Dentro e contro. Quando il populismo è di governo

per Gabriella
Autore originale del testo: Marco Revelli
Fonte: Laterza
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DENTRO E CONTRO. QUANDO IL POPULISMO E’ DI GOVERNO – di MARCO REVELLI – ed. LATERZA

Crisi di fiducia verso la politica e ripudio della sua lontananza e delle sue lentezze, crisi della rappresentanza e delle sue istituzioni, crisi dei partiti e del ceto politico. Matteo Renzi è riuscito a mettere a valore ognuna di queste diverse faglie di crisi del sistema politico italiano. Tutte trasformate, come in un gioco di prestigio ben architettato, da problemi in risorse. Una paradossale operazione che valorizza un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico, fondato su una forma estrema di decisionismo. Non si tratta di una questione di stile, o di comunicazione. Tutto ciò che si consuma sotto i nostri occhi allude a una vera e propria mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell’immaginario politico che gli fa da contorno. È il risultato di prassi reiterate e con più protagonisti, frutto di un processo cominciato già col governo tecnico di Monti, l’exploit del Movimento Cinque Stelle, la rielezione di Napolitano, fino al suo compimento con il governo Renzi.

di Marco Revelli

La crisi italiana è andata producendo, ad alta velocità, uno dei fenomeni politici più anomali, oggi, in Europa: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emergente, a differenza di altre patologie simili, non al margine ma nel centro stesso del sistema di potere; non dal basso, come solitamente avviene per questo genere di movimenti, ma dall’alto, dal cuore del potere esecutivo, dal governo stesso. Mi riferisco, come è evidente, al rozzo Stil Novo introdotto da Matteo Renzi, con la convinzione che non si tratti, semplicemente, di una questione di stile. O di comunicazione, come frettolosamente lo si classifica. Ma che tutto ciò che si è consumato – e per certi versi continua a consumarsi – sotto i nostri occhi alluda a una vera e propria mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell’immaginario politico che gli fa da contorno, in senso, appunto, populista.

Se per populismo si intende infatti l’evocazione, in ampia misura retorica, di un certo popolo, al di fuori delle sue istituzioni rappresentative e per molti versi contrapposto alla propria stessa rappresentanza, al corpo cioè dei propri rappresentanti riconfigurati in «casta», allora non c’è dubbio che Renzi ne interpreti una variante particolarmente virulenta. È tipico del suo modus operandi, da quando ha varcato la soglia di Palazzo Chigi, lavorare per aggirare e tendenzialmente liquidare ogni mediazione istituzionale (a cominciare dal parlamento) e sociale (a cominciare dal sindacato) per istituire un rapporto diretto capo-massa. Le maniche di camicia ostentate nei palazzi del potere, neanche fosse il leader di un movimento di descamisadosanziché provenire da una tradizione democristiana di lungo corso e da uno dei pezzi più formalistici dell’establishment, quale è stato in questi anni il Pd. Il lessico da gita scolastica, anche dove si parla di argomenti seri. Il tweet a raffica come forma principe di comunicazione, e il cellulare ossessivamente in mano come uno studente medio durante la ricreazione. Tutto parla di questo progetto di disintermediazione, incarnato nella sua stessa persona.

Si annunciò per quello che voleva essere, o comunque apparire, fin dal primo intervento al Senato – lo ricordate? a quello stesso Senato che si preparava a trasformare in una camera di amministratori locali –, già il 24 febbraio 2014, appena dieci giorni dopo la defenestrazione di Letta. Discorso volutamente sgangherato, informalmente involgarito, con quello sguardo perduto lontano, nell’occhio delle telecamere, per sembrare puntato sull’intimità delle famiglie, comunque oltre i volti preoccupati dei senatori seduti davanti. Tutto alludeva, fin da allora, a una volontà esplicita di far tabula rasa della società cosiddetta di mezzo, delle molteplici strutture di mediazione del rapporto tra popolo e Stato, che siano le forme consolidate della democrazia rappresentativa – il parlamento in primo luogo –, o quelle sperimentate della rappresentanza sociale e dei gruppi di interesse, come i sindacati, le organizzazioni di categoria, le Camere di Commercio, e persino Confindustria se necessario, sulle orme dell’amico Marchionne, liquidati tutti come concertativi. E di verticalizzare quel rapporto sull’asse personalizzato dell’uomo solo al comando. Del «mi gioco tutto, io». Anche «quello che è vostro».

