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di Pino Cosentino, 28 febbraio 2017
Il termine “democrazia” include una tensione tra il sistema politico realmente esistente e un modello ideale di esercizio della sovranità popolare, ma dato che il mondo dei concetti è molto più elastico e mobile di quello reale, la definizione di democrazia può coincidere in tutto o in parte con il primo, o anche allontanarsene parecchio.
Sul piano della realtà storica “democrazia” è il sistema politico nato faticosamente dalle rivoluzioni inglesi del XVII secolo, dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione delle colonie inglesi del Nord America nel XVIII secolo, poi imposto in tutto il mondo come standard dall’Occidente a guida USA. Per democrazia si intende quindi un sistema politico collegato a un determinato sistema economico e a un ordine mondiale a guida USA, nonché a un sistema di concetti e valori che l’Occidente anglo-franco-americano ha utilizzato per affermare la propria egemonia culturale sul resto del mondo.
Lo standard della democrazia è il sistema politico governato da un corpo di rappresentanti eletti con voto segreto da tutti i cittadini e cittadine che si rechino al seggio ad esercitare il loro diritto. E’ la cosiddetta democrazia rappresentativa, che si è imposta come standard universale nel corso del XX secolo, identificandosi con la democrazia tout court. La diffusione nel mondo della democrazia così intesa è associata spesso sia alla diffusione del capitalismo, ovvero di una compiuta economia di mercato; sia a un sistema di valori che include il motto della Rivoluzione francese del 1789 “liberté, fraternité, egalité”.
E qui nasce un problema. Perché la diffusione planetaria (con molte zone grigie, o peggio) della democrazia non ha prodotto maggiore eguaglianza, neppure là dove è nata. Nasce perciò il dubbio che la relazione tra sistema politico e condizione economica (che non coincide con “benessere”) della popolazione sia molto labile, o addirittura inesistente. Non si parla di rapporti di causa-effetto rigidi, quanto piuttosto di tendenze. La percezione che nemmeno la stabilizzazione e l’uso protratto nel tempo della democrazia abbia non si dice eliminato, ma neppure ridotto le disuguaglianze economiche, o le abbia ridotte meno di quanto fosse lecito aspettarsi (come nel caso delle disuguaglianze di genere) è confermata da una gran mole di studi, che contribuiscono a definire il fenomeno anche quantitativamente.
Se il sistema politico è neutro rispetto alle condizioni economiche, l’azione politica perde molto del suo interesse.
In effetti, una qualche relazione sembra esistere, non tanto tra “democrazia” come definita sopra, e distribuzione della ricchezza, quanto tra partecipazione politica e distribuzione della ricchezza.
Si prenda l’Italia. Con l’inizio degli anni Ottanta la partecipazione politica comincia a declinare, con l’esaurimento dei gruppi extraparlamentari, l’interruzione dei processi di unità sindacale e il ritorno delle burocrazie al controllo delle organizzazioni dei lavoratori, un senso di appagamento per i grandi risultati raggiunti e di stanchezza per quella che appariva ormai una lotta antisistema di piccole minoranze incarognite. La marcia dei 40.000 quadri della FIAT a Torino fu, nel 1981, l’evento simbolico del desiderio di voltare pagina dopo un decennio e più di scontri sociali fortissimi, che avevano cambiato l’Italia, ma che avevano anche stressato il paese, dall’omicidio di Guido Rossa a quello di Aldo Moro e della sua scorta, da un lato, le stragi di Stato, culminate con l’attentato alla stazione di Bologna dall’altro.
Da qui si dipanano due processi il cui parallelismo, con una sfasatura di dieci anni, suscita interrogativi e riflessioni molto interessanti. Dalle elezioni politiche del 1948 fino al 1979 la partecipazione al voto non è mai scesa sotto il 90%, con punte che sfiorano il 100% nel 1963 nel 1968. Dopo il 1979 la partecipazione al voto nelle elezioni politiche scende sotto il 90% (ma calcolando come non votanti anche le schede bianche e nulle), da lì, con l’eccezione del 1987, ogni appuntamento elettorale registra una diminuzione dei votanti, fino a giungere al 72,25 nel 2013.
Parabola simile, ma più accentuata (con punte negative, sotto il 50%, anche dove non te lo aspetteresti, come nelle ultime regionali in Emilia Romagna) nelle elezioni amministrative.
