Franco Cardini: Un cinquantenario dal “vietato vietare” al degrado dell’università pubblica

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Fonte: Minima Cardiniana

di Franco Cardini

UN CINQUANTENARIO

e 161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

A MEZZO SECOLO DA UNA GENEROSA, FALSA RIVOLUZIONE (E A POCO MENO DI QUARANT’ANNI DA UN LIBRO GENEROSAMENTE “SBALLATO”)

Parliamoci chiaro. Soprattutto noi che giovani non siamo più e che, in quel 1969 – un anno dopo l’Anno dei Portenti, il Sessantotto – eravamo magari giovanissimi professori, o assistenti universitari (all’epoca tale qualifica esisteva, ed era anzi ambitissima), o studenti che avevano vissuto pochi mesi prima le barricate parigine del joli mai o che fingevano di esserci stati, ci abbiamo creduto del tutto o in gran parte, o abbiamo comunque ritenuto valesse la pena di accettare quella che ci sembrava la sfida dei tempi nuovi. È tempo di dichiarare esplicitamente il nostro generale disincanto, per quanto qualcuno si sforzi ancora di non ammetterlo.
È passato mezzo secolo dalla “Legge Codignola”, che ha celebrato il suo cinquantesimo compleanno una manciata di giorni fa. La ricordo ora, sia pure un po’ in ritardo, anzitutto perché quel nome, Codignola, suscita ancora in molti fra noi non più giovani un brivido di entusiasmo e di venerazione: appartiene a un’autentica Grande Famiglia di studiosi, di educatori, di coraggiosi uomini politici, di generosi editori. Si può anche non condividere tutto quel che appare connesso con questa o quella scelta di questo o di quel membro di essa, certo però la sua memoria appartiene al tempo nel quale l’Italia si è costituita e quindi ricostituita dopo la tragedia della guerra. D’altronde, a me personalmente quel nome rammenta anche un grande, indimenticabile amico purtroppo immaturamente scomparso, l’editore Federico Codignola, che insieme con Roberto Vivarelli credette una quarantina di anni fa in un mio orgoglioso, farraginoso, velleitario e strampalatissimo volume dal pretenzioso titolo Alle radici della cavalleria medievale: e lo ospitò in una prestigiosa collana della casa editrice ch’egli allora dirigeva, La Nuova Italia di Firenze. Ricordo che colui ch’era forse il collaboratore più illustre di quell’editrice, il grande Sebastiano Timpanaro, corresse irreprensibilmente le bozze di quel libro e addirittura ne elogiò il contenuto sotto il profilo scientifico e sotto quello stilistico, rifiutandosi però poi sempre e con ostinazione di venire ringraziato dall’Autore in calce all’opera, come di solito di fa in questi casi. La spiegazione di tale atteggiamento emerse alla luce del sole pochi mesi dopo, e costò all’autore stesso – cioè a me – il Premio Viareggio 1981, del quale era stato per mesi il candidato favorito. La ragione fu spiegata un po’ più tardi sulla rivista “Studi storici” da Marco Revelli, che a quanto pare esprimeva anche il parere di studiosi i quali preferirono però non comparire nella polemica. Mi piace segnalare a margine che, dopo quella vicenda, Marco Revelli ed io siamo divenuti buoni amici.
Quanto a quel libro, si trattava in effetti di uno scritto attraversato da tentazioni pericolose di tipo atavistico e irrazionalistico e da spunti consapevolmente provocatòri, che dava troppo spazio a studiosi quali Eliade, Dumézil e Abaev nonché ad oscure ipotesi junghiane e che si spingeva a citare perfino personaggi “dannati” (!?) quali Otto Höfler e Julius Evola. Insomma, alle corte, un libro per certi versi “nazista”, per quanto l’orribile aggettivo non fosse proferito e per quanto il lavoro avesse ricevuto favorevoli recensioni che da Sergio Bertelli arrivavano a Jean Flori e a Jean-Claude Schmitt. Tali erano, allora, propensioni che io – del resto in buona fede, con onestà scientifica – mi sforzavo di verificare alla luce di un metodo storico e filologico d’altronde ampiamente ispirato a quella che allora era la Nouvelle Histoire, con la sua aspirazione a connettere la scienza storica a quelle sociali e all’antropologia culturale. Di tutto ciò non ho motivo né di vantarmi né di vergognarmi; né, pur conscio di errori e di omissioni, ho nulla da rinnegare. Riscriverei, forse: ma dovrei averne il tempo e l’energia sufficienti, cosa della quale non sono sicuro. Magari, altri lo farà, perché la storia va sempre riscritta: e io gliene sarò grato.
