Beirut: il caso Rafiq Hariri tra depistaggi e colpi di scena

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Benedetta Piola Caselli

Un ex primo ministro, il quarto politico più ricco del mondo, salta in aria.
Dopo 15 anni e un processo internazionale con spie, testimoni corrotti, travestimenti, furti di documenti, omicidi – viene condannato un pesce piccolo, anzi: piccolissimo.
Cosa è successo? Benedetta Piola Caselli

Un ex primo ministro libanese, il quarto uomo più ricco del mondo, salta in aria insieme a 21 altre persone.

Dopo 15 anni, a conclusione di un’istruttoria del Tribunale Speciale internazionale durata 11 e di una serie di colpi di scena – spie , doppiogiochisti, testimoni corrotti, travestimenti, furti di documenti, omicidi- con un costo stimato superiore al miliardo di dollari, arriva la condanna per una sola persona.
Un pesce piccolo, anzi: piccolissimo.
Cosa è successo?

Facciamo un passo indietro.
E’ una questione lunga e terribilmente complicata, legata a un paese terribilmente complicato.

Rafiq Hariri, la vittima designata, è stato un politico e un imprenditore con l’energia di un leone, l’ astuzia di una volpe e il pelo sullo stomaco di un maine coon.

La sua vita meriterebbe un film almeno quanto quello che è successo dopo la sua morte.
Figlio di una modesta famiglia di provincia, di fronte al futuro grigio che lo attende, emigra in Arabia Saudita praticamente con le valigie di cartone: dopo pochi anni è a capo di un impero economico nell’edilizia, nelle telecomunicazioni, nel settore bancario e in quello petrolifero.

A poco più di quarant’anni è uno dei 100 uomini più ricchi del mondo; a sessanta sarà il numero 4 secondo Forbes.
Non basta.
Dal momento che affari e politica vanno a braccetto, e non si sa chi tira l’altro, per potere investire nel suo paese devastato dalla guerra civile, Hariri comincia a tessere le alleanze che potranno agli accordi di Tafi’q e poi alla pace in Libano.
Quando questo avviene, siamo nel 1989, il nostro ha 45 anni.
In premio ottiene di ricostruire il centro di Beirut – cosa che farà piallando il patrimonio architettonico e colando cemento – e circa un decennio come primo ministro (1992-98 e 2002-04).
Fu vera gloria?
I suoi sostenitori lo osannano per avere riportato gli investimenti stranieri in Libano e come filantropo; i suoi detrattori, per contro, lo accusano di essere un profittatore e di avere strangolato il paese con il debito pubblico e i prestiti internazionali.

Hariri è certo una figura complessa – e complesso è il gioco portato avanti dopo la sua morte, che resta misteriosa: l’attentato omicida, infatti, non è mai stato rivendicato.
Anzi, più correttamente: è stato rivendicato dal gruppo “Vittoria e Jihad della grande Siria” – un gruppo che però non esiste.
Questo, diciamo, è il colpo di scena numero zero in una faccenda che ne vede diversi, e che sotto vado ad elencare.
Nella pratica, comunque, tutti negano di essere implicati nell’attentato e di avere avuto interesse ad uccidere Hariri, anche perché – precisano – si era già dimesso da Primo Ministro.

Chi è stato, allora?
E perché?

Ogni gruppo religioso indica la responsabilità dell’altro, in un quadro di conflitto potenzialmente esplosivo e in cui l’interferenza delle potenze regionali – Siria ed Israele – è all’ordine del giorno.
Va ricordato che il Libano è una repubblica fondata sul confessionalismo, vale a dire che la religione diventa il principio ordinatore della rappresentanza politica e il cardine del sistema giuridico.

In pratica, tutte le cariche politiche sono spartite per quote a seconda delle religioni, con tre costanti: il Presidente della Repubblica è cristiano, il Primo Ministro è sunnita, il Presidente del Parlamento è sciita.
Al momento in cui avviene l’omicidio, cioè nel 2005, il Libano è ancora invaso al sud dall’ esercito siriano – l’unico a non essersi ritirato dopo la fine della guerra civile, che staziona lì sostenendo Hezbollah da quindici anni.

