Astensione dal voto e povertà

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Fonte: facebook

di Alfredo Morganti – 25 novembre 2014

L’osservazione più frequente, riguardo all’astensione, è il parallelo con i votanti USA. Per una democrazia moderna è fisiologico, si dice, che si rechino alle urne solo una parte degli aventi diritto. Negli Stati Uniti la media dei votanti alle elezioni presidenziali è del 60-65%. Alle elezioni di medio termini la media scende persino al 45%. Talché già da tempo c’è chi ha posto l’eventualità che quello sia ormai un ‘government of (Half) the People”. Così come c’è pure chi sostiene che il non-voto sia un fenomeno positivo, sintomo della stabilità e della soddisfazione di un popolo (il non-voto sarebbe di segno conservatore). Meno male che non manca, invece, chi si interroga pure del contrario e vede in quel terzo o ben più di astenuti una questione rilevante, il sintomo di una patologia e non la testimonianza di un benessere diffuso, per quanto sottinteso.

pov

In un articolo di Aspenia on line (2012) che ho pescato in rete, l’analisi va più a fondo e punta a cogliere il collegamento tra non-voto e status socio-culturale. La tesi è la seguente: “l’assenza dalle urne non è socialmente neutra”. Essa testimonierebbe, tra l’altro, una ben visibile “correlazione tra reddito e istruzione, da una parte, e partecipazione al voto dall’altra”. Arnaldo Testa, l’autore dell’articolo, scrive: “In un elettorato presidenziale che comprende […] circa il 64% degli aventi diritto, chi ha redditi più bassi vota al 52%, mentre chi ha redditi più alti vota all’80%”. Inoltre, “chi non raggiunge un diploma high school vota al 39%, mentre chi ha un’istruzione universitaria avanzata vota all’83%”. Sono dati che rispecchiano, sì, la particolare situazione americana, ma che hanno, pure, un sensibile peso interpretativo. Chi celebra come positivo (o secondario) il fenomeno del non-voto, in sostanza, celebra di fatto il non-voto degli altri, quello delle lower classes. E se fosse vero che chi non vota sarebbe felice e soddisfatto, staremmo comunque parlando dei più poveri e dei più ignoranti: quale felicità, dunque?

E se è vero che nell’Ottocento la percentuale di voto negli USA era invece dell’85%, e considerando che quella era comunque una società meno ingiusta dell’attuale, allora i conti tornano. Il non-voto non misura la felicità insomma, ma il baratro che si apre pian piano tra il vertice della piramide socio-culturale e la sua base. La ‘modernità’ dell’astensione insomma sarebbe la modernità dell’ingiustizia sociale crescente. Marco Revelli, nel suo ultimo libro sulla lotta di classe e sulle disuguaglianze, a questo proposito, riporta dati allarmanti (cito a memoria): il rapporto in termini di ricchezza tra il 5% più ricco del mondo e il 5% più povero era di 3 a 1 nell’Ottocento ma è salito a 114 a 1 nel 2000. Se permarrà questa tendenza, non solo il tessuto sociale sarà divelto centralmente da un abisso di diseguaglianza, ma alle votazioni andranno a votare sempre meno, e meno essi si sentiranno (e saranno) rappresentati (dunque emarginati) dai processi politici della rappresentanza. Certo, se cancelleremo il concetto di rappresentanza e manterremo renzianamente solo quello di ‘governo’, il problema non sussisterebbe più. Ma questo sarebbe un altro paio di maniche.

Vabbè, qualcuno potrebbe dire: pazienza se i poveri e gli ignoranti votano meno. Chissene, perché sono liberi di scegliere. E no, invece, perché questo terzo mancante di rappresentanza ha delle conseguenze politiche rilevanti: amplifica gli effetti di diseguaglianza e inibisce l’esistenza di un efficace meccanismo equamente ridistributivo. Sempre Testi nota come il tema delle politiche sociali negli USA sia stato affrontato quando già la disaffezione al voto era marcata (anni Trenta e poi anni Sessanta del novecento). “Non dovrebbe sorprendere che il welfare state americano sia storicamente nato e rimasto un welfare state limitato, ‘riluttante’ a includere tutti, tutt’altro che universale”. Difatti. Se il terzo più povero e ignorante non vota, non sarà rappresentato, e se non sarà rappresentato ne risentiranno le politiche indirizzate a ripianare gli effetti di diseguaglianza. C’è poco da fare. Se il suffragio non è esercitato nella sostanza in maniera universale, come pretendere che sia universale l’effetto legislativo? Dire che l’astensione è una questione secondaria rispetto al governo, vuol dire che è secondaria l’universalità delle tutele, che è marginale l’ampiezza e l’efficacia delle politiche sociali, che il Jobs Act va bene così, ecco il punto.

Insomma, la rappresentanza non è una sciocchezza. Soprattutto in una democrazia rappresentativa come la nostra. Se si cede su questo concetto, e tutto si riduce renzianamente alla sola questione verticale del governo, gli effetti saranno disastrosi sul piano delle politiche sociali (universalità del welfare), culturali (riforma della scuola pubblica) e fiscali (lotta all’evasione). Le democrazie si reggono orizzontalmente, nel punto di incontro cartesiano di decisione e rappresentanza. Non è un caso che quella americana compensa l’astensione (e viceversa) con la sua verticalità presidenziale. Ma i non rappresentati (i più disagiati, i più ignoranti) tali resteranno se dovessero andare a votare in modo sempre più preponderante i benestanti e gli intellettuali. Si romperebbe proprio quel carattere ‘cartesiano’. Si aprirebbe più di quanto già non si apra, statene certi, la forbice della diseguaglianza, sino a minare i fondamenti della coesione sociale. C’è poco da fare. Le minoranze e i disagiati sono il termometro di una democrazia moderna. Bisogna guardare in quella direzione per capire la salute del nostro sistema di rappresentanza. Capisco che sia un tema poco sentito oggi dalla classe politica di governo. Ma un tweet non è, di certo, la soluzione al problema. Tanto meno il gioco di ‘spin’ fatto dai dottori della comunicazione.

lotta-e-voto

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

1 commento

Araldo 25 Novembre 2014 - 16:56

Morganti sempre bravo e pungente e ci porta “provocatoriamente” a discutere.
Ricordo che Lotta Comunista (una formazione abbastanza importante ancora oggi nel triangolo ex industriale GE-TO-MI) a ogni votazione faceva con le schede elettorali che allora erano distribuite a ogni votazione, un grande falò al quale tutti i militanti assistevano. La motivazione era: “ Votare è stupido perché si offre al potere il polso della situazione del Paese e quando vede il pericolo, il potere, mette in moto la repressione che può essere violenta ma anche solo psicologica. L’unico mezzo è prepararsi alla rivoluzione… ” Tante possono essere le giustificazioni ma credo che nessuna valga a giustificare la mancata partecipazione a un proprio diritto.

Rispondi

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.