Fonte: Minima Cardiniana
di Franco Cardini – 25 febbraio 2019
Torna, quasi un quarantennio dopo (il doppio dei fatidici “Vent’anni dopo” cari ad Alexandre Dumas), il fatidico romanzo di Umberto Eco. Nel 1980, fece sul serio epoca: da allora, è stato tradotto in una quarantina di lingue e ha venduto più di 50 milioni di copie. Se, tuttavia, appena un 10 per cento di chi lo ha comprato lo avesse letto sul serio e avesse cercato di capirlo, lasciatemelo dire, il mondo, oggi, sarebbe diverso. 5 milioni di persone in grado di seguire le vicende del francescano-detective Guglielmo di Baskerville e del novizio Adso da Melk in un’abbazia-biblioteca-labirinto, tra le insidie del Santo Satana benedettino Jorge de Burgos, cieco al pari del suo modello (il grande Borges: il poeta reazionario argentino, che Eco detestava e idolatrava), e del doctor terribilis, l’inquisitore domenicano Bernard Gui, sarebbero state davvero il sale della terra. Non è purtroppo stato così: e, nell’odierna avanzata dell’analfabetismo di ritorno dalla quale l’Occidente odierno è afflitto, i risultati si vedono.
Il libro acquistato, strapremiato, idolatrato e quasi per nulla letto del sulfureo professore alessandrino – da allora divenuto romanziere prolifico – ha fatto davvero strada. Lo abbiamo visto sul grande schermo, con un leggendario Sean Connery (lo 007 per eccellenza: e chi altri sennò?) nel saio bigio di frate Guglielmo; ha dato vita a innumerevoli games informatici e a migliaia di quasi sempre pessime imitazioni; ora lo vedremo sul piccolo schermo, dove è probabile che il pur valente John Turturro ci faccia rimpiangere Connery.
Era, a modo suo e in un certo senso, un fantaromanzo storico, zeppo di testi autenticamente medievali tradotti quasi alla lettera, ricchissimo di dotte e funamboliche citazioni e allusioni, che impietosamente attaccava quella che per lui era la cultura reazionaria del Novecento (il “fascismo eterno”, lo avrebbe più tardi definito) e che al tempo stesso prendeva finemente posizione su un’infinità di problemi storico-filologici relativi all’età nella quale inseriva la sua fabula: un Trecento attraversato da paure apocalittiche e da audaci eresie e storicamente parlando molto più fedele alla storia di quanto parve a molti. Ma per rendersene conto bisognava saperne di cose, su quel tormentato XIV secolo e su quel cattolicissimo professore e polemista ateo innamorato della scolastica. Lo capì bene il medievista Jacques Le Goff, suo grande amico, strapagato e inascoltato consulente della versione cinematografica del 1986, diretta da Jean-Jacques Annaud.
In un duro paesaggio di montagne desolate, un’abbazia arcigna come una fortezza cela al suo interno un torreggiante edificio, un gigantesco pozzo librario a pianta ottagonale evidentemente ispirato al mirabile battistero di Parma e dal labirintico interno a molti piani. Là, si svolge un’intricata storia di assassini e di assassinati, di grotteschi eppur tenerissimi cercatori di Dio e di sapienti spietati teologi, di fraticelli che cedono al fragile richiamo d’amore di ragazzine celate sotto luridi cenci e di ormai anziani religiosi che molto hanno studiato e molto sbagliato, che sanno di aver tradito sé stessi e che sono abilissimi nel decodificare il minimo indizio (“Elementare, Adso…”, ripete fra Guglielmo al suo ingenuo discepolo). Là, si snoda il tragico duello tra chi dai propri errori e dalla lezione della storia ha appreso l’umana pietà e chi cerca nell’Eterno la chiave dell’inflessibile Verità, che ignora il sorriso e condanna il perdono.
Il nome della rosa è un capolavoro fortunatissimo e incompreso: al pari, del resto, del secondo romanzo echiano, Il pendolo di Foucault, o dell’ultimo, Il cimitero di Praga, che, per alquanti versi ne sono la continuazione semiautobiografica. Ma anche lì l’autobiografia, come il diavolo (o come il buon Dio?), sta nei dettagli.