Detto-fatto, la strategia elettorale di Meloni

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Flavia Perina
Fonte: La Stampa

Detto-fatto, la strategia elettorale di Meloni

Giorgia Meloni si è assunta personalmente, as usual, il ruolo dello starter della prossima campagna politica e della sua personale ricandidatura. Con largo anticipo ha sparato tramite intervista all’Adnkronos il colpo di pistola che dà il via alla corsa, delineato il programma e fissato persino lo slogan di riferimento: se nel 2022 troneggiò sui manifesti il suo «Pronti», nel 2027 sarà qualcosa tipo «Detto-Fatto», riferimento alla «cosa più banale su cui i politici andrebbero giudicati», dice la premier: ve lo avevamo promesso, lo abbiamo fatto.

La tesi del Detto-Fatto è naturalmente contestabile, quelli del fact-checking l’hanno già largamente criticata andando a caccia di dati su occupazione, salari, immigrazione, e persino percezione collettiva del cosiddetto orgoglio nazionale, e tuttavia: se l’opposizione pensa di ribaltare così gli esiti della campagna, auguri. Nell’era della post verità, la realtà non è niente rispetto alle emozioni.

Consolidare le emozioni, dunque. Il copione della destra è abbastanza facile da prevedere. Prima tappa, obbligata, il voto a Genova dove il campo largo della sinistra sembra in testa con la sua candidata Silvia Salis. Ma pure se andrà male i danni saranno limitati e la maggioranza potrà consolarsi la settimana dopo, con il probabile flop della partecipazione ai referendum sul lavoro, foriero della solita zuffa progressista post-urne: una pacchia. Autunno tranquillo, tornata regionale rinviata alla primavera 2026, Lega accontentata dalle immagini di Luca Zaia ancora sul suo trono che inaugura le Olimpiadi Milano-Cortina. Medaglie, inni, mondovisione, Italia first: contesto perfetto per la destra. Poi, certo, nel 2026 si dovrà votare in Veneto, Toscana, Marche, Campania, Puglia, ed è persino possibile che per quell’epoca il fronte avversario abbia trovato una sua quadra. Ma pure nella peggiore delle ipotesi, che volete che succeda? La sola Regione di destra contendibile sono le Marche, non cascherà il mondo. E se invece le cose andassero bene, si farà il colpaccio in Campania o addirittura in Puglia: fuochi d’artificio.

Così, a un anno esatto dalle Politiche (che saranno presumibilmente anticipate al giugno 2027) si potrà corroborare il Detto-Fatto con l’approvazione del premierato, studiandosi bene i tempi per posticipare il referendum confermativo al dopo-voto e non rischiare l’effetto Renzi di cui tutti hanno terrore. È un calendario solido, che stringe i bulloni della maggioranza perché quando si comincia a intravedere il momento-liste nessuno fiata più. Resterà, certo, il controcanto di Matteo Salvini, ma pure quello risulterà in qualche modo funzionale all’obbiettivo perché terrà dentro il recinto conservatore gli estremisti del sovranismo, gli ammiratori di Viktor Orban e Vladimir Putin, quelli che disprezzano l’Europa e la vorrebbero veder saltare.

Il rischio è più impalpabile, sottile, e pure quello ha a che fare col fattore emozioni, perché il Detto-Fatto di destra che da mesi domina sulla scena pubblica mica è quello italiano: è quello di Donald Trump. Lui sì che ha fatto davvero le cose che prometteva in campagna elettorale, super-dazi, deportazioni di massa, misure drastiche per annientare il wokismo e piegare l’egemonia culturale liberal, manette ai giudici, nazionalismo quintessenziale. E quel sovranismo realizzato – ben al di là della pallida versione italiana, che ha diluito il suo messaggio in un tran tran tutto sommato senza strappi – atterrisce le imprese, i mercati, gli elettori in generale, e suscita reazioni di rifiuto come si è visto in Canada e ieri in Australia, ma anche in Germania qualche mese fa con il ritorno al governo dei moderati. Il tifo americano per le forze dell’estremismo sovranista è una disgrazia che obbliga alla ritirata chi immaginava alleanze con loro, riporta alle urne l’astensione, rilancia i progressisti. E ogni giorno è un problema, perché le emozioni fanno in fretta a cambiare di segno: chissà come i cattolici italiani prenderanno l’ultimo meme trumpiano, quello dove il presidentissimo si rappresenta come Papa con tanto di tiara e Croce, a pochi giorni dal funerale di Francesco e mentre il prossimo Papa vero sta per essere eletto. Uno scherzo? Il solito atto di megalomania? O uno sfregio blasfemo alla Chiesa e al suo popolo?

«Alleati, non sudditi» dice Giorgia Meloni, che di sicuro ha ben chiari i rischi della situazione, ma l’incidente emotivo è dietro l’angolo, con un paradosso italiano assai specifico rispetto ad altre nazioni. La premier italiana ha conservato alti livelli di consenso edulcorando i programmi della campagna elettorale, ha fatto pace con l’Europa, ha messo in stand-by le riforme costituzionali, ha cercato la sintonia col Presidente della Repubblica (che non aveva votato), ha stabilito un buon rapporto personale con Bergoglio (che per metà del suo mondo era un Pontefice «abusivo»), ha riallacciato con Ursula von der Leyen (arcinemica fino al giorno prima), archiviato il blocco navale, l’abolizione della Fornerol’estensione della Flat Tax a centomila euro. Insomma: ha piegato il suo Detto-Fatto alla realpolitik e agli equilibri di bilancio, come tutti gli hanno riconosciuto. Ora rischia di essere messa in difficoltà da uno che le ricette del sovranismo le porta fino in fondo sul serio, spaventando tutti, e nei prossimi due anni hai voglia a calibrare il calendario della corsa: chissà che succede, chissà come finisce.

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