Fonte: La Repubblica
Url fonte: http://www.repubblica.it/economia/2015/06/05/news/grecia_l_inutile_compromesso-116085305/
di MARIANA MAZZUCATO 05 giugno 2015
Il braccio di ferro tra Atene e i creditori internazionali sembra avviarsi verso l’ennesimo compromesso e già riecheggia il coro dei falsi ottimisti: meglio un compromesso di un default. E invece proprio questo è il momento di dirlo chiaro e forte: si profila un accordo che rischia di non risolvere nulla. Non solo i problemi della Grecia, che sono enormi. Occorre ben altro per affrontare la vera questione: la mancanza di un piano di crescita e investimenti. In Grecia, certo, ma anche in Spagna e, naturalmente, in Italia. Com’è possibile che l’Europa continui a far finta di non capirlo?
Ogni compromesso ci costringerà a intervenire con un nuovo piano di salvataggio ogni sei mesi: rimandando di volta in volta il problema. Mentre una soluzione di lungo periodo può arrivare solo se cambia la diagnosi. La Grecia non cresce per l’inefficenza del settore pubblico e l’assenza di investimenti. La Grecia non cresce perché non ha dedicato abbastanza risorse a produttività e capitale umano. È la crescita che bisogna rilanciare. Che cosa ce ne facciamo di un altro compromesso?
Adesso, anche ad Atene, perfino tra gli entuasiasti sostenitori di Tsipras della prima ora, c’è chi punta il dito contro lo stesso partito che aveva promesso la svolta. E allora varrebbe forse la pena distinguere. Sì, la gestione della crisi da parte della Troika è stata imbarazzante: ha spinto prima il Paese verso il baratro e poi tra le braccia di Syriza. Ma va pure detto che l’attuale governo greco si è chiuso troppo sulla difensiva. A parte affrontare il problema, gravissimo, della corruzione, non ha messo per esempio in cantiere una riforma del settore pubblico, dove ci sono enormi problemi di nepotismo. Va bene rifiutare altri tagli: ma bisognerebbe avere il coraggio di cambiare, per esempio, i meccanismi delle assunzioni, reimpostandoli secondo criteri di esperienza e capacità. Oppure muoversi nella direzione ventilata dal ministro delle finanze Yanis Varoufakis: istituendo una Investment Bank nazionale (altro che Cassa Depositi e Prestiti!) capace di favorire la spesa, replicando a livello locale la missione della Banca europea degli investimenti – non si vive di solo Quantitative Easing…
Naturalmente è inutile fare finta che sia un problema della sola Grecia. Perché dal punto di vista dei fondamentali economici, e in particolare della scarsità di investimenti, Portogallo, Spagna e Italia sono messi altrettanto male. C’è chi replica che la crescita, per quanto timida, in Italia è tornata, gli ultimi dati sulla disoccupazione mostrano un primo calo, la spesa pubblica rallenta. Ma la Grecia, si sa, non è lontana: e non solo geograficamente. Il debito greco, nel 2007, non era molto più alto di quello odierno italiano – e all’improvviso è andato fuori controllo. Oggi l’economia italiana è altrettanto malata: e anche con un deficit piccolo, se il Pil non cresce, il debito puo andare fuori controllo.
“Allacciate le cinture, l’Italia decolla”, dice il premier Matteo Renzi, dopo aver sostenuto che i 159mila posti registrati in aprile dall’Istat sono merito del Jobs Act. Ma le riforme messe in atto dal governo non sono tali da poter rilanciare crescita e investimenti. Se il prodotto interno lordo italiano non cresce da vent’anni non è solo colpa del sistema pensionistico, del pubblico impiego o dell’articolo 18. Certo, è importante avere un mercato del lavoro dinamico, e il Jobs Act – quantomeno nello spirito – va in questa direzione. Ma una vera e sostanziale crescita dall’occupazione può venire soltanto dagli investimenti, pubblici e privati, in quei due fattori fondamentali che si chiamano produttività e innovazione. È così che la Danimarca è diventata il primo fornitore di servizi per la green economy in Cina: dove sono i progetti del genere in Italia?
Quella che servirebbe, insomma, è una vera rivoluzione economica, e non a Roma ed Atene soltanto, ma a livello europeo. Una rivoluzione che attraverso un’agenda per la crescita riscopra il senso originario dell’Europa: un gruppo di Paesi solidali e competitivi. Sento parlare adesso di rafforzamento della governance, di Europa a due velocità: di quà quelli dell’euro e di là gli altri. Germania e Francia sono le prime a spingere in questa direzione: e il documento Gabriel-Macron, pubblicato in Italia da questo giornale, sembra quasi un manifesto programmatico. Certo, è importante velocizzare i meccanismi, sburocratizzare l’Europa, riuscire a intervenire – per esempio – con riunioni veloci nei casi di emergenza. Ma in fondo si tratta, ancora una volta, di aspetti di procedura, e dunque marginali. Il vero punto è un altro: agire alla radice. Soltanto agendo tutti insieme i paese della Ue potranno competere davvero con la Cina e gli Usa. Da soli – alla faccia di tutti i Grexit e Brexit – siamo perduti.
Anche per questo dobbiamo non solo riscoprire il nostro senso di solidarietà, ma anche comprendere che cosa che ci differenzia davvero. Urge una nuova diagnosi della malattia: solo così potremo trovare la medicina giusta. E le differenze sono chiare: tra chi ha ristretto la cinghia, usando la medicina dell’austerità, e chi ha invece investito massicciamente in aree chiave, usando appunto la medicina degli investimenti. L’Europa, per crescere, non ha proprio bisogno – anche qui – dell’ennesimo compromesso.