Fonte: Limes
FIAMME AMERICANE Gli Stati Uniti chiedono di non entrare in massa a Gaza. Per gli ostaggi, per questioni umanitarie, per prepararsi ad attacchi iraniani. Soprattutto, perché non credono che i militari israeliani abbiano obiettivi realistici. Lo spettro di Iraq e Afghanistan.
Gli Stati Uniti hanno un interesse assoluto a evitare che la guerra di Gaza diventi la Grande guerra del Medio Oriente. Ciò comporta impedire ai principali attori in gioco di intraprendere azioni che allarghino il conflitto. Si chiama deterrenza. La deterrenza è esterna, rivolta all’Iran e ai suoi alleati. Ma è anche interna, rivolta a Israele.
Il governo americano sta invitando la dirigenza ebraica a ritardare un’offensiva su larga scala nella Striscia di Gaza. Sempre meno privatamente e con sempre maggiore decisione, chiede tempo per rilasciare gli ostaggi, per prepararsi a difendersi dai clienti dell’Iran, sconsiglia di attaccare Ḥizbullāh (Hezbollah), esprime dubbi sulla fattibilità di distruggere Ḥamās (Hamas), invita a non compromettere le alleanze con i paesi arabi.
Anzitutto, l’amministrazione Biden chiede tempo per negoziare il rilascio degli ostaggi, sfruttando i servigi del Qatar, ospite e benefattore della dirigenza di Hamas. Quattro prigionieri sono stati liberati e i terroristi offrono di trattare su un’altra cinquantina di persone, con l’evidente intento di rallentare l’attacco. Assieme alla richiesta, gli americani hanno recapitato un monito: la liberazione delle duecento e oltre persone catturate il 7 ottobre è una nostra priorità e l’operazione di terra la comprometterebbe.
Gli Stati Uniti sono inoltre ragionevolmente certi di finire pesantemente sotto attacco da parte degli alleati dei combattetti palestinesi in caso di ingresso israeliano a Gaza. Non è un rischio, è una realtà in corso. Le basi americane in Siria e in Iraq sono da giorni sotto il fuoco delle milizie legate all’Iran. Le navi nel Mar Rosso sono state impegnate per nove ore per abbattere i missili e i droni lanciati dallo Yemen. Anche la flotta nel Mediterraneo è a rischio e per questo stanno arrivando batterie della contraerea a Cipro.
Washington sta poi segnalando tutta la sua contrarietà a Israele all’eventualità di un’operazione su larga scala contro Hezbollah. Una riedizione del conflitto del 2006 in Libano non è ipotesi di scuola. È stata proposta nel gabinetto di guerra dal ministro della Difesa Yoav Gallant, su consiglio di buona parte dei vertici militari. Il piano prevedeva di condurre il grosso della reazione bellica all’attacco del 7 ottobre non su Gaza ma sul fronte libanese, con un colpo preventivo per eliminare i centomila razzi e missili a disposizione della milizia sciita, pesante spada di Damocle sul capo dello Stato ebraico. Mentre la Striscia sarebbe stata usata come diversivo per distrarre Hezbollah.
Benché il piano sia stato bocciato, gli americani temono che resti sul piatto. Così, hanno sconsigliato l’alleato di reagire massicciamente ai continui lanci di razzi da nord (con diverse perdite tra soldati e mezzi corazzati). Perciò il segretario alla Difesa Lloyd Austin avrebbe promesso al governo israeliano che gli aerei statunitensi attaccherebbero le postazioni di Hezbollah in caso di apertura di un secondo fronte. Pare che sia proprio questo il contenuto delle comunicazioni formali recapitate dall’amministrazione Biden ai vertici della milizia sciita tramite i canali ufficiali degli alleati arabi. Caso anche questo di dissuasione duplice: verso Hezbollah, verso Israele.
Tuttavia, gli Stati Uniti stanno anche usando il rischio che Hezbollah entri in guerra come argomento per indurre Israele ad ammorbidire i bombardamenti su Gaza.
Il buio dopo Gaza
Soprattutto, il governo americano non ritiene realistico il piano israeliano di invadere Gaza. Biden vi ha alluso nel discorso a Tel Aviv, comunque pieno di empatia e cordoglio: «Le decisioni di guerra […] richiedono chiarezza sugli obiettivi e di valutare con onestà se il percorso su cui ti trovi raggiungerà quegli obiettivi».
