Il comunismo delle idee

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 19 maggio 2017

Non so perché scrivo questo post, forse perché la fase me lo suggerisce. Ma io vorrei solo raccontare che cosa ho imparato nei tanti anni passati nel PCI. Ero un diciassettenne quando ho fatto la mia prima tessera della FGCI. Fino a quel momento avevo girovagato all’interno dei gruppi di sinistra extraparlamentare, dove si passava tantissimo tempo a discutere, a fare seminari, a studiare il Capitale, a fare tesoro del pensiero dei comunisti eretici, a criticare il PCI perché cercava l’accordo con la DC e i padroni (così dicevano). Avevo una famiglia operaia cattocomunista alla quale devo tutto sul piano etico. Ma il fatto che studiassi e che a quella giovanissima età già affrontavo (con tutti i limiti possibili, ovvio) Heidegger e Wittgenstein, per dirne due, mi dava una certa sicurezza e forse un certa protervia. Mi sentivo una spanna più su, insomma, almeno quando si trattava di fare e pensare la politica. Pura presunzione giovanile, oggi lo so. Il mio primo approccio al PCI fu dunque problematico. Nella mia sezione operaia, popolare, di borgata a Torrenova non c’erano intellettuali, almeno in un senso elitario. C’erano muratori, pensionati, piccoli lavoratori autonomi, casalinghe, giovani emarginati che non avevano finito gli studi. Nelle riunioni faticavo persino a capire il dialetto calabrese parlato da alcuni compagni che vivevano a Carcaricola, una borgata che sembrava davvero una piccola patria. Non prendevo appunti, perché quei pensieri mi sembravano troppo elementari, non avevano nulla a che vedere coi libri che leggevo e con i ragionamenti che facevo al Collettivo frequentato solo da giovani universitari. Non era disagio, era senso della distanza, era estraneità, che mi faceva sentire vicino ai dirigenti del partito ma lontano da quella base di borgata così prossima, troppo, alla vita quotidiana.

Col tempo ho imparato ad ascoltare tutti, a sentire tutti, a capirne il più possibile le ragioni. Questo mi chiedevano, non di chiudermi in qualche torre d’avorio di cementate convinzioni personali. Anche perché non serviva l’aristocrazia del pensiero in un partito popolare che voleva cambiare i destini di operai ed emarginati, non serviva elevarsi ad accademia. Devo così al partito un senso dell’umiltà, della tolleranza, dell’ascolto e del rispetto che non avrei imparato in alcun altro modo. Iniziai a prendere appunti quando il compagno in dialetto spiegava perché aveva ragione Berlinguer, ed era giusto il compromesso storico. O quando l’altro, al contrario, diceva in romanesco che la sinistra doveva unirsi contro tutti gli altri. Capii che avevano ragione entrambi, nel senso che ognuno portava con sé un segmento di ragione e poi lo combinava con quello degli altri, e mediante questa dialettica si cresceva tutti assieme. Come accade sempre in tutte le comunità dove prevalgano il dialogo e l’ascolto rispetto ai rancori personali e alla competizione. Capivo anche meglio i compagni della federazione romana o della direzione che venivano in sezione, ascoltavano seri, prendevano appunti. Io pensavo che lo facessero così, solo per simulare un’attenzione. Com’era possibile che il 30enne Renato Nicolini, intellettuale vivace e appassionato, potesse davvero prestare ascolto quei pensieri elementari, mi chiedevo? E invece no, quella leva di dirigenti del PCI non era a disagio in mezzo alle persone comuni, nemmeno in mezzo a quelle men che comuni come eravamo noi. Appunto: noi. La politica cominciava a essere per me un’impresa collettiva, un senso di prossimità alle persone, una partecipazione quasi empatica, certe volte persino irragionevole.

Non facevo differenze. Certo, ero d’accordo più con alcuni compagni che con altri. E quando si votava, votavo per certi e non per altri. Ma poi i dirigenti, i compagni erano davvero tutti uguali. Erano tutti comunisti, anche se ognuno a modo proprio e con la propria cultura e le proprie convinzioni. Ero ingraiano, ma guai a chi mi toccava Amendola. Lessi ‘L’isola’ tutto d’un fiato. Partecipai commosso al suo funerale al Verano. So per certo che c’era, tra noi, chi faceva cose che non condivideva pienamente, ma lo faceva per senso di appartenenza, per senso della comunità, per riconoscimento delle decisioni prese assieme, per rispetto verso gli altri. Era come sgonfiare un ego troppo ingombrante. Avevo dei dubbi sul compromesso storico (che oggi non ho più), ma mi impegnavo ad approfondire, a discutere, a capirne le ragioni. Non ero mai tranchant, non buttavo a mare nulla, tutto produceva interesse e speranza. E c’era una cosa che mi rendeva fiero: cercare sempre di approfondire le ragioni degli altri, questo era il mio personale comunismo. Un comunismo delle idee, dove non si trattava certo di appiattirsi supinamente sulle opinioni della maggioranza o, peggio, del vertice del partito. Ma di sentire mio ogni singolo pensiero o sentimento che percepivo attorno sia che venisse espresso in un editoriale di Rinascita oppure nell’intervento del compagno che passava il resto della giornata a spezzarsi la schiena sul cantiere.

Quell’insegnamento mi è restato indosso. Lo riconosco in chi ha frequentato il PCI con passione. Quell’idea che si sta con gli altri, si sta insieme agli altri, e che gli altri potrebbero avere più ragione di me, e io invece meno ragione, anche quando le mie convinzioni parrebbero dirmi l’opposto. Senza ‘comunismo delle idee’ non c’è comunità, senza la voglia di imparare non c’è militanza, senza l’umiltà di ascoltare e magari di restare in silenzio e di fare comunque le cose, non c’è nemmeno partito. Se non fosse esistito il PCI questa cosa io non l’avrei mai imparata. Lo so. Potrebbe sembrare una cosa sciocca, marginale, insignificante, ma non è così. Se oggi la sinistra è a pezzi, è anche perché si è perso questo stile, si è dimenticata questa lezione e questa morale, e ci si attarda su sciocche e presuntuose convinzioni personali. Perdonate, infine, il moralismo di queste parole. A me non piace, il moralismo, ma qualche volta è necessario. Il comunismo delle idee io lo consiglio sempre a tutti. Anche a chi comunista non lo è più o non lo è stato mai 🙂

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3 commenti

Paola Calabrini 23 Maggio 2017 - 11:31

interessante riflessione su un percorso che in parte ho condiviso…ma è appunto una riflessione, nn ci trovo spunti per andare avanti in una società che negli ultini 20 anni è profondamente cambiata, sia a livello economico che sociale

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derigius 24 Maggio 2017 - 8:50

….poi, magari, ci dici che cosa distingue questo ‘stare insieme’ nel PCI da quello di una bocciofila!…..a furia di ‘segmenti’ che ognuno portava con sé, invece di contrastare il revisionismo togliattiano e la sua ‘via italiana’ e dare forza alla corrente
di Secchia,si è perseguito il massimo risultato elettorale culminato nel 35%! Quella è stata la pietra tombale, anzi, lo sputo in faccia, a milioni di lavoratori e operai. Il ricco sardo ha preso in mano il partito e ne ha tolto fino all’ultima goccia di sangue marxista-leninista facendolo diventare una cloaca nella quale grossi ratti, che sono arrivati fino a noi, hanno proliferato fino a creare un partito para-fascista come il PD!

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Sandro Moro 20 Giugno 2017 - 15:59

Osti, derigius! Vecchissimo, purissimo, pesantissimo…

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