Fonte: attac
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di Giulia Bucalossi, 9 novembre 2017
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 31 di Novembre-Dicembre 2017: “Lavoro e non lavoro“
La distanza di vent’anni tra una delle prime riforme organiche del diritto del lavoro ispirate ad una visione neoliberista e l’ultimo recente provvedimento denominato Jobs Act ci offre lo spunto per una ricognizione degli interventi legislativi che accanto alle trasformazioni produttive, economiche e sociali hanno contributo a ridisegnare il mercato del lavoro per come lo conosciamo oggi.
Il 24 giugno 1997 viene approvata la legge n°196 altrimenti nota come “Pacchetto Treu” con la quale il governo Prodi di ispirazione neoliberista, riformista ed europeista promette di “svecchiare” il mercato del lavoro italiano aprendo alla flessibilità e abbattendo le rigidità.
É proprio la sinistra istituzionale (governi Dini, Prodi, D’Alema) a farsi carico di fare breccia in quell’articolato sistema di tutele noto come diritto del lavoro, un particolare ramo del diritto basato sul presupposto di un rapporto asimmetrico tra datore di lavoro e lavoratore tale da giustificare l’introduzione di norme a tutela della parte debole, tutela altrimenti estranea al diritto privato e commerciale tout court ispirati piuttosto al principio della libera contrattazione tra le parti.
Lo fa ammantandosi di un’ideologia ultraliberista che viene direttamente dal cuore dell’Europa. Con il Consiglio straordinario di Lussemburgo del 1997 l’UE imposta la famigerata Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) con l’obiettivo dichiarato della lotta alla disoccupazione e dell’aumento della produttività e della qualità del lavoro. La SEO si fonda su quattro parole d’ordine: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità, pari opportunità. Si comincia dunque a parlare di eccessiva rigidità del mercato del lavoro che nel garantire troppo i diritti di chi lavora (gli insider) tende ad escludere un gran numero di outsider, da cui la necessità di flessibilità in entrata ovvero la necessità di diversificazione delle tipologie contrattuali e in uscita ovvero maggiore facilità di licenziamento.
Il Pacchetto Treu si inserisce in questo quadro politico-culturale di liberalizzazione introducendo alcune prime significative novità. La più importante è sicuramente l’introduzione nel nostro ordinamento del lavoro interinale (oggi somministrazione). Si deroga al divieto di interposizione di manodopera vigente sin dal 1960 e si apre il mercato del lavoro all’iniziativa di agenzie private che si affiancano al pubblico in una competenza fino a quel momento monopolio esclusivo dello Stato ovvero il collocamento di personale presso le aziende.
Anche la nuova formulazione del contratto di apprendistato introduce un elemento di novità che diventerà caratteristico dell’attuale sistema ovvero l’aspetto della formazione esterna all’azienda e alla prestazione lavorativa.
Infine si lavora sulla regolamentazione del contratto a tempo determinato ampliandone le possibilità di proroga e il lavoro part-time viene incentivato con apposita decontribuzione.
Nel frattempo si diffonde un uso massiccio delle CO.CO.CO., collaborazioni coordinate e continuative anche in virtù della riforma delle pensioni Dini che oltre ad introdurre il sistema contributivo istituisce una nuova cassa previdenziale all’interno dell’INPS, la “Gestione Separata”. Molto diversa dalle storiche gestioni INPS (quelle dei lavoratori del pubblico impiego, dei postali o ferrovieri), la gestione separata dedicata ai professionisti senza cassa e ai collaboratori nasce già contributiva e si è per anni caratterizzata con aliquote molto basse (si parte con il 10%) utili per fare cassa (rimane una delle rare gestioni in attivo presso l’INPS) ma a cui non corrisponde nessuna contropartita in termini di futura pensione né tanto meno contro la perdita involontaria di lavoro. L’aliquota salirà negli anni successivi fino all’attuale 30,72% cosa che nel tempo produrrà un incremento dell’importo delle future pensioni, seppur insufficiente e sotto la soglia di povertà, mentre ancora non sono previsti adeguati sussidi di disoccupazione.
A fine anni ’90 il monopolio, se non altro simbolico, del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato è definitivamente deposto in favore dell’emergere in massa di figure contrattuali cosiddette “atipiche”.
Arriviamo agli anni 2000. In Europa viene varata la Strategia di Lisbona che dichiara di voler fare di quella UE “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010” attraverso massicci investimenti e incisive riforme strutturali dei mercati del lavoro. Nonostante l’enfasi retorica e i cospicui finanziamenti europei, è evidente come in Europa sia centrale l’obiettivo della stabilità monetaria e del contenimento del debito, a discapito delle politiche del lavoro e dei redditi che vengono usate in modo subalterno al fine di limitare i salari e contenere l’inflazione.
