di Nicola Boidi
A un anno dallo scoppio delle vicende di cronaca giudiziaria dell’impero finanziario-industriale di Salvatore Ligresti e dei suoi familiari (è annunciata per l’ottobre prossimo la prima seduta dei suoi processi), il presidente dell’authority di antitrust (di garanzia della concorrenza e del mercato) Pitruzzella riporta in primo piano, di fronte all’evidente e drammatico declino economico del Paese, la questione di quale sia la natura prevalente di un certo capitalismo di casa nostra, il «capitalismo di relazione», in cui alcuni grandi potentati economici s’intrecciano con il potere politico e amministrativo e con le istituzioni finanziarie, sono alla ricerca di rendite di posizione e di quella espansione della spesa pubblica improduttiva che favorisce le lobbies e i cacciatori di rendite. Anche attraverso questi meccanismi complessi, questi intrecci perversi tra pubblico e privato, osserva Pitruzzella, «si è creato quell’enorme debito pubblico che costituisce un grande ostacolo alla crescita economica ed un fardello ingiustamente caricato sulle nuove generazioni».
Di questo capitalismo di relazione sicuramente la famiglia Ligresti è stata a un tempo un campione e un caso limite. Ricordiamo brevemente i capi d’imputazione di cui, nel corso del tempo, sono stati chiamati a rispondere Salvatore Ligresti, i suoi figli e alcuni manager delle società del suo gruppo: falso in bilancio aggravato e manipolazione di mercato per la mancata comunicazione ai piccoli azionisti della società di Assicurazioni Fonsai (Fondiaria Sai) di un buco nella riserva sinistri di circa 600 milioni di euro. La mancata comunicazione di tale deficit avrebbe causato alla società una perdita di 300 milioni di euro e danneggiato almeno 12.000 risparmiatori, a causa della perdita di valore del titolo in borsa.
Il buco della riserva sinistri della Fonsai, secondo l’ipotesi accusatoria della magistratura, avrebbe inoltre consentito negli anni la distribuzione di utili per la somma di 253 milioni di euro alla Holding della famiglia Ligresti, la Premafin, dove invece si sarebbero dovute registrare delle perdite. Numerose operazioni immobiliari con parti correlate,corruzione, aggiotaggio informativo,(ossia comunicazioni di false notizie che occultavano perdite e influenzavano di conseguenza le scelte degli azionisti) che accompagnavano il costante flusso dei dividendi, sono gli altri reati contestati.
La «Ligresty story» può essere considerata un caso limite, per il suo sconfinamento clamoroso e reiterato nella dimensione dell’illegalità e nel campo del penale, di quel modello di capitalismo di relazione che è certamente uno tra i diversi capitalismi all’italiana, ma in ogni caso un modello capitalistico importante e molto influente, poiché legato a filo doppio a quell’intreccio tra speculazione finanziaria, affarismo economico «border line» tra il legale e l’illegale, e potere politico, che ha fatto dei rappresentanti di questo sistema un’autentica casta non inferiore e meno potente della famigerata «casta politica » messa alla berlina in questi anni. A dimostrare che non si tratti di un caso isolato o di un modello «minoritario» e «ininfluente » del fare impresa nel nostro paese basterebbe il porsi i seguenti quattro quesiti:
1) Come è avvenuto che il declino economico del nostro Paese abbia avuto inizio assai prima dell’inizio ufficiale della recessione globale del 2008?
2) Come è potuto accadere che la nostra crescita economica sia andata in fase di stagnazione a partire dal 1994, quasi una data simbolica, con una crescita del nostro Pil uguale pressoché a zero nel periodo 1994-2008?
3) Come si concilia questo dato con il fatto che, contemporaneamente, diversi punti di Pil si siano trasferiti dalla retribuzione del lavoro al profitto delle imprese (circa 8 punti di Pil negli ultimi venticinque anni), tanto ché tra il 1995 e il 2005 il profitto medio delle imprese risultava cresciuto del 15,5%, del 63% calcolando solo le grandi imprese, e addirittura del 90% considerando solo le 1400 grandi imprese computate da MedioBanca?
