dal Domenicale del Sole24 ore 26 gennaio 2014
di Renzo Piano
Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee. Siamo un Paese che è capace di costruire i motori delle Ferrari, robot complicatissimi, che è in grado di lavorare sulla sospensione del plasma a centocinquanta milioni di gradi centigradi. Possiamo farcela perché l’invenzione è nel nostro Dna. Come dice RobertoBenigni, all’epoca di Dante abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d’Inghilterra deve ancora renderceli adesso. Se c’è una cosa che posso fare come senatore a vita non è tanto discutere di leggi e decreti, c’è già chi è molto più preparato di me. Non è questo il mio contributo migliore, perché non sono un politico di professione ma un architetto, che è un mestiere politico. Non è un caso che il termine politica derivi da polis, da città. Norberto Bobbio sosteneva che bisogna essere «indipendenti» dalla politica,ma non «indifferenti» alla politica. Se c’è qualcosa che posso fare, è mettere a disposizione l’esperienza, che mi deriva da cinquant’anni di mestiere, per suggerire delle idee e per far guizzare qualche scintilla nella testa dei giovani. Una scintilla di una certa urgenza, con una disoccupazione giovanile che sfiora una percentuale elevatissima. Quindi con il mio stipendio da parlamentare ho assunto sei giovani, che ruoteranno ogni anno e che si occuperanno di come rendere migliori le nostre periferie.
Perché le periferie? Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d’accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l’energia.
I centri storici ce li hanno consegnati i nostri antenati, la nostra generazione ha fatto un po’ di disastri,ma i giovani sono quelli che devono salvare le periferie. Spesso alla parola «periferia» si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? Qualche idea io l’ho e i giovani ne avranno sicuramente più di me. Bisogna però che non si rassegnino alla mediocrità. Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per una semplice ragione: siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità di inventare, di cogliere i chiaroscuri, di affrontare i problemi in maniera laterale. La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita anche perché diventa economicamente insostenibile portare i trasporti pubblici e raccogliere la spazzatura sempre più lontano. Oggi la crescita anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c’è un sacco di spazio disponibile. Parlo d’intensificare la città, di costruire sul costruito. In questo senso è importante una green belt come la chiamano gli inglesi, una cintura verde che definisca con chiarezza il confine invalicabile tra la città e la campagna.
Un’altra idea guida nel mio progetto con i giovani architetti è quella di portare in periferia un mix di funzioni. La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità. Oggi i miei progetti principali sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall’Università di New York a Harlem al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che prevede anche una stazione ferroviaria e del metrò e un grande parco. E se ci sono le funzioni, i ristoranti e i teatri ci devono essere anche i trasporti pubblici.
Dobbiamo smetterla discavare parcheggi. Penso che le città del futuro debbano liberarsi dai giganteschi silos e dai tunnel che portano auto, e sforzarsi di puntare sul trasporto pubblico. Non ho nulla contro l’auto ma ci sono già idee, come il car sharing, per declinare in modo diverso e condiviso il concetto dell’auto. Credo sia la via giusta per un uso
più razionale e anche godibile dell’automobile. Servono idee anche per l’adeguamento energetico e funzionale degli edifici esistenti. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l’Italia. Alle nostre periferie occorre un enorme lavoro di rammendo, di riparazione. Parlo di rammendo, perché lo è veramente da tutti i punti di vista, idrogeologico, sismico, estetico. Ci sono dei mestieri nuovi da inventare legati al consolidamento degli edifici, microimprese che hanno bisogno solo di piccoli capitali per innescare un ciclo virtuoso. C’è un serbatoio di occupazione.
Consiglio ai giovani di puntarci: startup con investimenti esigui e che creano lavoro diffuso. Prendiamo l’adeguamento energetico con minuscoli impianti solari e sonde geotermiche che restituiscono energia alla rete, l’Italia è un campo di prova meraviglioso: non abbiamo né i venti gelidi del Nord né i caldi dell’Africa, però abbiamo tutte le condizioni possibili dal punto di vista geotermico, eolico e solare. Si parla di green economy però io la chiamerei italian economy.
Nelle periferie non c’è bisogno di demolire, che è un gesto d’impotenza, ma bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti. In questo senso c’è un altro tema, un’altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Di coinvolgere gli abitanti nell’autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi che è la forma minima dell’impresa. Sto parlando di cantieri leggeri che non implicano l’allontanamento degli abitanti dalle proprie case ma piuttosto di farli partecipare attivamente ai lavori.