Il primo effetto della morte di Hariri, dunque, è lo scoppio di moti non violenti ma partecipatissimi – la rivoluzione del cedro – che reclamano ed ottengono la partenza dei siriani.

Il dato è importante per capire: nel 2005 le tensioni fra Siria e Libano sono acutissime.
E il paese non trova pace: l’anno dopo, nel 2006, scoppia la guerra con Israele, che bombarda ed invade il Libano per rappresaglia contro gli attentati di Hezbollah.

Il conflitto termina per l’interposizione delle Nazioni Unite e l’invio della forza di interposizione UNIFIL, ancora presente nel sud del paese.
Nel quadro generale, dunque, non solo è teso il fronte dei rapporti con la Siria, ma è potenzialmente esplosiva la divisione interna fra libanesi e libanesi sciiti simpatizzanti di Hezbollah, mentre i rapporti con Israele sono apertamente conflittuali.

In questo contesto l’ ONU raccomanda, risolve e crea una commissione internazionale d’inchiesta per fare chiarezza sulla morte di Hariri o meglio, detto più diplomaticamente, per aiutare il Libano a fare chiarezza sulla morte di Hariri.

Si tratta dell’ UNIIIC guidata dal tedesco Detlev Mehlis, il quale non ha dubbi: l’attentato è di matrice siriana e ne sono colpevoli anche i servizi segreti deviati.
Vengono arrestati quattro generali, accusati di concorso in strage.

Ma gli omicidi politici in Libano non si fermano: ne fanno le spese un paio di ministri, un giornalista, il capo del partito comunista.

E’ lo stesso Libano, quindi, a chiedere all’ Onu di intervenire con un Tribunale Speciale.
Questa appare l’unica strada percorribile, perché è la sola che – assicurando un giudizio imparziale – evita le accuse di favorire una confessione a scapito dell’altra.

Fra vari tira e molla, il Tribunale Speciale per il Libano entra in funzione nel 2009.

La strada sembrerebbe in discesa, con i colpevoli già assicurati alla giustizia e pochi altri esecutori da coinvolgere, e invece no.
Primo colpo di scena: le testimonianze che hanno inchiodato i quattro generali al soldo dei siriani sono tutte invalidate, perché si scoprono date da agenti segreti poi scomparsi o addirittura provati corrotti.

Il primo atto del Tribunale Speciale, quindi, è di liberare i quattro generali dopo quattro anni di carcere.

Lo stesso figlio di Hariri – politico di primo piano anche lui – dichiara che la pista siriana è un errore.

Secondo colpo di scena: uno dei generali liberati, nel tentativo di essere riabilitato, deposita prove contro Israele.
Il Tribunale Speciale assicura che valuterà con attenzione.

Terzo colpo di scena: un giovane ufficiale delle Forze Speciali Interne, Wissem Eid, porta alla commissione una serie di tracciati telefonici e geolocalizzazioni che ritiene relativi all’attentato.
Mentre sta andando a deporre, salta in aria.

Quarto colpo di scena: mentre sui tabulati di Eis si cerca di ricostruire l’identità dei possibili attentatori, un gruppo di uomini travestiti da donne si introduce in un ospedale e ruba delle schede mediche contenenti dati sensibili e numeri di telefono.
I medici, in stato di choc, dichiareranno di non averci capito niente.

Quinto colpo di scena: il procuratore generale Daniel Bellamare arriva ai nomi ed emette dei mandati d’arresto nei confronti di 5 Hezbollah, ma non riesce a prenderne neanche uno e quindi imposta il processo in contumacia.
Uno di loro, considerato il capo, morirà in Siria nel 2016.
Gli altri sono tuttora latitanti.

Sesto colpo di scena: mentre tutti si stupiscono che dei libanesi – per quanto Hezbollah – possano avere ucciso Hariri, e si cerca di arrestarli, si procede contro i giornalisti.