4) Come sta insieme questa crescita del profitto con la non crescita della nostra economia nazionale che risale ormai a vent’anni fa, e dove è andata a finire questa enorme somma di risorse finanziarie se non è stata reinvestita, come risulta dagli studi di settore, in ricerca e sviluppo del sistema d’impresa del Paese?
Eppure negli ultimi vent’anni ha imperato e accompagnato la «discesa in campo» del cavaliere Silvio Berlusconi il luogo comune neo-liberista secondo cui l’impresa privata non sarebbe una parte sociale tra le altre, ma farebbe da esempio, si porrebbe su un piedistallo molti gradini al di sopra della politica, la tenuta del paese sarebbe merito degli uomini d’azienda, esso andrebbe avanti solo grazie ai loro sforzi, e nonostante il «remar contro» di corrotti e fannulloni: politici, impiegati statali, docenti universitari, intellettuali e giornalisti. É il mantra ossessivo che con una sorta di tam tam mediatico è penetrato nella coscienza della maggioranza silenziosa per cui la «casta», ,il capro espiatorio di tutti i mali di questo paese, sarebbe da ricercare tra le fila di quelle altre categorie professionali e sociali, e nessuna responsabilità, per il piano inclinato su cui è scivolata l’Italia in questi ultimi vent’anni, sarebbe da addossare agli uomini d’azienda. Questa vittimizzazione, o dichiarazione totale d’innocenza, ha avuto inizio in concomitanza con le vicende delle indagini di Mani pulite del 1992-1994, che pure scoprì una gigantesca ragnatela d’intrecci tra una classe corrotta – i politici – e una classe corruttrice – gli imprenditori – ma la classe imprenditrice, per bocca del loro sindacato, la Confindustria dell’epoca, se ne proclamò totale vittima innocente, «concussa», obbligata al sistema del pagamento delle tangenti. Le vicende economiche e i loro riflessi sociali, non solo delle aziende della famiglia Ligresti, ma di molti degli imperi finanziario-industriali che hanno solcato la scena della società italiana in questi anni, raccontano un ‘altra storia, e confutano clamorosamente quel luogo comune.
La «Ligresty-story» al di là dei suoi risvolti penali, è esemplare di un metodo di gestione di molte aziende italiane: scatole cinesi, assenza di meriti, familismo, estrazione dei benefici privati del controllo, stock option, cariche sociali pietrificate e indipendenti dai meriti di chi le detiene.
In un capitalismo «ideale» (ammesso che esista) la competizione è leale e ciascuno fa il suo mestiere, con flessibilità e meritocrazia. I manager dirigono ed elaborano strategie, i dipendenti eseguono con impegno, gli azionisti investono il loro denaro in progetti industriali che se vanno bene remunerano il rischio; lo Stato controlla il tutto come un arbitro severo e imparziale.
Posta a confronto con tale modello la «variante Ligresti» del capitalismo di casa nostra segna una distanza abissale. La «Ligresty story» è una sorta di «Dinasty all’italiana» della nascita, crescita e declino di un impero finanziario-industriale che al suo apogeo era stimabile in un valore complessivo di borsa tra i 5 e i 7 miliardi di euro, un impero che ha attraversato, quasi con una valenza simbolica, gli ultimi cinquant’anni della storia d’Italia. Riemerso dalle condanne per tangenti e corruzione a seguito dell’inchiesta di Mani pulite, Salvatore Ligresti, originario di Paternò (Catania), la cui carriera è stata nutrita da una trama di conoscenze e intrecci influenti e importanti tra mondo della politica, della finanza e dell’imprenditoria milanesi, (la famiglia la Russa, Michelangelo Virgillito, Michele Sindona, Bettino Craxi, Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi, Cesare Geronzi e Alberto Nagel), una volta riacquistati i requisiti di onorabilità necessari per guidare le compagnie di assicurazioni, decide di continuare ad affidare ai figli la gestione del suo impero finanziario -industriale, affiancandogli manager di provata fedeltà, Fausto Marchionni e il figlio Fabio Marchionni.
