Europa: continuazione della guerra con altri mezzi ?

per Gian Franco Ferraris

 di Nicola Boidi

Una nuova battaglia è in corso in Europa. Niente di paragonabile alla battaglia vera, quella, ahimè, combattuta con strumenti bellici ai confini dell’«Europa ufficiale» dei ventotto Stati, nelle regioni dell’Ucraina in cui in modo intermittente si scontrano con scoppi improvvisi di violenza distruttiva, con feriti e morti, le opposte fazioni dei nazionalisti e dei russofoni. L’Ucraina, una nazione da sempre costituita da due principali comunità etniche e linguistiche, da sempre legata, nel ruolo di «madre naturale», almeno dai tempi del principato di Kiev, da un cordone ombelicale, alla sua «figlioletta» Russia.

L’altra battaglia che si sta sviluppando, non ai suoi margini orientali, ma nel cuore stesso dell’Unione europea, è però non meno «sanguinosa», e vede al centro lo scontro tra le sue anemiche istituzioni politico-democratiche e gli «energumeni» della Troika ( FMI, BCE e Commissione Europea, dietro di cui si fa paravento la Germania della cancelliera Merkel). Rovesciando il celebre detto di Von Clausewitz potrebbe essere definita «la continuazione della guerra con altri mezzi», i mezzi della politica, anzi della politica asservita all’economia, dunque una guerra economico-politica.

La posta in gioco del combattimento? La nomina del nuovo presidente della commissione europea a seguito delle elezioni del nuovo parlamento Europeo. Un veto è stato posto al nome di Juncker, il candidato del PPE uscito vincitore, ma non trionfatore, dalle urne, non sostenuto da tutti e ventotto i capi di governo europei, tra cui alcuni apertamente ostili come l’ungherese Viktor Orban, altri contrari per questioni di metodo, l’inglese Cameron e lo svedese Reinfeldt. Infatti Juncker sarebbe stato indicato in prima battuta dal Parlamento e l’appoggiarlo a posteriori in Consiglio darebbe luogo al precedente «pericoloso» per questi Governi nazionali del Nord Europa, di incominciare a riconoscere al Parlamento europeo l’esercizio degli effettivi poteri attribuitigli dai trattati di Lisbona e un conseguente ridimensionamento del ruolo del Consiglio con le sue annesse prerogative di politiche e misure economiche di austerity.

Juncker, di fronte ai veti e agli ostracismi incrociati, sembra abbandonato a sé stesso senza molti rimpianti, pur appartenendo alla sua stessa matrice politica, anche dal suo altro sponsor, il cancelliere tedesco Merkel, che sembra flirtare con l’altra ipotesi, a lei sicuramente più gradita, dell’ascesa al «soglio» della presidenza della commissione europea del presidente del FMI, la francese Christine Lagarde, sul cui nome pare siano in corso giri di valzer presenti o prossimi venturi, in incontri tri o quadrilaterali tra gli stessi leader, inglese, svedese, olandese, e la cancelliera.

Un’ipotesi gradita alla Merkel, perché la scelta della presidente del FMI significherebbe continuità nelle politiche europee di disciplina fiscale e di rigore di bilancio (Fiscal compact), continuità di quel governo della tecnocrazia finanziaria che tante devastazioni ha portato nelle economie dei partner europei: appunto la continuazione della guerra con altri mezzi.

Eh, sì, perché questa è la vera posta in gioco nell’appena iniziato braccio di ferro tra il parlamento europeo che, per la prima volta dalla sua nascita, appare seriamente intenzionato a far valere le sue prerogative d’imporre un suo candidato alla presidenza dell’unione Europea, legittimato tra l’altro dal esito elettorale, e i «Troikisti» non votati e non eletti da nessun meccanismo democratico: è ipotizzabile un cambio di rotta di quelle politiche di rigore dai devastanti effetti recessivi, assolutamente prive di qualsiasi sentimento umano, che hanno letteralmente determinato la vita e la morte, o la possibilità di un maggiore o minore grado di sofferenza e della fatica del vivere di milioni di cittadini della Comunità europea (anzi, pardon, dell’Unione Europea, come opportunamente è attualmente denominata, poiché del «comunitario» si è persa qualsiasi traccia)?

Pare dunque che si sia costretti a coalizzarsi «tutti insieme amabilmente», sinistra per Tsipras, socialisti europei e popolari, in appoggio alla nomina di Juncker, perché l’alternativa a questo sarebbe la prosecuzione delle «magnifiche e progressive sorti», del completamento e del «perfezionamento» della costruzione europea secondo i suoi sedicenti architetti, secondo i quali non ci sarebbe alternativa alla guida con «pilota automatico» dei processi economici e politici europei da parte dei mercati finanziari. Quegli stessi mercati, quelle stesse istituzioni o entità finanziarie a cui il nome di banche fa torto per difetto, (trattandosi di gigantesche società finanziarie dalle polimorfe e proteiformi funzioni speculative) che come ci insegna il sociologo Luciano Gallino nel suo ultimo, illuminante saggio – Il colpo di stato di banche e governi – L’attacco alla democrazia in Europa – attori-autori della crisi e recessione del 2007-2208, sono assurti, proprio in Europa, a «pianificatori» delle politiche di «risanamento» dei singoli Stati.