Queste istanze neoliberali in Italia assumono il volto di Berlusconi che prova ad attaccare frontalmente sul tema della libertà di licenziamento e il suo baluardo l’articolo 18 dipinti come uno dei motivi della riluttanza degli imprenditori ad assumere.
Ma il clima non è propizio. Il giuslavorista Marco Biagi, autore nel 2001 del libro Bianco sul lavoro, vera e propria bibbia della flessibilità, viene ucciso. Pochi giorni dopo, il 23 marzo 2002, la sinistra sindacale organizza una manifestazione oceanica da 3 milioni di persone.
L’abolizione dell’articolo 18 e la conquista dell’agognata flessibilità in uscita per il momento non passano. Nel 2003 viene approvata la legge Biagi (legge delega n°30 di riforma del lavoro e successivo dlgs. n°276 del 2003) che consolida le intuizioni introdotte dalla riforma Treu e spalanca definitivamente le porte alla flessibilità in entrata che ci chiede l’Europa.
Con la Biagi si definisce e si estende il campo d’azione del lavoro a tempo determinato che il datore di lavoro può proporre non più solo nei casi individuati dalla legge ma per ogni esigenza di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”. Lo stesso dicasi per le collaborazioni coordinate e continuative che diventano “a progetto”. Il lavoro in somministrazione (che sostituisce quello interinale) viene ulteriormente regolamentato per facilitarne l’applicazione e la diffusione, può essere stipulato anche a tempo indeterminato (cosiddetto staff leasing). Le agenzie per il lavoro in somministrazione accreditate presso appositi albi diventano un soggetto importantissimo nel “nuovo” mercato del lavoro: si occupano di collocamento, ricerca e gestione del personale, riqualificazione dei lavoratori. A questo scopo vengono istituiti per legge i fondi bilaterali per la formazione e la ricollocazione gestiti insieme ai sindacati e alimentati finanziariamente da un contributo specifico del 4% prelevato su ogni rapporto di lavoro in somministrazione attivato. I sindacati entrano nella gestione di questo business che nel frattempo è diventato un pilastro delle politiche attive per l’occupazione.
Accanto alla somministrazione, la legge Biagi novella anche la disciplina dell’appalto e della cessione di ramo d’azienda introducendo importanti elementi di tutela per i lavoratori (quali la responsabilità in solido dell’impresa appaltante nei confronti dei crediti dei lavoratori o il riassorbimento del personale in caso di cambio di appalto) ma spalancando anche le porte al fenomeno delle esternalizzazioni e dei subappalti che produrrà drammatiche conseguenze nel mercato del lavoro italiano in termini di riduzione dei salari e delle condizioni di lavoro.
Si introducono inoltre ulteriori forme contrattuali come l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro, il lavoro intermittente o a chiamata, il lavoro ripartito, il nuovo apprendistato con le tre tipologie che coprono una fascia d’età sempre più estesa, il contratto di inserimento, il lavoro occasionale e accessorio… La flessibilità si traduce in una vera e propria giungla di oltre 40 tipologie contrattuali.
Ormai i lavoratori atipici sono milioni, una fetta consistente della popolazione attiva sul mercato del lavoro. Si cominciano a riconoscere nella condizione di precarietà a cui queste forme di lavoro li relegano. Una precarietà esistenziale che dal lavoro si estende ad ogni aspetto della vita: l’impossibilità di accedere ad affitti e mutui, di progettare il proprio futuro, spesso e volentieri anche semplicemente di arrivare alla fine del mese. Cominciano ad affacciarsi sulla scena politica vertenze e movimenti autonomi di precari che rivendicano maggiori tutele e diritti dentro e oltre il rapporto di lavoro. Il tema della garanzia di un reddito, la flexsecurity per dirla con i termini della governance, faticosamente e senza rappresentanza né politica né sindacale si affaccia nell’agenda politica.
I sindacati però guardano in un’altra direzione. Con l’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 le parti sociali danno la loro disponibilità ad una riforma del sistema delle relazioni industriali in cui la contrattazione decentrata acquista un ruolo di primo piano. L’Accordo sarà recepito dal Legislatore con l’art. 8 della legge 148 del 2011 dal titolo “Contratto di prossimità”.
Questo passaggio merita senza dubbio di essere ricordato nel nostro pur rapido excursus perché apre la possibilità alla contrattazione sociale di derogare in peius la normativa nazionale e dei CCNL.
I contratti cosiddetti di prossimità potranno, in effetti, integrare le leggi e i contratti nazionali anche in senso peggiorativo in tutti i casi i cui gli stessi siano finalizzati alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.
