di Fausto Anderlini – 25 febbraio 2019
Per noi tutti Pisapia fu un cult. Lo pedinammo ovunque come fosse una rock star. Quelle sue esibizioni dal palco, coi foglietti che svolazzavano mentre chiedeva disperatamente da bere, quell’eloquio trascinante e sgrammaticato, quella voce pigolante, quel ciuffettino che lo rendeva così simile a Macario, quel portamento da equipe 84, quelle battute accattivanti alle quali nessuno rideva, quei contenuti penetranti coi quali eccitava gli animi, quel vocabolario di poche parole e rigorosamente confuse, quelle vesti da intellettuale feltrinelliano…uno spettacolo entusiasmante e impareggiabile che valeva levatacce, marce di trasferimento, soldi e fatiche. Il nostro destino politico fu segnato quando fummo presi dalla sindrome distruttiva del fan che deve immolare il suo idolo e decidemmo di liberarci di lui per issare al suo posto Grasso con le sue grisaglie alla Alberto Lupo.
E fu il vuoto. Cademmo dalla padella alla brace. Mentre la sinistra è nella sua natura padella, non brace. Una friggitoria, un fast food, una tavola calda (o riscaldata). E non per caso la mente acuta di Amato chiamò il movimento dei Sindaci di sinistra come il ‘movimento delle cento padelle’. Se la sinistra vuole risorgere non serve Padellaro, ma la padella, anzi cento padelle. E nella batteria non può non far la sua figura Pisapia, che è anche teglia, pirofila e stampino. Il tegamino federativo necessario.
Ora non mi resta che chiedere scusa. A nome di tutti Scusa Giuliano. Perdonaci. E scusaci Bersani, che queste cose le avevi capite. Rientriamo tutti nella padella. Con lei galleggeremo sui marosi e alla fine vinceremo. O friggeremo. Fa lo stesso.