Israele nel sentiero tra genocidio e suicidio

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Lucio Caracciolo
Fonte: Limes

Israele nel sentiero tra genocidio e suicidio

di Lucio CARACCIOLO

Il piano Trump non è riuscito a chiudere la questione israelo-palestinese. Nessuna delle parti rinuncerà a chiamare casa lo spazio tra fiume e mare. Lo Stato ebraico ha perso perché ha voluto vendicarsi accettando la guerra di Hamas, che non è riuscito a eliminare. Rischiando, dentro, l’esplosione di una guerra civile fra tribù e poteri israeliani.
Trump e Netanyahu

Trump guarda Netanyahu

Il piano Trump è come il formaggio svizzero: pieno di buchi che ognuno cerca di tappare o ignorare a modo suo. Nell’infinita e forse infinibile contesa israelo-palestinese è sempre stato così. Perché né gli israeliani né i palestinesi rinunciano all’idea che lo spazio conteso fra Mediterraneo e Giordano sia casa loro. Tutto.

Per entrambi qualsiasi concessione è provvisoria. Con buona pace degli inevitabili complottisti, che immaginano Bibi lasciar scatenare il massacro del 7 ottobre per legittimare la strage di palestinesi compiuta dall’Idf, allargare i fronti di guerre senza fine, restare al governo un altro paio d’anni e rinviare i suoi conti con la giustizia.

 

La catastrofe in corso è l’effetto imprevisto e indesiderato della rinuncia di Israele a considerare il fattore umano nell’equazione di Gaza. La ferocia esplosa il 7 ottobre, che ha sorpreso lo stesso Hamas, era certo figlia di decenni di vessazioni dei gaziani costretti in gabbia quali “bestie umane”. Ma anche molto di più: esprimeva la rivolta delle masse palestinesi che non ragionano secondo i parametri della diplomazia internazionale ma della propria storia e dei propri sentimenti.

Sull’altro fronte, altro che guerra di Netanyahu. Fino agli ultimi mesi, quando l’evidenza del genocidio è parsa innegabile anche a buona parte degli ebrei in patria e in diaspora, la maggioranza degli ebrei di Israele ha appoggiato la campagna militare voluta da Bibi anche contro l’opinione di capi dell’Idf e del Mossad.

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Decine di migliaia di terroristi, tra cui donne, vecchi e bambini, sono stati uccisi dall’Idf a Gaza, mentre i coloni, protetti dai militari che dovrebbero controllarli, ne hanno profittato per accelerare l’espansione degli insediamenti cisgiordani. Caso mai qualcuno ancora pensasse a uno Stato palestinese.

Eppure un sobrio bilancio evidenzia che a oggi Israele ha perso. Ha voluto perdersi. Perché ha voluto vendicarsi del 7 ottobre accettando la guerra di Hamas. Nel sentiero stretto che divide il genocidio dal suicidio, ovvero la guerra esterna contro i civili/terroristi a Gaza dalla guerra civile fra tribù e poteri israeliani.

Non si torna al pre-7 ottobre. La questione palestinese, di cui non esiste traccia di soluzione, è diventata mondiale in odio a Israele. Trump lo ha detto a Netanyahu: “Bibi, Israele non può combattere il mondo”. E il premier israeliano: “Sì, lo capisco”. Non ci scommetteremmo.

Tre punti sembrano però acquisiti. 

Primo. Hamas, che Bibi voleva liquidare sapendo di non poterlo fare, esiste e resiste a Gaza. Né intende disarmare. Perfino Trump, contraddicendosi come d’abitudine, ha invitato gli orfani di Sinwar a fungere da provvisori poliziotti nella Striscia. Prossimamente affiancati dai turchi, protettori di Hamas e “alleati” degli americani (ovvero di sé stessi), che dovrebbero avere il privilegio di muoversi nei tunnel tuttora in mano ai miliziani islamisti.

Secondo. Israele ha seriamente indebolito l’“asse della resistenza” gestito da Teheran per ritrovarsi alle porte di casa un avversario ben più potente. Altro che il “caro nemico” persiano. I turchi sono a distanza di cannone dalle avanguardie israeliane penetrate in Siria. Dalla moschea damascena degli Omayyadi a Damasco i più disinibiti fra gli artefici del nuovo impero turco guardano alla gerosolimitana al-Aqsa (parola di Bilal Erdoğan, figlio del reis).

Terzo e decisivo. Israele sta cominciando a pagare il prezzo dell’errore strategico compiuto elevando Hamas a minaccia strategica. Contro ogni logica, Netanyahu ha imposto a sé stesso e alle sue Forze armate di rispondere al 7 ottobre come se fosse un super-Kippur, l’ultima volta che Israele ha davvero rischiato la pelle. Quasi Sinwar potesse conquistare lui al-Aqsa.

Quindi mano libera per trucidare tutti i gaziani (e i cisgiordani) che capitino a tiro. Così non solo ha compromesso la sua reputazione (sopportabile), ma il vitale sostegno americano (insopportabile). E lo sta pagando caro.

 

Articolo apparso su la Repubblica il 19 ottobre 2025

 

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