Fonte: La stampa
Cacciari: No ai totalitarismi sul fine vita, aiutiamo i malati a fare la scelta giusta
Quando si affrontano questioni come vita e morte è necessario anzitutto essere ben consapevoli della radicale inadeguatezza di qualsiasi norma le riguardi. La politica che attraverso il suo diritto intendesse perfettamente regolarle in base ai propri fini sarebbe il paradigma di un moderno totalitarismo. Vita e morte sono radicate nel senso angoscioso della mia singolarità. Nessuno può vivere al mio posto e nessuno morire. Ciò significa che io ne sia l’assoluto padrone? Dispongo forse della mia vita come mi piace? Della propria energia miliardi di uomini in passato e oggi sono stati liberi soltanto di poterla vendere. Il mio essere è sempre in relazione – anche quello del monaco lo è, magari solo col suo Dio. E la morte? Non si muore forse anche per gli altri? Anche la mia morte è in relazione con loro, come lo è stata la mia vita. Posso ignorarlo e affermare semplicemente che il morire appartiene a me soltanto e io soltanto sono chiamato a deciderlo? Ciò vale anche per il suicida, anche a lui verrà il pensiero: come la mia morte è destinata a pesare sugli altri? Vi è una responsabilità anche nel morire. Un paradigma puramente individualistico non regge – e tuttavia con quale ragionamento sostituirlo, proprio oggi, quando esso domina incontrastato almeno in Occidente?
Per capire il problema liberiamo il terreno da alcune domande preliminari, non parliamo di accanimenti terapeutici né dell’insensato prolungamento di condizioni di sofferenza, equivalente a una pratica di tortura. In questi casi la norma dovrebbe semplicemente stabilire che l’assistenza a una «buona morte», laddove richiesta dal paziente, è obbligatoria. Prendiamo invece il caso di una persona per la quale la scienza medica indichi ancora qualche possibilità di cura o non pronunci un definitivo «non possumus», ma che non tolleri più la propria condizione. Come si deciderà del suo diritto a ricorrere a una morte assistita? E più ancora (poiché i problemi si comprendono soltanto se stressati ai loro limiti logici): come tratterà la norma una persona semplicemente stanca di vivere, ma non abbastanza forte e coraggiosa da darsi la morte? Una persona malata del male di vivere verrà semplicemente rimandata allo psicologo? O affidata alle strapagate «cure» di cliniche d’oltralpe? Medicina di classe già funzionante anche per questa settore.
Sembra che qualsiasi norma dovrà fondarsi sull’accertamento dell’assoluta gravità della malattia. Ma come è possibile «normare» l’idea di malattia? Non dipende forse la sua gravità anche, e a volte soprattutto, dal carattere del malato? E tuttavia, qualsiasi norma, per sua natura, standardizza, tipicizza. Potrebbe mai considerare la gravità della malattia dal punto di vista del singolo malato (escludendo per principio, vale la pena ripeterlo, quel profondo e misterioso male che porta al suicidio)? Eppure, in qualche misura, lo deve. Proprio se riconosce la propria impotenza a definire che cosa sia «malattia», la norma dovrà considerare fondamentale il punto di vista del soggetto paziente. Fondamentale, ma non esclusivo, a meno non si stabilisca che chiunque e comunque possa ricorrere quando lo richieda alle procedure della morte assistita, come a qualsiasi altra terapia – e questa pare la tendenza che si va ovunque rafforzando, naturalmente con gli effetti discriminatori e di classe cui si è accennato.
Rimane intatto il problema, di fronte a cui non solo il diritto, ma la stessa scienza non possono che chinare il capo e dismettere ogni presunzione: chi può decidere la profondità del male che mi affligge? Chi può sostituirsi alla mia volontà di morire? E tuttavia vita e morte sono anche fenomeni sociali; o il diritto si mostra in grado di affrontarli con norme che abbiano una forma e possano durare, oppure essi resteranno in mano a potenze extra-giuridiche: abitudini, consuetudini, tradizioni etiche o religiose. Erano le istituzioni che presiedevano a queste potenze a svolgere in passato una funzione bio-politica. La politica si trova oggi chiamata, piaccia o no, a sostituirle. Ma guai se pensasse di assumere funzioni altrettanto pervasive, guai se operasse come fosse in grado di sapere che cosa è malattia e indicasse tassativamente come deve essere curata. Le sue norme debbono limitarsi a garantire che l’esercizio della libertà individuale avvenga in forme tali da poter essere consentito a tutti. Come è il soggetto che deve poter decidere se sottoporsi o meno a una qualsiasi terapia, così rimane lui, la sua volontà il fondamento di ogni assistenza a morire.