Cosa hanno in comune Trump, Erdogan, Putin, Salvini, Orbán

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: L'Espresso

di Alessandro Gilioli – 15 giugno 2018

Bozza di parole per dirlo

Capire quello che è successo e sta succedendo in Italia è complesso ma non è complicato. Intendo dire: la situazione in cui ci troviamo è frutto di molte concause, ma non è poi difficile provare a vedere quali sono e come si sono intrecciate. Tra l’altro alcune di esse sono comuni ad altri Paesi dell’Occidente.

Proviamo quindi a dipanare la matassa attraverso alcune parole (sì, lo so che ne mancano molte altre: questa è solo una bozza, un’ossatura assai parziale a cui aggiungere se volete le vostre, di parole) .

Paura.
La prima parola è questa e mi scuso della scarsa originalità. I mutamenti veloci degli ultimi anni – tecnologici e quindi economici, strutturali e quindi sociali – hanno generato paura. Paura per il proprio presente e per il proprio futuro. Paura di perdere quel relativo benessere, quella relativa sicurezza e quel relativo welfare che avevano costituito le fondamenta del nostro vivere insieme per più di mezzo secolo. Paura che da un po’ le cose stiano andando sempre verso il peggio e ancora peggio andranno. Paura di perdere quello che si era conquistato, spesso con fatica. Paura per la propria vecchiaia e per i propri figli. Paura per l’incertezza, cioè il sentirsi dispersi e abbandonati in mezzo alle onde, alle correnti che arrivano da chissà dove e che non si riescono più a governare. Non sapere nemmeno più chi si è, trascinati qua e là da questi marosi. Quindi perdita di identità e disperato tentativo di ritrovarla da qualche parte. Infine, la sensazione altrettanto paurosa che non ci sia più un rapporto tra il proprio impegno (i propri sforzi, i propri studi, il proprio lavoro) e gli effetti, i risultati per noi. La paura crea rabbia reciproca e un gigantesco “si salvi chi può”: tra individui, tra categorie, tra Stati. E in condizione di paura, il penultimo attacca l’ultimo, sempre.

Cecità.
Cioè la cecità di chi, in politica, questo processo non lo ha visto, nonostante non mancassero le menti lucide che li mettessero in guardia, da Bauman giù giù fino ai Social forum d’inizio millennio. Invece no: i decisori politici, in Europa come negli Stati Uniti, hanno continuato a pensare alla globalizzazione come a un processo a somma positiva più o meno per tutti, anche sul breve: i lavori perduti sarebbero stati sostituti rapidamente da quelli nuovi (più divertenti e creativi, magari anche in grado di produrre più fatturati e quindi meglio pagati), il modello fisso del ‘900 – “blue collar ” o “white collar” – avrebbe lasciato spazio a una cangiante e vivace società dell’accesso e della felice trasmigrazione da un impiego all’altro. Mai errore fu più grossolano: i grandi cambiamenti sono per antonomasia crisi e le crisi fanno le loro vittime. Se queste diventano troppe, crolla tutto.

Potere.
Tra gli effetti collaterali della globalizzazione c’è stata anche la separazione tra democrazia e potere. Siamo stati convinti per tutto il ‘900 che le democrazie esercitassero il potere. A un certo punto non ha più funzionato così, o ha funzionato così sempre meno. Ogni democrazia ha iniziato a dipendere sempre di più da motori esterni: i mercati, i creditori, gli speculatori, le fonti energetiche, le materie prime, le cessioni di sovranità “dal più piccolo al più grande”, inevitabili in un mondo fattosi quartiere. Quando si vede che le democrazie sono troppo deboli per contrastare queste forze, viene automatica la tentazione di affidarsi a un leader muscolare, a un capo carismatico: si pensa che questo avrà la voce abbastanza grossa per riuscire laddove la democrazia non riesce più, cioè a proteggere i miei interessi dai flutti e dai marosi.

Ricchi.
C’è una fetta minoritaria di persone, in Occidente, che da tutto quanto sopra non ha avuto svantaggi ma cospicui vantaggi. Sono quelli che erano già nel 2-3 per cento di popolazione più ricca ma anche quelli che, provenienti dal ceto medio, non sono stati ingoiati verso il basso come la gran parte dei loro pari ma sono invece entrati a far parte dei “new luckies”. Spesso con ottimi rapporti (anche lobbistici) con le sedi del potere economico e politico, questi signori non hanno mosso un dito per governare diversamente i processi di cui sopra, anzi. Quindi hanno contribuito, come complici, all’esplosione in corso. Loro, come i loro referenti politici.