Quella vecchia polemica è comunque riemersa, sia pure edulcorata, nel 2014, allorché il Mulino ha proposto una riedizione di quel libro con Prefazione di Alessandro Barbero; e più di recente, nel ’17, di nuovo su “Studi storici”, Alessandro Borri è tornato sul tema proponendo un’attenta ricostruzione dell’intricata (ma anche divertente) vicenda; rimando alle sue pagine chi volesse saperne di più. Resta il fatto – obiettivamente poco edificante – che il Viareggio 1981 mi fu all’ultimo istante negato: e due membri della giuria, ch’erano indignati per la piega presa dagli avvenimenti, mi narrarono la cosa. Erano Ludovico Zorzi e Giorgio Saviane: non esattamente gli ultimi arrivati e poco potevano essere sospettati di simpatìe “di destra”. Più tardi, nel 1996, avrei dovuto essere inviato a Parigi come direttore dell’Istituto Italiano di Cultura: ma una professoressa italiana da tempo insediata nella Ville Lumière piantò una grana sul fatto che io ero un reazionario: allora il nazismo, vero o presunto, non interessava più granché, ma vennero fuori il cattolicesimo “tradizionalista” e la Vandea: e il posto andò a un altro (fra l’altro, al mio amico Pietro Corsi, il che non ruppe al nostra amicizia: io gli feci gli auguri e lui mi fu grato perché evitai, rinunziando a un possibile ricorso, di procurargli qualche noia). Passo entrambe le questioni, se loro interessa, a Corrado Augias e a Marcello Veneziani i quali potranno trarne utili spunti se e quando vorranno tornare sulla loro diatriba a proposito della comodità o della scomodità di “stare” a destra o a sinistra. Del resto, so benissimo di essere ancora sottotiro: forse, data se non altro l’età, ormai sono una specie di mostriciattolo sacro. Ma se dovessero nascere nuove polemiche e dovessi ancora dar fastidio a qualcuno, state certi che nuovi “informatori corretti” non mancherebbero.
Ma dicevamo della “legge Codignola”, che apriva le porte dell’università a studenti medi i curricula dei quali erano stati fino ad allora considerati di serie B. Si parlava molto di “rivoluzione”, mezzo secolo fa. Se ne parlava ed eravamo in molti, magari in troppi, a crederci. In senso bipolare, magari: o che i tempi della sua maturazione dovessero essere affrettati, o che al contrario si dovesse far magari l’impossibile per fermarla. Per alcuni, render possibile l’accesso all’università a un numero sempre più ampio di problemi era un passo avanti per la democrazia; per altri – io fra loro – il vero passo avanti sarebbe stato nel consentire il più possibile quel passo a chi magari non ne avesse sufficienti mezzi economici ma dimostrasse intelligenza, volontà e perfino spirito di sacrificio tali da consentirglielo attraverso lo sforzo intellettuale, lo studio.
Comunque, le parole-chiave erano quelle: “eguaglianza” (e, del trinomio rivoluzionario, non libertà né fratellanza) e “rivoluzione”, cioè profondo mutamento istituzionale, politico e – a detta di molti – anche e soprattutto socioeconomico. Che poi pronunziandole si stesse parlando davvero in qualche modo di “cose”, non solo di “parole” (e magari di “parole magiche”), fu probabilmente l’equivoco di fondo che non riuscimmo mai davvero a chiarire.
Era comunque diffusa l’impressione, specie negli ambienti più radicali di una sinistra soprattutto intellettuale, che non fosse più tempo né di riformismi né di gradualismi. Operai e sindacalisti, insomma gli esponenti della vecchia “aristocrazia operaia”, sembravano non poter più essere in grado di proporsi come avanguardia di un mondo che stava rapidamente mutando.
Fu in quel clima che sembrò opportuno – e furono in molti a crederlo – ritenere che le antiche paratìe propedeutiche ai livelli più alti dell’istruzione fossero, in realtà, solo vani e sinistri espedienti volti a mantenere il potere scientifico e intellettuale (quindi il potere tout court) fuori dalla portata dei vari strati subalterni della società civile. Fu allora che si ritenne addirittura necessario negare e rovesciare qualunque forma di selezione e di gradualità nello studio e nell’apprendimento nel nome di un egalitarismo che doveva imporsi anche sul piano delle forme giuridico-istituzionali in modo da consentire l’accesso pieno al mondo degli studi, con i privilegi a ciò connessi, a chiunque lo avesse desiderato.
Con l’apertura dell’accesso agli studi universitari consentita anche a quanti non disponevano di quelli che fino ad allora erano stati ritenuti i necessari requisiti di preparazione specifica, si apriva la strada alla “università di massa” e alla fruizione di titoli universitari di studio non garantita da un adeguato livello propedeutico; e si sottometteva a una critica marxista invero alquanto “immaginaria” (così la definì, in un pamphlet destinato a restar celebre, Vittoria Ronchey) qualunque criterio di selezione e di controllo. Ciò aprì, non senza momenti di forte violenza intimidatoria, la strada all’“esame collettivo”, al “trenta politico obbligatorio”, al “tutto-e-subito”, al “vietato vietare”, al “siate realisti, chiedete l’impossibile”, al sistematico rifiuto del controllo selettivo quale strumento di verifica del sapere. Si aprì la stagione nella quale il “centodieci con lode” riservato a tesi di laurea in architettura su temi quali Il pensiero di Mao divenne un episodio consueto se non abituale nella nostra vita universitaria. E va detto che almeno in certe facoltà (da quelle