di Fausto Anderlini – 18 ottobre 2017
Negli ultimi dieci anni se ne sono andati in buon numero, tutti relativamente presto, in media attorno ai settanta anni di età. Nell’ordine, Bulgarelli, Haller, Furlanis, Tumburus, Nielsen, Pascutti, ed ora anche Marino Perani. L’ala destra, il tornante tattico, di quel magnifico quintetto d’attacco. Di piccola statura, con la testa grossa e le gambette ricoperte di peli s’intendeva alla perfezione col vicino Bulgarelli e la sua specialità erano i cross, le punizioni e i rigori, che tirava regolarmente di piatto destro a mezza altezza alla sinistra del portiere (che spesso li parava).
Assieme a Bulgarelli, Fogli e Janich (il libero che organizzava la difesa) erano la materia grigia raziocinante della squadra. Mentre Haller, Nielsen e Pascutti esprimevano l’estro e l’intuito geniale. Tumburus, Furlanis e Pavinato la generosa brutalità. Negri la compostezza posizionale.Tutti, ognuno nel suo campo, di gran classe. Tutti nativi della fine dei ’30 del secolo scorso e di umili origini. Tutti provenienti dalle lande sperdute delle province nordiche. Salvo Renna, che era di Lecce, e Haller che era un cittadino di Augusta ma faceva il camionista. Nessuno, appese le scarpe al chiodo, diventato ricco o baciato dalla fortuna. Furlanis tornato a fare l’artigiano del legno, Pascutti tormentato dalle disgrazie e Tumburus avendo subito l’onta, in fine carriera, d’essere giocato alle buste fra il Vicenza e il Rovereto per 25 lire. Il prezzo di un etto di pane. Anche Bulgarelli con non miglior sorte, cadendo malato proprio quando dopo alterne vicende gli si era spalancata innanzi una promettente carriera di telecronista. E infatti il primo a morire, per quanto fosse il più giovane della compagnia (assieme a Nielsen). Salvo Tumburus e Furlanis il sestetto difensivo si è dimostrato più resistente. Viventi sono ancora Pavinato (il più anziano, e per questo il capitano), Janich, Fogli e Negri (portiere pallavolista del mantovano). E assieme a loro anche le riserve di lusso Capra e Renna, quest’ultimo denominato il Garrincha dei poveri. Ma in vita son rimasto anch’io, che allora, nell’anno di grazia dello scudetto del ’64, avevo quattordici primavere e perciò, non potendo giocare, ero consegnato nella curva San Luca. La curva in quei tempi era una terrificante barriera operaia disposta sui gradoni come una falange invincibile, mentre la borghesia stava seduta in tribuna e gli impiegati e i commercianti nei distinti. E bisogna dire, sebbene questo sia un punto di vista strettamente soggettivo, che quella squadra di classe raffinata che giocava come solo in paradiso, pur essendo di ignota composizione politica, esprimeva l’impareggiabile bellezza dell’ottimismo proletario del tempo. Il Bologna era amato da illustri letterati, come Pasolini e Volponi, e da tutti i comunisti d’Italia, sebbene Togliatti fosse juventino (mentre Berlinguer resterà orgogliosamente legato alla Turris). Odiato dai democristiani e dai poteri forti delle grandi città del nord che non sopportavano il primato estetico della metropoli rossa con la più grande organizzazione dell’occidente capitalistico. E che infatti ci tirarono lo sghetto meschino del doping. In effetti per me il comunismo fu questo: Negri, Dozza, Togliatti – Longo, Janich, Fogli – Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti. Declamati secondo lo schema tre tre cinque. Accolti da un immenso boato. Dopo la pubblicità dei negozi d’abbigliamento Nicoletti. Identità, orgoglio e bellezza. Fratelli come mai più fummo. E dimenticanza della morte, grande diletto.