Le traversie giudiziarie dell’ «imperatore» non hanno impedito negli ultimi vent’anni al suo impero finanziario-industriale di continuare a crescere, giungendo a comprendere il «controllo» delle Assicurazioni Fondiaria-Sai (la seconda nel settore in Italia dopo le Generali), Milano Assicurazioni e un importante partecipazione nelle Generali – affidate alla guida della figlia Jonella – della catena alberghiera Atahotels, dell’Immobiliare lombarda e di un importante quota d’Impregilo, il 33% delle azioni, (colosso nel campo delle costruzioni) – date in gestione al figlio Gioacchino Paolo – e della società di famiglia Sinergia che a sua volta controlla la holding Premafin, e alcuni posti nel cda delle partecipate milanesi, affidate all’altra figlia Giulia Maria. Inoltre i figli di Ligresti si spartiscono ciascuno una decina di posti in altrettanti consigli di amministrazione.
All’epoca della loro assunzione al ruolo di dirigenti esecutivi nessuno dei figli di Salvatore Ligresti ha più di trent’anni, nessun titolo di studio superiore al diploma, né alcuna esperienza lavorativa al di fuori delle aziende di famiglia. Nel frattempo Salvatore Ligresti si è alleato con l’ex concorrente Silvio Berlusconi, e da questo nuovo sodalizio sono sorti nuovi importanti progetti immobiliari, fra i quali la gigantesca Citylife, il progetto di riqualificazione urbanistica dell’ area della vecchia Fiera di Milano, che dovrà sorgere in collegamento all’Expo 2015. Il meccanismo con cui, negli anni, la famiglia Ligresti governa il suo impero finanziario-industriale, a partire dalla società di famiglia Sinergia e dalla Holding Premafin, sono le cosiddette «scatole cinesi». Le scatole cinesi, come è noto, consentono di controllare un’ azienda o più aziende pur investendo e possedendo solo una minima percentuale del capitale complessivo: ogni contenitore o scatola – come nel gioco delle matrioske russe – a catena ne apre e ne contiene una successiva più piccola e questa a sua volta, a cascata, ne contiene un’ altra più piccola, fino a quando non s’ incontra l’ultima, la più piccola, che è solida e compatta. La società A è controllata al 51% dalla società B che a sua volta è posseduta al 51% da C, che a sua volta è controllata al 51% da D, a sua volta controllata al 51% da Z. La scatola più piccola Z – nel caso specifico dei Ligresti la holding Premafin– decide dunque i destini di A, pur avendo in mano appena il 51% del 51% del 51% del 51% del capitale. Questo meccanismo è consentito dal diritto e dalla prassi societarie italiane e fa valere il motto pronunciato più di 30 anni fa da Enrico Cuccia: «le azioni si pesano e non si contano».
Ovviamente il meccanismo delle scatole cinesi, se permette il controllo delle società per azioni, contemplando investimenti di capitali minimi e detenzione di quote minime di azioni, consente dividendi altrettanto modesti, e allo scopo d’ integrare tali magri emolumenti i Ligresti varano maxi piani di stock option. Le stock option in teoria sarebbero incentivi che i manager ricevono dalle loro aziende come premio del loro impegno in progetti o piani che hanno portato a buoni risultati l’azienda. Tali incentivi sono assegnati in azioni (stock) che sono «opzioni» (option) che possono essere ricevute dopo un determinato intervallo di tempo. Dunque le stock option dovrebbero essere uno strumento di flessibilità (la paga del manager dipende dai risultati) e di meritocrazia (i meriti tangibili vengono pagati con azioni). Inoltre, essendo ricevute solo dopo un determinato intervallo di tempo, le stock option servirebbero a fidelizzare i manager migliori impedendo che siano attratti dalle offerte di altre aziende.Invece nel caso delle aziende Ligresti le stock option non sono affatto legate al merito di chi le riceve, non sono neanche flessibili, ma vengono semplicemente a costituire una rendita ulteriore per i manager, oltre i loro stipendi drogati. Fatto sta che le stock option varate dai Ligresti compensano sia i magri dividenti delle società controllate, sia la crisi generale del gruppo, sia il forte indebitamento dell’azienda totalmente di proprietà di famiglia, non quotata in borsa, Sinergia (440 milioni di debiti bancari a fronte di un patrimonio di 105 milioni e una minusvalenza potenziale di 50 milioni di euro per il crollo borsistico delle partecipazioni). Ciò nonostante con quel meccanismo la famiglia ha incassato 49 milioni di euro di emolumenti tra il 2007 e il 2010.