La norma ha avuto inizialmente una portata più simbolica che pratica. Sarà con l’Accordo interconfederale del 10 gennaio 2014, con quello del 14 luglio 2016 e con le Leggi di Stabilità 2016 e 2017 che hanno detassato i premi di produttività che questi contratti aziendali di secondo livello conosceranno il boom che li porta ad oggi a coprire una platea di 5 milioni di lavoratori.
Ad oggi il 20% dei premi di produttività incentivati vengono definiti da contratti di prossimità. Ma se è vero che l’Italia è ultima in Europa per la produttività del lavoro (che nel 2015 è diminuita dello 0,3%, mentre aumentava in media dell’1,6% nei 28 paesi dell’Unione europea e dell’1,1% nell’area Euro) forse non è sbagliato supporre che questa proliferazione della contrattazione decentrata e della sua incentivazione al di là della retorica dell’innovazione è stata più un modo per ridurre e detassare il costo del lavoro in modo improprio attraverso la fiscalità generale che potrebbe essere destinata ad investimenti più proficui per la collettività.
Tornando alla nostra cronistoria arriviamo all’estate del 2011 quando il Governo Berlusconi riceve la famosa lettera di Trichet e Draghi. Il presidente e il futuro presidente della BCE chiedono all’Italia, tra le altre cose, un’intensificazione degli sforzi per “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L’accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione”.
Chiedono altresì “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.
Una non troppo velata scomunica dall’alto: Berlusconi ritenuto non più in grado di garantire incisive riforme viene costretto a cedere il passo al governo ‘tecnico’ di Monti che non deluderà le aspettative di chi lo ha designato. La sua ministra del lavoro e delle politiche sociali produrrà oltre alla tristemente nota riforma delle pensione ispirata alla più rigida dottrina dell’austerity anche un articolato testo di riforma del lavoro e degli ammortizzatori sociali la legge 92 del 2012.
La “Legge Fornero” rientra tra quelle che hanno un respiro complessivo che va dalla revisione di innumerevoli istituti contrattuali fino alla riforma degli ammortizzatori sociali passando per la flessibilità in uscita.
Sul primo versante si aggiusta il tiro su alcune evidenti problematiche della legislazione allora vigente che avevano causato innumerevoli dubbi e contenziosi. In alcuni casi si tagliano con l’accetta i problemi per esempio eliminando l’obbligo di causale per i contratti a tempo determinato anche quelli in somministrazione, liberalizzando le collaborazioni occasionali e il lavoro accessorio (Voucher) che si aprono ad utilizzatori di tutti i settori. In altri casi si aggiungono nuove regolamentazioni che mirano a scoraggiare l’uso improprio di tipologie contrattuali come ad esempio il contratto a progetto per il quale viene resa più stringente la definizione del progetto (e abolita la definizione del programma o fase di esso), viene introdotto un principio di presunzione assoluta di subordinazione in mancanza dei requisiti specifici, un riferimento ad un giusto compenso parametrato con le analoghe mansioni previste nei CCNL.
Anche contro le false partite iva, ovvero quel lavoro di fatto subordinato ma formalmente autonomo che nel frattempo è diventato un altro dei mille volti della precarietà, la legge Fornero tenta la strada della limitazione degli abusi stabilendo la conversione obbligatoria e automatica da parte del giudice di un finto rapporto di lavoro autonomo in un contratto di collaborazione a progetto in presenza di due dei seguenti tre criteri: durata superiore a 8 mesi, presenza di una postazione fissa del lavoratore all’interno dell’azienda e 80% dei compensi del lavoratore proveniente dallo stesso committente.
Le altre 2 gambe della riforma riguardano la flessibilità in uscita e le tutele. Sul primo versante si accorciano ancora di più i tempi previsti dal collegato al lavoro per presentare istanza al giudice (180 giorni) ma soprattutto si introduce un obbligo per il giudice di disporre la reintegrazione sul posto di lavoro solo in caso di licenziamenti in cui il fatto è infondato o nel caso di quelli disciplinari punibile con sanzioni conservative; in tutti gli altri casi viene meno la tutela reale ovvero la reintegra sul posto di lavoro e il giudice si dovrà limitare a quantificare un’indennità economica a risarcimento del danno compresa tra le 12 e le 24 mensilità in base all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell’azienda, al comportamento delle parti nelle varie fasi del processo.