Un editore di una rivista vicina ad Hezbollah e una giornalista della rete televisiva Al Jadid sono accusati di intralcio alla giustizia e rivelazione di segreto, e vengono imputati con richiesta di 7 anni di reclusione e 100.000 euro di multa a testa.
Saranno assolti dopo due anni.

Settimo colpo di scena: mentre gli Hezbollah sostengono che l’omicidio è un regolamento di conti fra sunniti per questioni di potere e soldi, l’ex primo ministro Saad Hariri cambia nuovamente idea e dichiara di essere sicuro che, ad ammazzare il padre, siano stati proprio i siriani per mezzo di Hezbollah.

Il 10 luglio 2020, in piena crisi finanziaria e da Covid-19 , il Tribunale Speciale annuncia di avere emesso il verdetto, che renderà pubblico il 7 agosto 2020.
Arriva poi l’esplosione del porto di Beirut e si rimanda, appunto, al 18 agosto.

La sentenza è attesa con trepidazione: in particolare, ci si chiede se verrà riconosciuta la responsabilità della Siria e degli Hezbollah nell’attentato.

Ed ecco quello che è successo: il TSL, deludendo molti, ha dichiarato colpevole solo il 56 enne Salim Jamil Ayyash, assolvendo gli altri tre.
La sentenza non ha riconosciuto alcuna responsabilità né della Siria né della dirigenza di Hezbollah, e dello stesso Ayyash non è provata (solo sospettata) l’affiliazione con Hezbollah.
Come mai solo uno? Cosa è stato degli altri tre? Ayyash ha agito da solo? Senza appoggi e senza struttura?
Per saperlo si deve aspettare la pubblicazione delle motivazioni, apparentemente di oltre 2600 pagine.

Nel frattempo, nessun gruppo gioisce – come spesso in molti casi – ma, parimenti, nessuno appare particolarmente urtato.
I sostenitori di Hariri – i sunniti, sostanzialmente – lamentano che si tratti di un risultato ben meschino rispetto a 11 anni di istruttoria e un costo di oltre un miliardo di dollari per il TSL.
Il costo è stato sostenuto al 49% dai libanesi (il 51% da donazioni internazionali) e, si dice, il denaro avrebbe potuto essere investito con profitto molto maggiore per rafforzare il sistema di giustizia interno.
Tutto questo sforzo valeva la pena per la condanna di un pesce piccolo, anzi: piccolissimo?
Le forze istituzionali sottolineano che la vittoria, per di più, è puramente teorica: Ayyash è latitante e lo Stato non sa come far valere la sentenza.
Il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ha ribadito quanto annunciato: la decisione non li riguarda, e la legittimità del Tribunale resta non riconosciuta, in quanto considerato portatore di un’agenda politica.
Di certo non verrà fatto alcuno sforzo per aiutare ad assicurare Ayyash alla giustizia.

La sentenza, quindi, è universalmente letta come una decisione di compromesso per non riaccendere il conflitto in un paese già troppo provato dalla crisi economica, dal covid, dall’esplosione.
Diventa lecito chiedersi se il TSL sia riuscito a portare a termine la sua missione.
Nell’immediato, se l’obiettivo era diventato evitare il crollo di una nazione allo stremo, si può credere di si.
Alla fine dei conti, non ci saranno ripercussioni internazionali perché la Siria non è più tirata in ballo; Hezbollah potrebbe soprassedere su una condanna così misera e che, comunque, non ne accerta la responsabilità organizzativa; e – almeno in linea di principio – si può affermare che si sia trovato un responsabile.
Certo, bisogna ancora vedere se il governo compirà qualche sforzo per catturare Ayyash – e, in questo caso, incontrerà la fiera opposizione degli Hezbollah – o se si accontenterà di una vittoria morale, così parziale, che però dà almeno un nome alle famiglie delle vittime.
Se l’obiettivo era assicurare la giustizia, invece, occorrerà un’analisi più attenta di come è stata svolta l’istruttoria.
Può darsi che a qualcuno interessi.
L’ intervento internazionale è ancora una speranza per i paesi incapaci di assicurare una giustizia interna, ovviamente a condizione che si arrivi a risultati convincenti.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.