Alfredo Morganti – 17 dicembre 2018
Parrò ripetitivo e semplificatorio. Ma nel gran parlare di ‘abissi’ che separano le élite e il ‘popolo’ (e forse sarebbe meglio dire chi vive in una metropoli da chi vive in provincia, chi vive in centro da chi vive in periferia, chi ha studiato e chi no, gli intellettuali e gli operai, ecc.), pochi dimenticano che le distanze sociali e culturali possono colmarle positivamente solo le organizzazione politiche di massa (e tra queste metterei anche la Chiesa). Nient’altro. Né i movimenti, né i media, né gli eventi, né l’indignazione diffusa. I trent’anni del dopoguerra, che sono stati per l’Italia un momento d’oro, avevano questo a proprio vantaggio: un ramificato tessuto politico che teneva salde le coscienze, organizzava i conflitti su basi solidissime, non produceva fiammate ma una continua commisurazione dei rapporti di forza, capace di penetrare fisiologicamente ed efficacemente nelle istituzioni. Quando tutti o quasi in Italia celebravano la fine della Prima Repubblica, in realtà stavano cantando al funerale della rappresentanza sociale e istituzionale nelle sue forme più alte, quelle che avevano sorretto lo sviluppo del nostro Paese per tanti anni, indirizzandolo nei binari di una democrazia vera e partecipata come poche in Europa.
Ripensavo a questo leggendo l’intervista che Annie Ernaux ha rilasciato a ‘Repubblica’ il15 dicembre, sul tema dei gilet gialli. La Arnoux legge il fenomeno come la ‘rivolta’ della provincia contro chi la ignora, dei dominati contro i dominanti, del popolo contro gli intellettuali e i vertici politici. Insiste, giustamente, sulla marginalità di certi settori sociali come le periferie e la provincia rispetto alla città e ai centri urbani. Sono un borgataro figlio di una famiglia operaia immigrata e so di cosa parla. Sbaglia, tuttavia, quando riduce tutto alla glorificazione della sacrosanta rivolta di questi ‘marginali’ contro coloro che occupano, invece, il centro del mondo. Questa rivolta non indica solo uno stato di profondo disagio, ma segnala ancor prima l’assenza della politica, la sua riduzione a esplosione immediata di forza, a riflesso mediale, ad astratta simbologia, a leaderismo, a sommossa, a litigiosità, a pura ricerca di un effetto video o social. Quest’assenza rimuove un collante di regole di ingaggio, di soluzioni istituzionali, di mediazioni politiche, di dialogo, di discussione, di dibattito pubblico, di conflitto produttivo, che null’altro è più in grado di garantire negli stessi termini. Tant’è vero che il conflitto coincide con una crisi che non ha seguito efficace, ed è una fiammata a cui già seguono alcune concessioni, fino al riflusso finale (c’è il riflusso quando va bene, quando va male il voto va a destra).
La riduzione della politica al solo spazio della rivolta e al suo riflesso mediale (e poi alle concessioni del Capo) è come se spingesse tutto verso una base naturalistica dei rapporti di forza. Questi non hanno più una dimensione pubblica, di discussione, di dibattito, un’articolazione culturale sia locale sia istituzionale, ma solo una estensione ferina e animalesca. La Arnoux, che proviene dal mondo della provincia, racconta di aver iniziato a scrivere per “vendicare la sua razza”. Parola pericolosa (‘razza’) che indica il grado di naturalismo antipolitico che fa da cornice a certi ragionamenti. Qui il popolo diventa bivacco, e siamo ben oltre il populismo ‘politico’ che vaga trasversalmente in Europa. Anche perché una rivolta senza (o contro) la politica è destinata a morire e a soccombere dinanzi ai potenti. Eterogenesi dei fini. La politica, i partiti di massa, le grandi organizzazioni garantivano, al contrario, la ‘tenuta’ sociale, gettavano un ponte sugli ‘abissi’, interagivano nello spazio pubblico. La loro morte è coincisa con la fine della società così come la intendevamo: conflittuale ma ‘raccolta’ nei limiti di istituzioni democratiche rappresentative e legittimate. Ma se il punto è questo, compatibilmente alle condizioni mutate del nostro Paese, dell’Europa e del Mondo, allora si tratta di lasciar stare a sinistra le illusioni dell’antipolitica (movimenti estemporanei, micropartiti, trasversalismi, leaderismi, personalizzazione, ipermedialità) e riprendere la strada interrotta. Certo, per fare un grande partito nuovo e di massa a sinistra bisognerebbe anche uscire dalla microconflittualità, pensando in grande piuttosto che per conventicole, concedendo tempo per realizzare il progetto, evitando trappole e frettolosità. E comunque, secondo me, la strada è questa.
PS, ho scritto un libro di poesie chiamato ‘Roma e Non Roma’. Molti hanno pensato che l’accento l’avessi posto esclusivamente su ‘Non Roma’, pochi altri invece su ‘Roma’. Il mio intento era mettere in risalto la ‘e’: che voleva dire conflitto ravvicinato e ricomposizione su nuove basi. La fatica dei viaggi in metropolitana tra borgata e centro storico raccontata nei versi era tutta in questo significato. Nella mediazione difficile, faticosa, politica che oggi non c’è.