La terza gamba della Riforma Fornero si occupa infine di ammortizzatori sociali e adotta soluzioni all’insegna dell’austerity in linea con quanto realizzato con la tristemente nota riforma delle pensioni. Da un lato si elimina l’istituto della mobilità e si riduce la possibilità di ricorso alla cassa integrazione in deroga in favore dei fondi di solidarietà, dall’altro si introduce la nuova Assicurazione Sociale Per l’Impiego (ASPI) che pur presentandosi come più “universale” e inclusiva delle varie categorie di lavoratori (si includono apprendisti, soci di cooperativa, lavoratori domestici e dello spettacolo) si fonda su un principio strettamente contributivo e proporzionale ai contributi versati. Come un’assicurazione privata l’ente erogatore non si preoccupa più di coprire efficacemente per importo e durata il danno da perdita di lavoro quanto piuttosto indennizza la perdita stessa in base a quanti contributi il lavoratore ha versato. Una prima timida risposta in termini di sussidio ai tanti lavoratori parasubordinati iscritti alla gestione separata è l’istituzione dell’indennità Una Tantum.
Questa carrellata lunga venti anni si conclude con il Jobs Act, il provvedimento fortemente voluto dal “rottamatore” Renzi necessario a consolidarne l’immagine di un leader capace di grandi riforme strutturali.
A questo ennesimo progetto si oppongono solo le forze sociali della coalizione che ha dato vita allo sciopero sociale dell’11 novembre 2014 in oltre 20 città di Italia.
Il 10 dicembre 2014 il Parlamento approva la legge delega n°183 cui seguiranno lungo tutto il corso del 2015 ben 8 decreti delegati.
I decreti si occupano di: ammortizzatori sociali in caso di perdita del lavoro e in costanza di lavoro, contratto a tutele crescenti e nuova disciplina dei licenziamenti illegittimi, conciliazione vita-lavoro, nuova disciplina dei contratti di lavoro e nuova normativa delle mansioni, riforma delle attività ispettive, riforma dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, collocamento mirato per i disabili, comunicazioni telematiche e banche dati sul lavoro.
La nuova figura contrattuale subordinata tipica del nostro ordinamento è il lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti dove la tutela in caso di licenziamento illegittimo non è più la reintegra, con buona pace dell‘articolo 18 ma un indennizzo che cresce all’aumentare della durata del rapporto di lavoro. Il contratto a tempo determinato (regolamentato subito prima del Jobs Act dal cosiddetto Decreto Poletti convertito con legge n°78 del 2014) può essere stipulato senza obbligo di specificare le motivazioni, cosiddetta “acausalità” per la durata massima di 36 mesi più altri 12. Acausalità valida anche per il lavoro somministrato. Anche per le collaborazioni coordinate e continuative non è più necessario specificare il “progetto” basterà configurare lo svolgimento della prestazione affinché la stessa non rientri nelle tre fattispecie che la riconducono al lavoro subordinato ovvero: la esclusività della prestazione personale, la continuità e la modalità decisa dal committente in ordine ad orari, luogo di lavoro ecc…
Si ampliano le possibilità di utilizzo e si innalza a 7000 euro il tetto massimo per i Voucher, misura su cui poi il governo successivo è dovuto tornare a causa del boom abnorme che avevano registrato in virtù della deroga legale a qualsiasi normativa giuslavoristica. Con il Jobs Act del lavoro autonomo (legge n°81 del 2017) si introduce lo smart working, lavoro flessibile basato sull’utilizzo delle nuove tecnologie che consentono l’esecuzione della prestazione lavorativa in luoghi e tempi diversi dal normale lavoro subordinato.
La flessibilità in entrata è dunque perfezionata. Gli ammortizzatori sociali e tutto l’impianto dei servizi per il lavoro, anche con l’istituzione dell’Anpal (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro), sono perfettamente in linea con le indicazioni europee che mettono al centro l’occupabilità concetto ben diverso da occupazione. L’occupabilità riguarda il soggetto, colpevolizzato per la sua condizione di non lavoro, che, percettore di sostegno al reddito o meno, deve mettersi a disposizione di progetti di riqualificazione professionale siano la Garanzia Giovani, gli interventi previsti dai fondi bilaterali, dall’assegno di ricollocazione ecc…
Decine di miliardi di euro hanno sostenuto e sostengono a fondo perduto queste politiche di incentivo. Non ci vuole molto però a capire che si tratta di una spesa infruttuosa, di un regalo a pioggia ad imprenditori che non investono in forza lavoro.
I dati entusiasticamente propagandati ci parlano oggi di un’occupazione in ripresa ma basta poco per scoprire che si tratta di un’occupazione a termine, ricattabile, povera quando non totalmente gratuita e finanziata dallo Stato.
Smettendo di guardare al passato, una nuova e vasta composizione sociale oggi dovrà guardare al futuro rifiutando il lavoro povero, i sussidi e le pensioni da fame e rivendicando per tutti e tutte un diritto al reddito universale.