Che cosa blocca la crescita dei salari

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Elsa Fornero
Fonte: La stampa

Che cosa blocca la crescita dei salari

Il benessere dei cittadini e degli Stati dipende dal lavoro perché garantisce l’indipendenza di entrambi. Solo una strategia di lungo periodo può essere efficace, ma si punti su istruzione e maggiore sostenibilità

Per quanto attraente possa essere l’idea di una società libera dalla fatica del lavoro è pur sempre dal lavoro che deriva il nostro benessere, individuale e collettivo. Il lavoro libero affranca le persone, rendendole indipendenti; è regolato da norme che sono – o dovrebbero essere – ispirate a principi di giustizia, sicurezza, equità e dignità della persona. Né il mercato del lavoro né le norme che cercano di migliorarlo, però, sono senza difetti, sotto il duplice profilo dell’inclusione e della remunerazione: entrambi riflettono la società con i suoi contrasti, le sue divisioni, meschinità e contraddizioni.

La remunerazione dipende, in prima approssimazione, da quanto ciascun lavoratore è in grado di produrre, ossia dalla sua «produttività», la quale deriva da ciò che sa fare (le sue «competenze», il cosiddetto «capitale umano») e dal capitale fisico a sua disposizione. È lecito aspettarsi che, con il tempo e il progresso, le tecnologie migliorino e la conoscenza si accumuli e che, pertanto, un lavoratore medio sia oggi più produttivo di un suo omologo di qualche tempo prima e debba quindi essere remunerato meglio.

Proprio qui, nell’aumento della produttività sta la vera «crescita» del Pil (prodotto interno lordo), quella per abitante o «pro-capite», ciò che da un paio di decenni manca all’Italia. Ed è questa mancanza la principale responsabile della sostanziale stagnazione dei salari a fronte di aumenti più o meno elevati negli altri Paesi europei. E per questo diversi governi hanno usato la leva fiscale, spesso a debito, per aumentare le paghe nette (da ultimo il governo Meloni, con la fiscalizzazione degli oneri sociali a carico del lavoratore e l’accorpamento delle prime due aliquote fiscali). Occorre piuttosto includere più persone nel mondo del lavoro (donne e giovani, in particolare ma anche immigrati, possibilmente qualificati) e accrescerne la produttività: di qui bisogna partire per una vera ripresa dell’Italia.

Nei prossimi decenni, infatti, la popolazione italiana diminuirà e invecchierà, ma ha ancora un bacino di potenziali occupati a cui attingere (a cominciare dalle donne e dall’anomalia dei giovani che né studiano né lavorano). Al di là di questo occorre puntare sull’aumento della produttività.

È quindi essenziale per l’Italia non rallegrarsi troppo per la moderata crescita dell’occupazione dell’ultimo anno. Certo, è una buona notizia che nel 2023 ci sia stato quasi mezzo milione di occupati in più, pari al 2 per cento del totale; però il Pil è salito soltanto di un ben più modesto 0,7 per cento. Si tratta perciò di lavoro mediamente più «povero», anche se ancorato a contratti «buoni» – in maggioranza quelli di dipendenti a tempo indeterminato.

A questo punto ci si deve chiedere: perché da noi la produttività (media) non cresce o comunque cresce assai meno che in altri Paesi europei e che cosa si può fare per eliminare questa debolezza di fondo? Sul primo punto, vi sono essenzialmente due risposte. Ecco la prima: per motivi tecnologici, la produttività aumenta di più nell’industria (in particolare manifatturiera – come aerospazio, automotive, macchinari, chimica e farmaceutica – anche per la necessità di competere sui mercati mondiali) e di meno nei servizi, in molti dei quali l’innovazione è minore.

Questo però succede un po’ in tutti i Paesi; perché quasi solo l’Italia va più piano? Ecco allora la seconda risposta: il livello degli investimenti in tutti i settori – industria manifatturiera esclusa – tende a essere più basso in Italia che in altri Paesi. Il che è vero soprattutto per l’innovazione tecnologica e i beni immateriali, come la proprietà intellettuale di marchi e brevetti, gli investimenti in “capitale umano” e nell’organizzazione produttiva. Come mai succede questo? Perché gli investimenti dipendono fortemente anche da fattori non economici, come l’efficienza della burocrazia e la giustizia civile. Gli investimenti, insomma, non li decide l’impresa da sola e la loro rapidità dipende anche da riforme di processi decisionali nella pubblica amministrazione, a lungo invocate e oggi in larga misura affidate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

Veniamo allora la secondo quesito sopra proposto: come far uscire l’Italia dalla sua crescita asfittica (al di là di variazioni congiunturali che possono anche avere un discreto segno positivo, com’è avvenuto nel 2022). Anche qui, le risposte sono sostanzialmente due. Primo, occorre che il governo concentri sul medio-lungo periodo, dimenticando le tentazioni elettoralistiche di breve termine, tipiche del populismo. Secondo, occorre tutti insieme dare corpo alla «visione» del sistema economico-sociale da raggiungere entro i prossimi 10-20 anni, tenendo conto che senza «visioni» e senza obiettivi nessun Paese va veramente avanti.

Un abbozzo di «visione» è possibile. Anzitutto, una scuola che torni a essere un efficace ascensore sociale e non un fattore di diseguaglianza, in grado di dare le stesse possibilità anche ai figli di immigrati; un mondo del lavoro raccordato con quello dell’istruzione, in grado di motivare, di integrare e di remunerare i giovani senza che debbano cercare all’estero le loro opportunità; una società senza pregiudizi negativi nei confronti delle donne e «soffitti di cristallo» che ne bloccano la carriera; un debito pubblico sostenibile, una spesa pubblica più equa e con sprechi molto minori; un’evasione fiscale scesa a livelli medi europei; un sistema di imprese efficienti, innovative e di dimensioni medie maggiori delle attuali, non più sorretto dall’attuale coacervo di sussidi generalizzati che finiscono per frenare la crescita del Paese; maggiore sostenibilità ambientale e sociale, e strutture di governo più trasparenti e paritetiche a tutti i livelli. Sembra il «Paese delle Meraviglie» ma si tratta soltanto di quegli «spiriti vitali» di cui l’Italia ha già dato prova in passato.

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