Coloro che all’inizio della crisi hanno impegnato i governi nazionali in interventi onerosissimi a sostegno dei bilanci delle banche private, costringendoli ad un ulteriore indebitamento pubblico, si fanno giudici e «curatori fallimentari» dei deficit e dissesti dei bilanci pubblici da loro stessi provocati.

Alla crisi finanziaria tutt’altro che risolta e bonificata nelle sue cause, e in modo peculiare proprio qui da noi, in Europa, si è aggiunta così la crisi del debito sovrano degli Stati nazionali. La terapia che è stata proposta, se non imposta al «malato» dalla «malattia» – la tecnocrazia finanziaria – è quella di scaricare gli oneri alle stesse figure sociali che avevano già pagato i costi della finanziarizzazione: i fruitori di salari medio bassi che avevano già visto ridurre i loro redditi e la stessa possibilità di occupazione, si sono visti ridurre anche le prestazioni sociali e aumentare il prelievo fiscale.

Annota Gallino: «La trasformazione o, per essere più precisi, il camuffamento della crisi bancaria come crisi propria del debito pubblico nella UE è stata definita la più riuscita campagna di relazioni pubbliche mai realizzata. In realtà, è stata molto di più. Si è trattato di uno straordinario successo delle classi egemoni sulle classi egemonizzate, conclusosi nel convincere gran parte di queste ultime che essendo corresponsabili delle due fasi della crisi, toccava a loro sopportare anche i costi della seconda fase, sotto la sferza delle politiche di austerità, dopo avere già pagato i costi della prima».

E ancora: « A questo proposito va aggiunto che i governi non avrebbero avuto il successo che hanno avuto in detta operazione, qualora la crisi stessa non fosse stata da essi utilizzata come forma di governo, e se le loro azioni non avessero goduto dei nefasti principi e della legittimazione parateologica forniti dalle dottrine neoliberali».

Questo spiega il doppio riferimento del titolo del saggio di Gallino: colpo di stato di banche e governi contro la democrazia in Europa, perché se le banche private già avevano esautorato la funzione primaria degli Stati di creare moneta, sono anche riuscite a convincere i governi ad agire come fossero dei loro dipendenti. Le politiche di austerity sono imposte a livello europeo dai trattati comunitari sui vincoli di bilancio che, al pari dell’introduzione della moneta unica, si presentano come assolutamente obbliganti e senza possibilità di deroga, sostenute da una tecnocrazia comunitaria non rappresentativa di alcun elettorato, di alcuna volontà popolare, e vengono avvallate dai governi nazionali come ineludibili, come fossero il parto di decisioni democraticamente prese.

Un’entità sovranazionale che non ha concluso il suo cammino di costituzione in Stato federale, che è rimasta «a metà del guado», che a differenza degli Stati Uniti, come ci ricorda l’analista Somoza, non ha un Presidente della federazione con vasti poteri, un parlamento federale, una suprema corte e una banca centrale a cui i singoli Stati abbiano delegato dei poteri esclusivi, ha conosciuto processi di accelerazione economico-finanziaria versus una vera e propria paralisi dei processi politici e sociali. Ci ricorda ancora Somoza che non esistono per i paesi membri dell’Unione europea politiche vincolanti in materia di difesa comune, di strategia sull’immigrazione, di Welfare europeo, di uno standard comune sulle retribuzioni (divari spaventosi esistono tra le diverse aree dell’Unione sulla media degli stipendi). La FED reserve statunitense ha da poco varato politiche di restringimento della base monetaria (riduzione dell’acquisto di titoli di Stato mensile per diversi miliardi di dollari) per favorire gli investimenti e incrementare l’occupazione. Il governo Obama vara politiche keynesiane di stimolo economico a partire dall’investimento pubblico su innovazione e ricerca, sulla fiscalità e sul sostegno diretto alle industrie. Altri Stati accanto agli Stati Uniti (Giappone e Cina) si stanno muovendo in sostegno dell’intervento pubblico sull’economia reale e in irreggimentazione della finanza speculativa.

In Europa, invece, la candidatura di Martine Lagarde a presidente della commissione europea annuncia la volontà di salvaguardare l’ortodossia neoliberista del governo sovrano e autoregolantesi dei mercati finanziari sulla politica, un’ortodossia ormai dismessa in mezzo mondo e che appare come la sentinella giapponese nell’atollo del pacifico intenzionata a proseguire la sua guerra personale diversi anni dopo la sua effettiva cessazione, dopo che la storia ha decretato nei fatti l’avvenuta sconfitta del suo partito ideologico, o come direbbe Gallino, della sua «parateologica» dottrina.

 

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