da La Stampa
L’omicidio del carabiniere durante il blitz Gancia: indagati i brigatisti Curcio e Moretti mezzo secolo dopo
Oltre ai capi storici, rischiano di finire alla sbarra anche i militanti Azzolini e Zuffada
Ci sono voluti quasi tre anni, ma adesso le indagini sono concluse. Nell’inchiesta nata quasi mezzo secolo dopo la morte dell’appuntato dei carabinieri, Angelo D’Alfonso – ucciso dalle Brigate Rosse il 5 giugno del 1975, nell’alessandrino, davanti ad una vecchia cascina dov’era tenuto prigioniero il re dello spumante Vittorio Vallarino Gancia – sono saltati fuori i nomi di 4 terroristi delle Br che avrebbero in qualche modo saputo, oppure avrebbero partecipato al sequestro.
I magistrati cercavano il complice di Mara Cagol (la moglie di Renato Curcio morta in quello stesso conflitto a fuoco) ed è saltato fuori un quadro più complesso. Che tira in ballo altre persone e arriva fino a quelli che erano i vertici delle Br. Svela dettagli, amicizie e – scrivono i giudici – forse anche pentimenti non proprio genuini.
Intanto, i nomi degli indagati per i quali ieri la Procura di Torino ha depositato il decreto di chiusura indagini. Si parte dal sospetto complice di Cagol, l’uomo che – presumibilmente – lanciò la bomba a mano che rese invalido a vita un giovane tenente (oggi diventato generale) e che sparò e ammazzò D’Alfonso. Ma che quel giorno riuscì a sfuggire alla cattura. La sua identità è rimasta un segreto per quasi mezzo secolo. Secondo i magistrati è Lauro Azzolini. Intercettato per mesi e per il quale era stata chiesta anche la custodia in carcere. Azzolini, quando ha saputo di essere indagato, diceva di esser pronto a scappare, casomai le cose si fossero messe male. Lo spiegava nel corso di un pranzo a casa sua, il 26 dicembre del 2022. Dicendo che non avrebbe accettato neppure di essere sottoposto ai domiciliari.
Il secondo indagato è Pierluigi Zuffada. Avrebbe partecipato al sequestro e sarebbe “il postino”, vale a dire il terrorista che consegnò le lettere con la richiesta di riscatto (1 miliardo di lire) subito dopo il rapimento. Contro di lui ci sono impronte digitali trovate dai Ris di Parma sulle lettere scritte e firmate da Vallarino Gancia. Tre reperti, importantissimi, scovati negli atti di un altro processo, e sui quali non erano mai state eseguite analisi tecniche.
Gli altri due sono i vertici delle Br. Quelli che sapevano e – forse – avevano partecipato all’organizzazione del sequestro. Il primo è Renato Curcio. L’altro Mario Moretti. Scrivono i magistrati: «Mario Moretti, con Curcio e Cagol, aveva deciso nel 1975 che l’organizzazione doveva finanziarsi con i sequestri di persona. E avevano partecipato alla selezione del primo obiettivo, Vallarino Gancia». Circostanze che Curcio, quando venne interrogato dai magistrati che hanno condotto questa indagine, negò recisamente. Compreso un fatto ampiamente assodato da diverse sentenze: essere stato il vertice dell’organizzazione il cui marchio era una stella a cinque punte. Disse: «Il ruolo che mi hanno sempre attribuito è un’immagine mediatica che non corrisponde alla realtà dei fatti». E ancora: negando di sapere del sequestro Gancia e che sua moglie – Mara Cagol – era a capo dell’operazione. Scrivono i magistrati: «In ciò smentito persino da Lauro Azzolini in una comunicazione telefonica …». Ma le dichiarazioni di Curcio, riportate nel libro- confessione A viso aperto, raccontano un’altra storia e sono considerate una pietra miliare: «Nell’aprile del 1975 ci riunimmo Margherita (Mara Cagol) Moretti (Mario) ed io in una casa nel piacentino … pensammo di seguire l’esempio dei guerriglieri latinoamericani che già da tempo sequestravano industriali per finanziarsi…». Un mese dopo rapirono Vallarino Gancia. Moretti, in un altro libro, è andato pure oltre: «Scegliemmo Gancia… Se ne occupa soprattutto la colonna di Torino e l’operazione è diretta da Margherita».
E poi c’è lui, Azzolini. Intercettato per mesi. Con una grossa disponibilità finanziara (200 mila euro pronti all’uso) che avrebbe potuto usare in caso di fuga. Sue sono le impronte digitali sul memoriale (8 pagine e 7 disegni) ritrovato in un covo a Milano. Dove non era mai stato. È con questo – e molto altro in mano – che i giudici hanno chiuso l’inchiesta. Decollata nel 2021 dai Ros di Torino. Un esposto. I solleciti dei parenti di D’Alfonso. Il lavoro di un colonnello dell’Arma, Massimo Corradetti. Da lì ha preso il via il tutto. Ora si aspetta la decisione del Gip.