umanistiche ad alcune tecniche) il corpo docente non si mostrò all’altezza della situazione: i docenti “di destra” si ritirarono sull’Aventino dell’assenteismo dinanzi all’impossibilità obiettiva di lavorare, pretendendo però che i loro privilegi restassero intatti (non era certo colpa loro, argomentavano, se s’impediva loro d’insegnare: e quest’alibi li abilitava, a parer loro, a farsi i fatti propri); quelli “di sinistra” s’illusero che quell’ondata di nihilismo imperfettamente gestita da centri radicali preludesse a una rivoluzione sociale che non venne mai e ritennero possibile “cavalcare la tigre”, salvo poi venir identificati come i primi e peggiori nemici proprio da quel movimento studentesco che avevano ingenuamente preteso di poter controllare, anzi di egemonizzare avvantaggiandosene.
Comunque, l’oltraggioso e tragicomico carnevale dell’affossamento di una tradizione di studi che aveva pur conosciuto stagioni di serietà e di funzionalità rispetto al corpo sociale che la esprimeva non segnò affatto il passaggio da una “università selettiva” a una “di massa”, bensì costituì un vero e proprio furto sociale a danno dei poveri per arricchire i ricchi. Non a caso, e subito lo comprese Pasolini, alla testa di coloro che marciavano contro il nemico di classe era proprio – brechtianamente – il nemico stesso: quando arrivò il tempo di qualche inchiesta prosopografica approfondita, ci si rese conto che i leaders del movimento provenivano spesso da famiglie della borghesia medio-alta o decisamente alta, ch’erano magari marxisti più o meno “immaginari” ma soprattutto quel che nel mondo iberico si definiscono señoritos e in quello italiano “figli di papà”. E il solito Pasolini, quando si trattò di scontri fra giovani gauchistes e agenti della polizia di stato, non esitò a manifestar simpatìa e solidarietà per gli agenti di polizia “figli del popolo” che affrontavano sassate e bottiglie Molotov anziché per gli studenti rossi “figli di fascisti” qualcuno dei quali – è vero – cadeva sul campo, ma ai più dei quali non veniva né torto un capello né imposta nemmeno una notte in guardina.
Il fatto era che ormai il deterioramento del mondo degli studi e l’affossamento progressivo della sua dignità e credibilità avevano fatto sì che, a partire dalla fine degli anni Settanta, a titoli di studio che pur continuavano a costare ma che si rivelavano sempre più vuoti di contenuto e al tempo stesso gravemente svalutati, tenne dietro la svalutazione morale dello stesso studio in quanto tale e quindi il proliferare di istituzioni “private” che ambivano a sostituire quelle pubbliche millantando meriti e strumenti che in realtà non possedevano. Alla moneta svalutata e fasulla d’una cultura convenzionale stanca e mal gestita si sostituì la moneta falsa d’una cultura pretestuosa e inesistente; e le poche isole rimaste immuni dal contagio divennero irriconoscibili nella marea montante della deprofessionalizzazione e della dequalificazione. Il degrado dell’università pubblica dette luogo all’industria succedanea di un incontenibile e redditizio business gestito da privati al di là di qualunque plausibile controllo. I ricchi o comunque gli agiati potevano preoccuparsi meno di tutto ciò: avevano pure i loro strumenti sostitutivi, i loro “paracadute”. Dai soldi alle conoscenze di famiglia, dal rapporto con i politici alla più o meno efficace “raccomandazione”. Ma i poveri, l’unica risorsa dei quali era stato il prestigio dell’istituzione che rilasciava i loro titoli di studio abilitandoli a nuovi esami e a nuovi concorsi, si trovarono come si usa dire “in brache di tela”.
Certo, non tutto era stato distrutto; non tutto irrimediabilmente compromesso. Ma la credibilità di un’istituzione, la sua publica fides, questo sì. Quel che fino ad anni prima era stato oggetto di stima e di rispetto divenne bersaglio di disprezzo spinto fino al ridicolo. Inoltre, alla sedicente “rivoluzione culturale”, che non c’era stata, non tenne dietro alcuna credibile e plausibile rivoluzione sociopolitica: risalire faticosamente l’erta scoscesa della rovina di un sistema che aveva fatto precipitare tragicamente in basso i livelli della nostra media preparazione scientifico-intellettuale e della nostra autostima civile è stata negli ultimi lustri un’improba fatica di Sisifo, non ancora e non del tutto compiuta. Anzi, forse impossibile a compiersi. E, spiace dirlo, il ventre che ha partorito i mostri di allora può aver mutato aspetto, ma è a tutt’oggi ancora gravido. Ricostituire un vero e valido sistema meritocratico e selettivo da mettere a disposizione della società civile a vantaggio anzitutto dei livelli socieconomicamente più fragili di essa è l’unico decoroso obiettivo possibile. Ed è, ancor oggi, lontanissimo dal poter essere anche solo plausibilmente impostato.

Franco Cardini

 
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