Semplificazione.
Quanto più la realtà diventa complessa, quanto maggiore è la pulsione verso la semplificazione. Questa è una reazione normale. “Non stiamo lì a fare tanti discorsi”, “la verità e che…” e così via. La semplificazione trova il suo scivolo naturale nei media vecchi e nuovi: i talk show (dove lo slogan secco ridicolizza il ragionamento) e nei social network, specie Twitter che sembra inventato apposta per banalizzare. La semplificazione estrema mortifica ulteriormente la democrazia, riducendo gli elettori a tifosi in curva, i quali proprio come allo stadio rifiutano il ragionamento, per affidamento fideistico.

Identità 
Oltre che con l’affidamento settario, si cerca di recuperare l’identità perduta in tempo di naufragio anche in altri modi. La Lega, in Italia, fu la prima a farlo: quando si inventò l’identità padana. Oggi quella costruzione farlocca è stata abbandonata a favore di un’altra che invece almeno ha il merito di esistere, più o meno, cioè l’identità nazionale e nazionalista. In realtà l’Italia è un paese di unificazione politica e linguistica recente quindi di identità fragile. Gli storici insegnano che più l’identità è fragile, più questa diventa livorosa se non aggressiva: e non a caso il fascismo e il nazismo sono nati nei due Stati d’Europa che si erano unificati più tardi. In più l’Italia è paese di campanili, di rivalità territoriali, di grandi forbici economiche tra nord e sud, insomma la nostra identità è piena di cerotti. Più sono i cerotti, più si cerca di sopperire a queste fragilità urlando il proprio nazionalismo (e passando rapidamente dall’automortficazione all’autoesaltazione e viceversa). Poi, qui da noi c’è un combinato disposto tra questa questione e quella del punto 1, cioè i mutamenti globali recenti: sicché non è un caso che ad avere successo, in Italia, siano stati i due capi nazionalisti emersi dopo la prima globalizzazione (1840-Prima Guerra mondiale) e ora, durante la Seconda. Sto parlando, ovviamente, di Mussolini e Salvini.

Partiti.
In tutto questo, poi, c’è la “politique politicienne”, quella dei partiti. E anche qui ci sono eventi mondiali che si mescolano a particolarità tutte italiane. Ad esempio: abbiamo avuto il più grande partito comunista d’occidente – che al tempo fagocitava ogni altra sinistra o quasi – il quale dopo la Caduta del Muro non ha più trovato una sua ragion d’essere se non nella emulazione appena più smussata del suo avversario storico, la destra economica. In assenza di un progetto sociale, ha perso l’anima e il senso, la ragione d’essere. (Non con Renzi dunque, ma già prima. Renzi ha portato a compimento il suicidio – rimandato di due decenni solo grazie al compattamento contro Berlusconi – promettendo un futuro radioso proprio dentro quei cardini ideologici di “globalizzazione-competizione-lavoro liquido” che stavano per essere travolti. In più, Renzi ha creato enormi aspettative, incarnate nel 40 per cento di quattro anni fa, e nulla come le aspettative deluse provocano una reazione di rigetto). Comunque: mentre la sinistra storica andava suicidandosi perdendo la sua ragion d’essere, è nata una forza di protesta e di rifiuto, liquida e postideologica (il M5s) rivelatasi tanto capace di incamerare il disagio sociale quanto poi incapace di incardinarlo in un sistema di pensiero, in una visione di società. E qui si spiega facilmente il suo essere ingoiato ogni giorno di più da un partito e da un leader che invece sono fortemente ideologici e strutturati, che hanno una precisa (per quanto personalmente io la trovi vomitevole) visione di Paese, che ha radici solidissime. E quando un partito solido incontra un partito il gassoso, il partito gassoso è già morto.

Tutto ciò porta al fascismo?

Mah.

Credo che stiamo usando questa parola per somiglianza, per approssimazione, per la naturale tendenza a ricorrere a vocaboli già noti quando arriva qualcosa che ancora non sappiamo definire bene.

Certo è però che c’è qualcosa in comune fra Trump, Erdogan, Putin, Salvini, Orbán (ma ci metterei anche l’indiano Modi). Qualcosa in cui si mescolano nazionalismo, autoritarismo, muscolarità, sprezzo verso le deboli istituzioni della democrazia, settarismo, manicheismo, identitarismo come corazza e semplificazionismo come valore (quindi anti intellettualismo).

Auguri a chiunque, in tutto questo, continua comunque a provare a pensare.

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