Ma questi emolumenti vengono pagati dagli azionisti di minoranza: quello che in gergo viene chiamato «parco buoi». Succede spesso nel gruppo Ligresti che le perdite vengano trasferite agli azionisti di minoranza. Ad es. nel 2008 Fondiaria Sai ha comprato da Sinergia la catena alberghiera Atahotels che presentava allora un bilancio in pareggio ma , non appena compiuta l’operazione, è emersa una perdita, un debito nel primo semestre del 2009 di 20 milioni di euro, ed è stata denunciato uno stato di crisi. Si è reso necessario un piano di ristrutturazione e un aumento di capitale di 12 milioni di euro, a carico dei nuovi azionisti di Fonsai: il «parco buoi» appunto. Hanno poi fatto seguito gli eventi, un epilogo provvisorio di cui nei prossimi mesi conosceremo gli ulteriori sviluppi, che hanno portato all’intervento della magistratura. La vicenda Ligresti è un caso limite del capitalismo italiano? Forse sì. I metodi di gestione delle sua aziende sono casi isolati e sporadici nel mondo delle grandi S.P.A. del nostro paese? Niente affatto.
Basterebbe citare i casi celebri della cessione, alla fine del 2008, di Alitalia alla cordata Cai, guidata da Colaninno, Ligresti («toh, ancora tu?…»), Marco Tronchetti Provera, Francesco Caltagirone Bellavista, Gavio, Benetton, Emilio Riva, Crociani, cessione finalizzata a «evitare i rischi della colonizzazione della compagnia da parte di stranieri », i cui vantaggi vanno tutti alla cordata, e i costi a carico dello Stato.
O della compagnia di telecomunicazioni Fastweb – che negli anni scorsi è stata sottoposta ad indagini giudiziarie su collusioni con andragheta calabrese e malavita romana d’impronta fascista, finalizzate all’evasione di circa 3 miliardi di euro di imposte – i cui due soci fondatori, Salvatore Scaglia e il finanziere Francesco Micheli riescono a scaricare tutti i costi dell’operazione al Comune di Milano (con cui hanno costituito una società mista) e ad acquisirne tutti i benefici finanziari.
O della distribuzione «impropria», a mò di rendita, di laute stock option nelle società Bulgari, Reply, Tod’s , Pirelli.
O dei ricchi stipendi e premi di produzione elargiti a top manager di società in palmare contrasto con i risultati deludenti o addirittura fallimentari di quest’ultime, qual è il caso per gli stipendi e premi di produzione incassati da Giancarlo Cimoli, top manager di Alitalia tra il 2005 e il 2006, anni in cui ha incassato rispettivamente 2,8 milioni di euro il primo, e 1,5 milioni di euro il secondo anno, mentre la compagnia di bandiera italiana nel solo 2006 arrivava a 626 milioni di perdite; o per la retribuzione del top manager di Trenitalia, Elio Catania, che a fronte di perdite dell’Azienda per 472 milioni nel 2005, incassava 1 milione e 935.000 euro, per poi incassare una «buonuscita » dall’azienda di 8 milioni di euro nel 2006.