I dati di partecipazione al voto hanno il vantaggio di essere molto precisi e facilmente accessibili (Ministero interno). (Archivio storico, consultabile online). Vi sono però altri fatti, certamente più importanti, ma più difficili da quantificare esattamente. E’ certo, tuttavia, che vi è stato un lento ma continuo calo degli iscritti ai partiti e delle loro attività, tale che nel tempo il dato quantitativo ha determinato un mutamento qualitativo. I principali partiti, le cui attività erano state per molto tempo rivolte prevalentemente all’esterno, sempre più si chiudono in se stessi, fino a ridursi a partiti degli eletti, da intendere come membri del Parlamento e delle assemblee o dei governi locali, con scarsissimi rapporti politici con gli elettori, e invece frequenti contatti finalizzati a voti in cambio di favori.
Parallelamente, ma con una sfasatura di una decina di anni, l‘indice di Gini, che è comunemente utilizzato come misura della disuguaglianza economica (dal minimo di 0 = uguaglianza assoluta, al massimo di 1 = massima disuguaglianza possibile), nel 1975 si trovava come media italiana a 0,36. Da qui continuava a flettere raggiungendo tra il 1980 e il 1985 il tratto più basso della curva, che toccava il minimo (0,27-0,28), invertendo poi la direzione e iniziando una risalita che è arrivata allo 0,40 nel 2011 (Banca d’Italia, Una Mappa della disuguaglianza del reddito in Italia Ottobre 2013), con un percorso ascendente (ossia più disuguaglianze) che con qualche oscillazione continua tuttora.
Abbiamo parlato dell’Italia, ma questo andamento rientra in un ciclo più vasto, che riguarda buona parte del mondo. A livello globale il secondo dopoguerra è stato un periodo di forte crescita, di grande partecipazione politica, di riduzione delle disuguaglianze economiche, ma anche di genere. Poi si è prodotta un’inversione di rotta, la disuguaglianza ha ripreso a crescere e ora si è riportata sui livelli dei primi anni del Novecento. Non è cambiata la democrazia, che anzi si è allargata a più paesi sempre nella forma di democrazia rappresentativa a suffragio universale. Sono cambiate l’economia, l’organizzazione delle unità produttive, la finanza, ma soprattutto sono scomparse le organizzazioni e le correnti culturali popolari. La partecipazione intesa come impegno personale in attività sociali e politiche esiste e ha una discreta forza, ma non è ancora capace di un contrasto efficace delle politiche che producono impoverimento, disoccupazione, perdita di diritti, precarietà.
Un esempio del trend mondiale, simile a quello già illustrato per l’Italia: nel 1960 il reddito del 20% più ricco del mondo era trenta volte maggiore di quello del 20% più povero; nel 2006 il rapporto era salito a 150 (Pier Giorgio Ardeni, Distribuzione del reddito e disuguaglianza, slide reperibili online).
Un altro dato sull’andamento della ricchezza globale in questi ultimi anni: dal 2010 al 2016 i capifamiglia detentori di un patrimonio da zero a 10.000 dollari USA (USD) (la parte più povera della popolazione mondiale) erano circa il 68% degli abitanti del mondo mentre attualmente (2016) sono il 72%; sono cresciuti anche i ricchi, i proprietari di un patrimonio superiore a un milione d USD, che aumentano dallo 0,5% allo 0,7% della popolazione mondiale. Si è ristretto invece il numero delle persone della fascia intermedia, che passa dal 31,5% al 27,3% (Credit Suisse, Global Wealth Report 2010 e 2016).
Chiudo con una citazione dal Global Wealth Report 2016 di Allianz,“Sette anni di abbondanza: nei sette anni che ci separano dalla più grave crisi finanziaria gli attivi finanziari privati globali sono cresciuti circa del 61%, quasi il doppio del tasso di crescita del prodotto mondiale. Non ci vuole molto a individuare i responsabili di questo eccezionale sviluppo: le banche centrali del mondo hanno inondato continuamente i mercati con nuova liquidità a partire dalla crisi finanziaria spingendo verso l’alto il valore degli attivi. Così i risparmiatori stanno ora godendo del migliore dei mondi possibili? Certamente no”.
La democrazia rappresentativa, per quanto fondata sul suffragio universale, si è dimostrata incapace non solo di realizzare l’uguaglianza, ma nemmeno di arginare l’attacco del mondo globale “finanziarizzato” alle condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione mondiale e al saccheggio dell’ambiente, tant’è che ora possono presentarsi come difensori del popolo forze profondamente antidemocratiche. La democrazia non verrà salvata dalla rappresentanza, ma da una diversa struttura istituzionale, fondata sulla partecipazione popolare ai processi decisionali pubblici.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 27 di Gennaio-Febbraio 2017 “Il deserto delle diseguaglianze“