Sto parlando della figura dell’architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati. Nel 1979 a Otranto abbiamo fatto qualcosa di molto simile con il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall’Unesco per “rammendare” il centro. Un consultorio formato da architetti condotti potrebbe essere un’idea per una startup. Nelle periferie non bisogna distruggere, bisogna trasformare. Per questo occorre il bisturi e non la ruspa o il piccone. C’è ancora una cosa che voglio consigliare ai giovani: devono viaggiare. Mica per non tornare più, però viaggiare secondo me serve a tre cose. Prima e più scontata per imparare le lingue, seconda per capire che differenze e diversità sono una ricchezza e non un ostacolo.
Terza per rendersi conto della fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia, perché se non si va all’estero si rischia di assuefarsi a questa grande bellezza e a viverla in maniera indifferente. Si tratta di una bellezza che non è per nulla inutile o cosmetica, ma che si traduce in cultura, in arte, in conoscenza e occupazione. E’ quella che dà speranza,che crea desideri, che dà e deve dare la forza ai giovani italiani.
[Renzo Piano]
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riproponiamo un’intervista a Renzo Piano pubblicata su La Repubblica il 07 novembre 2008
Renzo Piano, l’appello alla città “Smettetela di diffondere il brutto”
«Ah la mia vecchia e cara Milano, come è cambiata. La considero la mia città, io che sono nato a Genova, ma che professionalmente sono cresciuto qui quando avevo tra i venti e i trent´anni, prima al Politecnico e poi quando ho imparato il mestiere con un maestro come Franco Albini… ». Renzo Piano storce la bocca quando lo chiami archistar o quando cerchi di trascinarlo dentro una polemica magari su Milano, la sua vertiginosa espansione, i suoi progetti-marchio dell´Expo, di Citylife, il piano comunale di crescere fino a 2 milioni di abitanti, ma poi non si trattiene.
Non attacca direttamente gli amministratori cittadini e la politica espansionistica: «Non voglio criticare la Moratti, ma fare un discorso più in generale sulla fine della qualità diffusa che in Italia ha permesso di costruire belle città e che ora manca – dice dalla tolda del suo super-ufficio nella periferia estrema genovese di Vesima, sospeso sul mare a forza nove di questo autunno di tempeste perfette -Dove è finita a Milano quella spinta fervida degli anni Sessanta-Settanta, quella combinazione magica tra sindaci, mecenati, architetti, finanziatori, dove c´era la grande capacità di ascoltare, di inventare? Cosa è successo dopo e ora cosa sta succedendo?».
Il suo progetto per Citylife fermato, quello del parco a Ponte Lambro, ignorato a fine anni Novanta malgrado il timbro dell´Unesco, la diversa visione sull´Expo 2015 in difficile gestazione? Piano va avanti viaggiando tra un continente e l´altro, tra un progetto e l´altro, tra una polemica e l´altra, tra un sindaco Alemanno a Roma, che mette i diktat sull´Eur, e il sindaco Moratti, che innesca il boom milanese, preferendo il cemento di Ligresti. Ma la sua provocazione di archistar è ben più larga e universale e riguarda il come stanno sfigurandosi le città nel mondo, la cultura fasulla della loro espansione, gli sprofondamenti nel trash e nel brutto diffuso. «Noi europei abbiamo per fortuna la chiave culturale per salvare le città che crescono: è il recupero attraverso la stratificazione. Non si abbatte a picconate la periferia brutta per rifarla peggio e disincagliata da ogni contesto di vita, ma si integra, si costruisce sopra, salvando la storia».
Insomma, basta con il consumo scellerato di territorio?
«Anche in Australia e in America incominciano a chiedermi di compiere questa operazione, ora che hanno un paio di secoli di storia urbanistica alle spalle. Trent´anni fa intellettuali fini dell´ambientalismo come Mario Fazio ci suggerivano di recuperare i centri storici. Sfida raccolta e vinta. Oggi dobbiamo salvare le periferie. Dalle banlieue parigine, alle favelas del terzo mondo, ai nostri quartieri dormitorio sulle colline di Genova, come nei sobborghi romani».
E a Milano, con tutti questi progetti, quell´operazione culturale come si realizza, dove si stratifica?
«Bisogna smettere di costruire, di diffondere il brutto per poi chiamarlo trash. Finisce che poi il trash urbanistico passa quasi per bello, basta che ogni tanto ci si metta in mezzo quella che gli inglesi chiamano perfidamente l´aringa rossa, magari un bel grattacielo svettante sul quartiere spazzatura. Anche Milano non deve esplodere con nuovi quartieri selvaggi, ma implodere su quanto già c´è. Le periferie sono brutte, senza qualità diffusa, perché non ci hanno costruito le condizioni della vera vita vissuta, che non si crea solo con case e negozi. Ci vuole tutto il resto, a incominciare dal verde, dalle scuole, dagli impianti sportivi, dalle librerie, dai giardini».
