I vinti e la Casta (che vince sempre)

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Fonte: facebook

di Alfredo Morganti – 10 marzo 2015

I vincentisti

Ho avuto modo di leggere solo oggi la predica moralista che il ‘guru’ Giovanni Sasso ha rivolto, con una punta di fiele, a quelli che, secondo lui, arrivano persino a ‘godere’ della propria sconfitta. Saper perdere va bene, dice, ma non bisogna essere contenti di perdere. Sono degli chic, insinua, che non sanno più parlare ‘al’ popolo, e meno male che c’è lui, il pubblicitario, a darci la dritta giusta, quella che potrebbe redimere il mondo. Si tratta di sconfittismo consapevole, ci spiega, o perdentismo elitario. Io sposterei invece il piano e lo ribalterei. E proverei per primo ad accennare, invece, al fenomeno del ‘vincentismo’ (consapevole o meno fate voi), che oggi è sempre più aggressivo sino a scomodare il moralismo più ipocrita. Il ‘vincentista’ è quello che insegna ai proprio figli che bisogna ‘saper vincere’, che se si perde è solo un momento, perché se non sei ‘vincente’ a tutti i costi (meglio se con metodi chiari e trasparenti, ovvio, ma anche un po’ di trasformismo va bene), se non esprimi questo ‘vincere’ con una certa protervi a, rischi di cadere sull’altro fronte, diventare un perdente sino a goderne elitariamente. Non solo. Le sconfitte debbono essere momentanee, altrimenti ci si crogiola dentro, e bisogna uscire subito dallo steccato radical chic di coloro che amano perdere per stare lì, comodi e lievi, come dice Sasso, “a guardare, giudicare, demolire”. Che, detto da uno che sta giudicando colui che perde un ‘elitario’ votato alla sconfitta che alla fine ne gode pure, fa pensare. Molto.

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Ho giocato a calcio da giovane. Ho calpestato campi di periferia e affrontato pubblici molto esuberanti, e spesso pericolosi. Ma i peggio non erano i ragazzi in campo, che pure menavano come fabbri quando giocavano in casa ed erano delle pecore fuori casa. I peggio erano i padri e (spesso) le madri urlanti in tribuna. Insegnavano ai loro figli che si poteva SOLO vincere, che sennò erano degli incapaci e non erano uomini. Mi è capitato di battere dei falli laterali, avvicinandomi molto alla rete di bordo campo. In quei pochi attimi ero aggredito verbalmente da uomini di 40 e 50 anni con insulti impronunciabili, solo perché io ero l’avversario dei loro figli e impedivo loro di vincere. Il must erano gli insulti a sfondo sessuale, e gli improperi verso i genitori. Quel coatto travestito da genitore, insegnava che i veri uomini vincono, gli altri perdono. E magari, direbbe il guru, alla fine si crogiolano pure nella sconfitta, ne godono! Detto tra noi, eravamo tutti ragazzi di borgata e della periferia di Roma, ed eravamo comunque già TUTTI degli sconfitti o quasi dalla vita, altro che calcio. Di alcuni di loro vorrei raccontarvi la storia successiva. Radical chic? Chi, i borgatari? O sconfitti veri, visto che ci debbono pur essere degli sconfitti a fronte dei pochi vincenti che collaborano a Palazzo Chigi? Mio padre (un operaio, uno che ha avuto due soldi di pensione) è stato un perdente secondo questi parametri, ma io l’ho amato moltissimo (e lo amo ancora adesso che non c’è più) perché ho colto benissimo i lati veri della sua ‘vittoria’ nella traccia che ha lasciato nei nostri cuori e nelle nostre menti di figli. Mio padre, quando veniva a vedere le partite, non ha mai inveito contro i miei avversari. E non ‘godeva’ del fatto che la nostra vita fosse stata dignitosa, sobria, anche felice, ma noi non fossimo seduti (metaforicamente) su alcuno scranno di potere. Anzi.

Non amo i ‘guru’ della comunicazione. Non sai se ti stanno vendendo un prodotto o se esprimono davvero le proprie idee, giuste o sbagliate che siano. Non permetto loro di giudicarmi uno ‘sconfitto’, solo perché magari non sono renziano, e non mi sono accomodato al suo fianco dopo averlo combattuto, o perché non ritengo che trionfare a tutti i costi (a TUTTI i costi) sia un bene. Non penso, ad esempio, che vincere una battaglia ricorrendo al trasformismo o agitando i vessilli della destra sia una vittoria di sinistra, per la quale valga la pena addirittura esultare. Non ne godo di questo, affatto: anzi sono incazzatissimo con quelli che mi hanno tolto il partito, facendo una bella OPA mediale, aiutati da solerti ‘vincentisti’ che mi giudicano ‘elitario’ accusandomi di star lì a giudicare schifiltosamente i presunti ‘vincenti’. Purtroppo la politica l’hanno rovinata la finanza e questi signori che giocano a farla, continuando a svolgere, comunque, la loro professione di imprenditori. I professionisti della politica non sono i parlamentari o i pochi funzionari di partito rimasti, ma la schiera foltissima di consulenti che circondano i politici e, magari, li circuiscono pure con le slides. Eccola la casta, gente che guadagna il fior fiore di euro per mettere sul mercato della politica la propria ‘competenza’. Eccoli i veri ‘insiemi di competenze’ (al servizio del potere), come direbbe Filippo Taddei. Eccoli qua. Messa così, meglio essere coatti di borgata che moralisti. E peraltro non scorgo nemmeno tanta differenza tra loro.

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Un giorno, alla fine della solita gara di corsa nel corridoio con mia figlia quattrenne (corsa che, da bravo padre, le avevo fatto vincere) ho finto di piangere, deluso dalla mia sconfitta. Da quel momento in poi non c’è stato verso: rallenta, si ferma, si fa sfacciatamente sorpassare, finché non sono io a tagliare il traguardo per primo. Ed è contenta così. Contenta di perdere. Tra qualche tempo dovrò spiegarle che c’è una bella differenza tra saper perdere e voler perdere. Tra accettare con serenità un insuccesso e fare di tutto per cagionarlo. Sì perché, nonostante la tenerezza di questo suo gesto, non vorrei che con l’età si abituasse ed entrasse a far parte di quel circolo di individui che godono della loro sconfitta. Ce li avete presente? Quelli che, se il loro movimento prende lo zerovirgolauno, vi guardano con aria orgogliosa e saccente e vi spiegano che, del resto, è giusto così, con una massa di pecoroni come gli italiani, cos’altro c’era da aspettarsi? Quelli, per intenderci, del meno siamo meglio stiamo, gli autori di lunghi e complicati articoli, perché non si scrive per essere letti, ma per leggersi da soli. Quelli che se il programma che hanno visto in tv ha avuto un’audience superiore al 2%, vanno in crisi agorafobica e raddoppiano le sedute dall’analista. Quelli che se uno vince, ha successo, o addirittura guadagna dei soldi, c’è sicuramente qualcosa sotto. Quelli che parlano sempre di popolo, ma non sanno più parlare «al» popolo, perché chi parla al popolo, per loro è solo un populista, bleach! Io lo chiamo lo sconfittismo consapevole o il perdentismo elitario o il marginalismo deliberato. Una scuola di pensiero molto saggia, peraltro. Perché chi vince si impegna e si assume le sue responsabilità. Mentre chi perde sta lì, comodo e lieve, a guardare, giudicare, demolire. Vuoi mettere? Ma non ditelo a mia figlia, per favore.

La Sassata n. 433 – Corriere del Mezzogiorno – 08 marzo 2015

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