Le burocrazie washingtoniane hanno seri dubbi sulle prestazioni militari dello Stato ebraico. Il Pentagono giudica inarrivabile l’obiettivo di distruggere completamente le capacità belliche e politiche di Hamas e non ritiene pronte le sue Forze armate a un’operazione così complessa in ambiente urbano. L’intelligence le valuta indebolite a causa delle spaccature sociali interne a Israele. A giudicare dal piano di Gallant di attaccare Hezbollah, nemmeno gli stessi militari credevano davvero di poter vincere nella Striscia.
Intervenendo al gabinetto di guerra israeliano, «Biden ha anche sollevato lo spettro della disastrosa decisione dei funzionari americani di invadere l’Iraq e di condurre un lunga guerra senza fine in Afghanistan», secondo il New York Times. Ammissione clamorosa se davvero espressa in questi termini, la prima per un presidente degli Stati Uniti. Indice della profonda sollecitudine americana a dissuadere Israele dall’infilarsi nella trappola di Gaza soltanto sulla spinta dell’opinione pubblica, ferita e desiderosa di vendetta. Fonti israeliane riferiscono dello shock e del disorientamento del governo e in particolare di Netanyahu nei giorni successivi all’attacco.
Ci sono infine legittime considerazioni sul dopo-Gaza. L’amministrazione Biden critica Israele per il seguente paradosso: dire che Hamas non può più avere un ruolo politico nella Striscia ma rifiutarsi di tornare a occuparla. Probabilmente, l’idea originaria di Netanyahu e soci era radere al suolo Gaza, recintarla e buttare la chiave.
Per Washington non è accettabile. E non solo perché, coi riflettori del mondo puntati addosso, sarebbe impossibile per Gerusalemme mantenere livelli accettabili di sostegno internazionale ignorando le vittime civili. Il motivo è che gli americani temono un allargamento del conflitto non solo in Medio Oriente, ma pure ovunque si trovino ambasciate, basi o cittadini statunitensi – pure il rischio di disordini in Europa è tenuto in considerazione.
Il temuto allargamento non è poi solo bellico, ma anche diplomatico. Il rischio è che, devastando Gaza, Israele devasti anche le alleanze coi paesi arabi tessute dagli Stati Uniti dal 1979 a oggi. La sopravvivenza di quella struttura è fondamentale per Washington.
Per questo gli americani considerano di coinvolgere gli Stati arabi nel futuro della Striscia, con una forza multinazionale di interposizione o con un governo ad interim, magari sotto l’egida dell’Onu e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Piano fantasioso, per diversi fattori. L’Anp è in profonda crisi di legittimità anche in Cisgiordania e non ha legami a Gaza dopo 15 anni di dominio di Hamas. I paesi arabi dovrebbero improvvisamente scoprire come coordinarsi in una concreta operazione sul terreno, campo mai esplorato da regimi abituati ad aprire il portafoglio. E rischiano di passare per complici dello Stato ebraico presso le opinioni pubbliche, un fattore in Egitto e anche in Arabia Saudita.
In ogni caso, se Gerusalemme vorrà mantenere in piedi la versione moderna della dottrina della periferia (sicurezza attraverso la pace con gli arabi), necessaria come scudo nella guerra d’ombre con l’Iran, dovrà necessariamente lavorare con egiziani, sauditi e soci per stabilizzare la questione palestinese. Anche riproponendo la oggi incredibile soluzione dei due Stati. O almeno questo è il ragionamento prevalente a Washington, in tutti i circoli della politica estera.
Consigli, non ordini
Dalle pressioni degli Stati Uniti, si intuisce la consapevolezza di un dilemma: cosa succede se, invadendo Gaza per ripristinare la deterrenza, Israele finisce per lederla ulteriormente?
Eppure Biden ha sposato l’obiettivo di punire Hamas. Per questo, il governo americano potrebbe offrire un consiglio allo Stato ebraico. Dimenticare una grande offensiva di terra casa per casa, per puntare su bombardamenti e raid delle forze speciali. Entrambe sanguinose. La seconda meno della prima, catastrofica soprattutto per i suoi risvolti internazionali e per l’alto rischio di compromettere ulteriormente l’immagine marziale di Israele.
L’amministrazione si esprime attraverso consigli, non ordini. Non è protocollo diplomatico. È lucidità tattica. Non vuole umiliare, dunque ulteriormente indebolire, il governo di un popolo ferito e rabbioso. Non vuole fare il gioco di Iran, Russia e Cina, la cui propaganda dipinge Israele come una marionetta dell’America. Vuole mantenere la giusta distanza nel caso in cui Israele ceda alla rabbia.
Arrivando in Israele, Biden ha abbracciato Netanyahu. Un abbraccio comunica affetto. Ma blocca pure.