Una cena alla Casa Bianca

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 20 ottobre 2016

Eccetera

Scusate, ma torno per la terza volta sulla State Dinner della Casa Bianca. Sul Corriere della Sera c’è oggi un’immagine della sala che ha ospitato l’evento, col tavolo di Obama e Renzi in primo piano. Di fianco compare anche una legenda per identificare chi fossero quelli che erano seduti a questo tavolo presidenziale. La sala è molto bella, illuminata anche da candelieri eleganti ed è ricca di sofisticati bouquet. Gli ospiti appartengono senz’altro alla crema della society anglo-italiana, gli ospiti del Belpaese non sono da meno. C’è uno schieramento di élite culturali e classe dirigente da far paura: se sommassimo i redditi di tutti i 387 ospiti raggiungeremmo cifre da capogiro. Il Corriere intervista uno degli ospiti, Fabrizio Freda, napoletano, definito uno dei manager più in vista e più pagati degli USA. Gli altri convitati sono tutti o quasi riferibili a quello stesso mondo di redditi, di opportunità, di privilegi, di vita sociale. Si ha come l’impressione che quella sia una specie di bolla, ma non fragile, al contrario. Una bolla élitaria, una cima eminente, 387 pioli della scala sociale, ma i più alti tra tutti. I pioli più bassi nemmeno si vedono da altezze così rarefatte.

Freda riferisce che i convitati del suo tavolo non si riferivano tanto all’Italia come patria delle arti, delle lettere, della moda, del cibo, del gusto e del genio. No. “Diversi uomini d’affari e soprattutto donne d’affari – dice Freda – mi dicevano: ‘a noi l’Italia è sempre piaciuta per la sua storia, l’arte, eccetera. Ma adesso siete cambiati: siete un partner con cui costruire il futuro, insieme e su un piano di parità”. “Non sono venuti fuori solo i riferimenti al cibo e alla moda – continua a spiegare -. Abbiamo ragionato sui fortissimi legami economici, sulla ricerca scientifica, sugli sviluppi tecnologici. Gli americani pensano che siamo pronti a collaborare con loro”. Ecco. La classe dirigente, le élite si siedono in una bella sala della Casa Bianca e si mettono a parlare di affari (parlano solo d’affari, anche quando si riferiscono putacaso a una novella di Verga). Si scopre così che c’è anche una certa insofferenza per l’Italia delle lettere, delle arti e del cibo. Come se quella fosse una lontana parente della nuova Italia, tutta dedita, invece, alle sfide economico-finanziare e tecnologiche.

Basta insomma con le cose belle, con il nostro talento, con la nostra tradizione e pure con la nostra storia. Belle, occhei, persino strabilianti, ma mo basta. Adesso voltiamo pagina, così gli americani ci consentiranno di “collaborare” con loro in qualche progettino tecnologico, in qualche venture finanziaria o, perché no, anche bellica. Gli affari, insomma, alla maniera anglosassone, quelli dove non conosci parenti, amici, povertà o bisogno e conta solo vincere, solo il profitto, solo fare affari appunto. Fino a ieri eravamo tanti ‘paisà’, bravi a dipingere e a preparare un bel piatto di pastasciutta. Ma domani potremmo persino collaborare alla pari con loro, e ci verrà riconosciuta, vedrete, anche un’abilità e una certa competenza a fare affari, ricerca, tecnologia, mercato. Diverremo davvero ‘globali’ , saremmo finalmente sciolti dalle radici artistico-culinarie che ci attanagliano al suolo italico e ci lasciano fuori dai grandi giochi tecnico-bellico-finanziari.

Se penso che sono secoli che accumuliamo tesori che altri non posseggono o sanno solo consumare, e che basta una cena per trasformare tutto in una palude da rottamare, solo perché dei manager non vi vedono adeguati margini di profitto – se penso che la storia italiana è quasi tutta (ma non solo) nella cura amorosa, appassionata dell’animo umano e delle sue manifestazioni – se penso a tutto questo e allo scempio promesso da qualche CEO o banchiere a Washington tra un’olivetta e l’altra, mi viene un certo ‘furore’ steinbeckiano. Zavorra, solo zavorra, insomma. Secoli di zavorra. Come dice Freda? L’Italia, la sua storia, l’arte, “eccetera”. Brunelleschi, Montale, il cibo, il gusto, i colori, l’opera, la sartoria che divengono un ‘eccetera’ tra una portata all’altra. In una sala da ricevimento americana ben distante e appartata da scuole, luoghi di lavoro, quartieri difficili, periferie esistenziali, solitudini, abbandono, marginalità, schiere di ‘perdenti’ a cui quell’eccetera farebbe invece benissimo, e sarebbe un pezzo di riscatto in più, accanto a un lavoro degno, una casa dignitosa, una scuola davvero formativa, una comunità coesa. ‘Cameriere mi versa un po’ di vino italiano?’. ‘Quale signore?”. “Faccia lei, va bene un eccetera qualsiasi…”. Sorrisino di compiacimento.

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