Ciò significa che bisogna rinunciare al concetto di città diffusa e pianificare dei margini artificiali?
«Va tracciata quella linea verde oltre la quale non si deve costruire più, e si badi bene che all´interno la ricostruzione stratificata è più che possibile ovunque: fabbriche dismesse, parchi ferroviari abbandonati, zone residenziali perdute nel degrado, quartieri fatiscenti. A Sud di Milano ci sono grandi spazi appetibili, così come nella zona di Rho-Pero, penso anche a viale Forlanini ad Est, dove immaginavamo tanti anni fa il parco urbano di Ponte Lambro, proprio mentre stavamo ricostruendo Sarajevo, città martire, con lo stesso criterio promosso dall´Unesco».
Ma lei ha un´idea di dove può essere tracciata questa linea verde?
«Sono i sindaci e gli amministratori che devono stabilirlo e non vorrei gettare la croce addosso solo a loro. Si immagina che quella linea sia sovrapponibile alle tangenziali, dove ci sono. Ma quella linea non basta se non si risolve il problema del trasporto urbano. Come si fa a progettare solo posteggi dappertutto?».
Ma le macchine sono sempre di più. Dove le mettiamo?
«A Londra con l´ex sindaco Ken Livingstone abbiamo progettato quella grande torre nel centro e sa quanti posteggi sono stati previsti? 42. A New York con il sindaco Bloomberg stiamo trattando operazioni urbanistiche a Manhattan a posteggi zero. Altro che i 10mila posti macchina di Citylife. Il concetto è disincentivare l´uso dell´automobile. Se non fai altro che costruire posteggi ingigantisci il traffico e continui a proporlo nel centro delle città. Io a Parigi abito in centro e non ho la macchina, sono ultra servito dai mezzi pubblici».
Torniamo a Milano: perché lei sente questa grande delusione?
«Perché mi ricordo com´era quando, da giovane architetto, ci sono arrivato al seguito di Franco Albini, il maestro della Zero Gravity, l´architettura come leggerezza, insieme a Marco Zanuso alla scoperta di nuovi materiali, di nuove forme. Avevamo il terreno favorevole per esplorare, ascoltare, confrontare. C´era un circolo virtuoso che garantiva la qualità diffusa. Mi ricordo i dibattiti con Ermanno Olmi per progettare Ponte Lambro».
E ora che le occasioni di costruire sono addirittura imponenti: basta pensare alle possibilità di Expo 2015?
«Se lei mi chiede se sono Exposcettico o Expoentusiasta le rispondo che sono entusiasta. Sgombro il campo dall´equivoco nato qualche tempo fa, quando fui classificato sulla linea di Adriano Celentano, che era contrario. Sono prudente. Non vorrei che l´Expo diventasse una colossale operazione immobiliare e stop. Ho già un´esperienza in materia, quella delle Colombiadi, l´Expo genovese del 1992 per i 500 anni della scoperta dell´America. Lì abbiamo recuperato l´esistente e costruito un quartiere nel cuore della città, nel porto storico, che rimane un segno forte e lo abbiamo fatto con equilibrio ambientale e economico. Ricordo quello che mi raccomandava, in stretto dialetto genovese, il sindaco di allora, Fulvio Cerofolini: “Mia Piano, qui nun se straggia ninte (“Guarda Piano, che qui non si può sprecare niente”). Non abbiamo sprecato niente, abbiamo costruito su quel che c´era».
Ma alla fine non è molto più stimolante creare dal nulla, costruire a perdita d´occhio senza avere vincoli di spazi, di storia, di cultura?
«È vero il contrario. La sfida dell´architetto è proprio quella di andarsi a cercare i vincoli, i condizionamenti, gli obblighi dell´esistente. Noi italiani abbiamo più degli altri questa capacità che io considero la vera sfida da esercitare quando ci viene proposto un nuovo lavoro».
Tutto questo non può essere travolto da una cultura diversa più globale, che tiene conto dell´immigrazione, di una nuova società multietnica, già ospitata dalle città?
«Siamo sempre stati meticci e non solo a Genova e Venezia, città porto. Perché nei nostri quadri, nei nostri affreschi compaiono spesso i mori, i personaggi di colore ambientati nelle diverse epoche? Perché questa è la nostra storia».