O del caso più illuminante di tutti, un vero «campione » di quel capitalismo alla «rovescia» – che cioè non investe, non innova, non rischia per il bene dell’azienda ma è totalmente finalizzato ai benefici privati, pur rimanendo nei termini della legalità: l’impero finanziario-industriale guidato da Marco Tronchetti Provera tra il 2001 e il 2007. Ereditata negli anni 90 dall’ex suocero Leopoldo Pirelli l’azienda Pirelli (cavi e pneumatici), Marco Tronchetti Provera si è trovato agli inizi degli anni 2000 a capo di un impero che oltre alla Pirelli comprendeva anche la semimonopolista Telecom Italia, l’azienda energetica Camfin e l’immobiliare Pirelli real estate. Con un impegno minimo di capitale di 200 milioni di euro (a fronte di un fatturato di oltre 50 miliardi di euro), Tronchetti con il sistema delle scatole cinesi detiene il controllo delle sue aziende.
I molti debiti contratti per acquisire Telecom Italia, la conseguente vendita a prezzi stracciati della parte più pregiata di Pirelli (i cavi e i sistemi tecnologici) a una finanziaria gestita dalla banca americana Goldmann Sachs che la riquoterà in Borsa a un valore molto più alto, l’inevitabile cessione della Telecom nel 2007 a fronte dell’impossibilità di far fronte ai debiti , sono solo alcune delle tappe della gestione manageriale di Tronchetti Provera. Fatto sta che tra il 2005 e il 2009 la gestione Tronchetti Provera ha visto pessimi affari, pesanti perdite di bilancio, debiti in crescita e tracolli finanziari (nel 2007 il titolo Telecom era sceso a un euro di quotazione mentre era stato inizialmente pagato a 4,7 euro), con conseguenze pesantissime per molti dipendenti (messi fuori del sistema o in cassa integrazione): all’inizio dell’era Tronchetti i dipendenti Telecom erano 106 mila, alla fine si sono ridotti a 84 mila, i dipendenti Pirelli inizialmente, negli anni 90, erano 75 mila, alla fine si sono ridotti a 31 mila.
Pessima la situazione anche per l’immobiliare Pirelli Real, tanto che ha chiuso il 2008 con 365 milioni di euro di fatturato e 195 milioni di perdite. Secondo gli analisti economici Telecom Italia nei primi anni 2000 avrebbe potuto emergere come campione tecnologico internazionale nel settore strategico delle telecomunicazioni ma il management di Tronchetti Provera non aveva la possibilità di finanziare i forti investimenti che sarebbero stati necessari allo scopo.
Anzi, per pagare gli interessi sul debito notevole contratto per acquisire l’azienda, la proprietà era costretta a destinare quasi tutti gli utili non a reinvestimenti per attività di ricerca e sviluppo, ma a dividendi per gli azionisti, mentre i principali concorrenti investivano tutto quello che potevano. Se gettiamo uno sguardo panoramico osserviamo che tra le S.P.A italiane (società per azioni quotate in Borsa) il controllo delle aziende per mezzo di scatole cinesi è diffusissimo, che il varo «improprio» di piani di stock option emessi tra il 2004 e il 2006 riguarda il 70,19% dei 168 titoli industriali quotati a Piazza Affari. Risulta inoltre che molte aziende famigliari italiane preferiscono affidare incarichi di responsabilità o a personaggi fedeli, manager assunti sulla base di conoscenze personali e valutati sulla base del loro grado di fedeltà ai desideri della proprietà, o a membri della propria famiglia, piuttosto che a professionisti capaci e meritevoli, a prescindere che ciò vada a beneficio dell’azienda, dei suoi dipendenti e dei suoi azionisti di minoranza. In questo contesto non sorprende che solo il 20% delle imprese famigliari sopravviva alla prima generazione. Le altre falliscono o vengono vendute. Questa tendenza familistica di controllo sarebbe une delle cause della stasi nella piccola dimensione delle aziende italiane o della mancata loro ulteriore crescita.
