettuali. Questo è stato il comunismo italiano: il grande latinista e accademico Concetto Marchesi e il popolano semianalfabeta dei quartieri di Palermo. Volevano tutti un altro mondo.
Valentino era nato a Tripoli da genitori siciliani e, da ragazzo, si ribellò alla realtà sociale libica e fu espulso dal Paese. In Italia fu comunista come tanti giovani che si ritrovavano nel Pci non perché avessero letto “Il Capitale” di Marx o “Stato e Rivoluzione” di Lenin (cosa che Valentino fece successivamente) ma perché volevano cambiare la società in cui vivevano. E si battevano in Italia, al Nord e al Sud, insieme ad altri in Europa e nel resto del mondo. Valentino attraverso le riviste, i quotidiani, con la vita attiva, giorno dopo giorno nel Partito, contribuì come tanti a formare una cultura politica di massa contrapposta o intrecciata a quella di altri partiti, giornali, case editrici, centri culturali.
Oggi la caduta verticale della cultura politica di massa coincide con la crisi della sinistra e dei partiti. In un mio articolo su Il Manifesto ho ricordato i motivi politici, non banali, che nel 1969 provocarono la rottura tra i compagni che avevano dato vita al Manifesto e la maggioranza del Comitato Centrale del Pci. Non riprendo qui l’argomento ma voglio solo ricordare un fatto che mi sembra essenziale per chi rimase nel Pci e chi ne uscì, per chi oggi sta in un pezzo o in un altro cella sinistra. Cioè il modo di fare politica e giornalismo di Valentino ci dice che si può militare con coerenza nella sinistra radicale e rifiutare il settarismo e l’esclusivismo. Mentre abbiamo esempi di compagni che professano il riformismo e sono settari ed esclusivi. Non so se l’eco che ha avuto la scomparsa di Valentino possa fare riflettere chi milita nell’uno o nell’altro campo della sinistra e questa considerazione mi appare più attuale di ieri dato che la sinistra non solo è sparpagliata ma non ha più un nucleo politico forte. Chi ha vissuto o chi ha presente la lezione del comunismo italiano dovrebbe riflettere sul fatto che questo carattere di Valentino Parlato lo portò sino all’ultimo respiro a cercare in varie direzioni la ricostruzione di quel nucleo forte.
(6 maggio 2017)