Ora, non c’è dubbio che in questa spericolata operazione l’ex sindaco di Firenze proiettato a velocità vertiginosa sul grande schermo nazionale abbia potuto contare su un dato sacrosanto di realtà, costituito appunto dalla macroscopica crisi della rappresentanza. Dei suoi soggetti e dei suoi istituti – praticamente tutti –, ben visibile nei fatti di cronaca di un lungo periodo di preparazione e di degenerazione: nell’impotenza mostrata dal parlamento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti fino alle vergognose scene che accompagnarono la rielezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica. Nel discredito dei parlamentari (in buona parte), dei consiglieri regionali (il peggior ceto politico della Repubblica), degli amministratori provinciali e comunali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elettivi, nessuno salvo. Persino nello status dei protagonisti attuali: nessuno dei leader che si spartiscono la scena, da Grillo, a Berlusconi, a Salvini, a Renzi stesso ha un blasone parlamentare.

Ma a differenza di chi non ha voluto neppur prendere atto di quella crisi – e cioè la precedente maggioranza del Pd, che infatti si è andata a schiantare senza neppure capire perché – e di quanti (pochi) su quella crisi si arrovellano per cercarne una uscita in avanti, Renzi ha deciso di quotarla alla propria borsa. È il primo che ha scelto consapevolmente di capitalizzare sulla crisi degli ordinamenti rappresentativi e della forma-partito che ne faceva da base. Per valorizzare il proprio personale ruolo nel quadro di un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico. O, diciamolo pure senza temere di apparire retrò, antidemocratico. Fondato su una forma estrema di decisionismo, non più neppure legittimata dai contenuti, ma dal metodo. Decidere per decidere. Decidere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza decidere, perché comunque quello che conterà al fine del consenso non sarà un fatto concreto ma piuttosto il racconto di un fare (Crozza docet).

Per questo vedevano lontano, acutamente lontano, gli autori del documento dell’associazione Libertà e Giustizia, i primi a essere usciti allo scoperto, quando denunciarono fin dall’inizio del percorso renziano il reale rischio di un autoritarismo di tipo nuovo. Basato sullo sconquasso dell’architettura istituzionale e sulla rottamazione dell’idea stessa di democrazia rappresentativa, fatta con giovanilistica noncuranza – con «studentesca spensieratezza», per usare un’espressione gobettiana –, nel quadro di una partita in cui l’azzardo prevale sul calcolo, la velocità sul pensiero. «Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali», recitava l’appello sottoscritto da alcuni dei più prestigiosi costituzionalisti italiani, da Gustavo Zagrebelsky a Lorenza Carlassare e Stefano Rodotà, oltre che da numerosi intellettuali da sempre schierati sul fronte dell’impegno civile1. E concludevano: «Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare».

Era il 27 marzo del 2014. Da allora quel processo di manomissione del nostro ordinamento democratico e rappresentativo è andato avanti, provocando già non pochi cedimenti strutturali: in particolare sul versante della rappresentanza politica, con la nuova legge elettorale, e di quella sociale con l’umiliazione del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni. E altri preparandosi a condurre in porto, con il cosiddetto decreto Boschi in materia di revisione costituzionale che finirebbe di cerchiare la botte. Consegnandoci così un sistema politico di tipo padronale, esposto alle tentazioni plebiscitarie e alle scorribande proprietarie del cacicco di turno. Senza più anticorpi, né contrappesi.

Certo, la marcia si è fatta, col tempo, meno trionfale. Le fragilità culturali e i difetti di carattere hanno scavato in quel piedistallo di consenso che le elezioni europee gli avevano regalato. Lo stesso partito che aveva scalato perscalare il paese si va facendo ogni giorno più volatile ed evanescente, man mano che la leadership carismatica si attenua e stenta a funzionare come polarità aggregante dall’alto, mentre i potentati locali vanno assomigliando a premoderne marche di confine. È comunque ipotizzabile, visti i cattivi venti che spirano dall’alto d’Europa, che il suo cammino – sia pure più tortuoso e impervio – continui, sostenuto da un’oligarchia sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora scarsamente contrastata. Oppure è possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto per sedersi infine sul trono che si è costruito. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta a ogni mano perduta, alla resa dei conti – un voto di fiducia mal riposto, un eccesso di arroganza mal compensato, una falla non mimetizzabile nel bilancio dello Stato, uno smottamento del suo elettorato – finisca per inciampare. E faccia default, consegnando il paese – e noi stessi – a un altro, persino più aggressivo e demagogo di lui. In ogni caso, ci troveremmo comunque in una post-democrazia dal profilo inedito. E – questo è certo – assai meno desiderabile.

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