Altri meccanismi di governo delle aziende, contemplati dal diritto societario italiano, sono i «patti di sindacato», vietati in molti paesi del mondo (accordi tra azionisti proprietari di piccole quote che si coalizzano come fossero un unico grande azionista), o le «azioni di risparmio» (titoli di proprietà di una società che garantiscono un dividendo superiore ma non danno diritto di voto nelle assemblee in cui si decide il destino di quella società), di solito vendute ai piccoli azionisti e a investitori istituzionali (fondi d’investimento, banche) che in cambio di un dividendo leggermente più alto non interferiscono nella gestione dell’azienda.
Tutti questi strumenti, dunque, fanno sì che l’azionista di riferimento, che possiede una minima parte del capitale sociale totale, controlli la proprietà della società, e comandi con i soldi degli altri, scaricando tutti i rischi d’impresa sugli azionisti di minoranza, chiedendo aiuti allo Stato, cercando escamotage e posizioni monopolistiche protette invece di competere seriamente. Un’altra caratteristica di questo modello di capitalismo italiano di vertice quotato in borsa è che si moltiplicano, nel suo seno, quei «rapporti incestuosi » che sono le «partecipazioni incrociate».
Le partecipazioni incrociate riguardano sia i consigli di amministrazione delle grandi banche, dove siedono questi stessi leader delle grandi società a cui sono destinati i finanziamenti, e questo genere d’intreccio tra banche e società crea un circolo vizioso autoreferenziale che taglia fuori gli outsiders dai prestiti e finanziamenti bancari (piccole e medie imprese); sia i consigli di amministrazione di aziende in teoria rivali o concorrenti sul mercato, per cui interessi che dovrebbero essere tra di loro distinti e contrapposti trovano delle comuni «casse di compensazione» che limitano la concorrenza (e sostanzialmente vengono a creare dei cartelli dei prezzi, vedasi le polizze assicurative automobilistiche). Il 45% delle società quotate in borsa in Italia hanno come azionisti o consiglieri di amministrazione individui che ricoprono cariche di vertice anche in aziende concorrenti. C’è addirittura il caso di un ‘impresa, di cui non è stato possibile identificare il nome, che risulta avere ben 13 consiglieri d’amministrazione che siedono in luoghi di governo di società rivali. I «rapporti incestuosi » dell’alta finanza ed economia italiana proliferano se si pensa che in Italia buona parte delle grandi aziende quotate in borsa sono governate dai medesimi individui di dieci anni prima; settantacinque di loro accumulano un numero incredibile di poltrone.
Questi 75 «lords » d’Italia si trasmettono il potere spesso per diritto ereditario, e quasi sempre in modo indipendente dai loro meriti. Questa casta di inamovibili – facendo parte di più consigli di amministrazione – collega tra di loro il 76 % delle società quotate in borsa in Italia. Spesso i «lords» sono anche azionisti delle società di cui sono dirigenti. Molti di questi amministratori hanno legami famigliari tra di loro tanto che le prime cinque famiglie hanno più di cento incarichi nelle società quotate in borsa.
L’economia globalizzata richiederebbe, per la crescita delle singole aziende, investimenti importanti in tecnologie, espansioni all’estero, presidio contemporaneo di vari mercati e settori. Tutte cose che richiedono investimenti importanti oppure fusioni tra aziende per acquisire la massa critica necessaria. Ma, ovviamente, gli azionisti «cinesi» non hanno il capitale necessario per fare investimenti e non desiderano che avvengano le fusioni, altrimenti perderebbero il controllo sulle aziende. Inoltre l’azionista «cinese» in genere si preoccupa di più delle alleanze e, degli equilibri di potere e delle strategie necessarie per mantenere il suo controllo sull’azienda che di far crescere l’impresa stessa. Il totem del controllo richiede che l’azienda non si sviluppi, e ciò ne determina l’impoverimento progressivo.
Se questa è la situazione di molto capitalismo di vertice italiano, un altro capitalismo italiano, quello delle piccole imprese ,che insieme alle medie imprese, come tante formiche, sostengono il nostro sistema economico, non ha però accesso agli ammortizzatori sociali, è penalizzato dal sistema bancario, non riceve aiuti dallo Stato ed è privo di peso politico (dunque non gode di «entrature» nel sindacato delle imprese, Confindustria); quest’altro capitalismo sta subendo una moria o decimazione per la contrazione del mercato interno, anno dopo anno, in questa recessione che non sembra avere mai fine.
«Dunque il capitalismo italiano è senza speranze?», chiede il giornalista specializzato Filippo Astone all’economista Salvatore Bragantini. Risponde Bragantini: «Le uniche chanche di riscossa arrivano da un particolare campione di medie imprese, quelle che fanno produzioni d’avanguardia, innovano, vanno all’estero, rischiano. La fortuna dell’Italia consiste nell’avere un sistema di medie imprese che dal legame con i territori e dall’intraprendenza dei singoli trae la forza per conquistare i mercati. Ecco, dobbiamo sperare che riescano a diventare grandi, grazie all’autonoma capacità di crescita oppure a fusioni con altre. Per riuscire in questo obiettivo, i loro imprenditori devono investire il capitale necessario e cercare i migliori talenti per le posizioni manageriali di rilievo, invece di destinarle ai figli».
Anche il sociologo Luciano Gallino ci ricorda che ci sono molti imprenditori che si preoccupano di crescere e innovare, che sono seriamente interessati al benessere dei loro dipendenti e che sono consapevoli di essere i primi responsabili della produttività, ma : « … Purtroppo questi imprenditori non si occupano di vita associativa, e non sono rappresentati, o lo sono scarsamente, dal vertice confindustriale».
C’è dunque una parte importante del mondo della media impresa che è proiettata verso il cambiamento, che compete senza rete a livello internazionale, che è costretta a innovare per sopravvivere, che non gode di aiuti di Stato o di scatole cinesi, e rischia il tutto per tutto ogni giorno. É il cosiddetto «Quarto capitalismo», come è stato definito dall’Ufficio studi di Mediobanca, ed è quello che sostiene di fatto l’economia italiana, ma che non è ancora giunto ad avere un’ adeguata rappresentanza politica.
Se il capitalismo italiano avrà un futuro, questa è la strada obbligatoria che dovrà percorrere.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:
Articoli:
Redazione Il fatto quotidiano: «Fonsai, ordine di cattura per Ligresti e i tre figli. Ipotesi di fuga alle Cayman» , Il fatto quotidiano on line , 17 luglio 2013
Gianni Barbacetto: «Erano tutti pazzi di Don Salvatore », Il fatto quotidiano on line, 18 luglio 2013
Saggi:
Filippo Astone, Gli affari di Famiglia , Longanesi , Milano 2009.
Filippo Astone, Il partito dei Padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia, Longanesi, Milano , 2010
Salvatore Bragantini, Capitalismo all’italiana. Come i furbi comandano con i soldi degli ingenui.
Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005.
Tito Boeri, La crisi non è uguale per tutti, Rizzoli, Milano 2009.
1 commento
Io negli anni ’80 e i primi ’90 leggevo Italia Oggi, giornale di propietà dei Ferruzzi, ogni giorno c’era una nuova battaglia finanziaria: i Pirelli che partono alla conquista della tedesca Continental, gli Agnelli della Francese Exor, De Benedetti della Belga SGB e soprattutto le loro battaglie e le loro conquiste Montedison, Eridania, Fondialria. Nel ’92 il gruppo fa un crack: io in quei giorni vedo crollare i loro titoli e dico a mio padre di comprare i titoli della Ferfin (Ferruzzi Finanziaria): mio padre non mi da ascolto… meno male altrimenti adesso non avremmo neanche la casa. Comunque i giornali che fino ad allora sostenevano la solidità del secondo gruppo finanziario-industriale privato del paese hanno iniziato solo a crack iniziato a gridare al re nudo: fino ad allora parlavano solo bene di Gardini & Family. Con ciò cosa voglio dire? Che i giornalisti quando non sono pennivendoli sono spesso e volentieri disinformati, quando qualcuno indica la luna loro vedono il dito. Ci sarebbe bisogno di più informazione, ma informazione di qualità.