di Alfredo Morganti – 22 settembre 2017
Io me li ricordo i ‘gruppettari’. Avevo amici così, li ho frequentati. Sentirsi nei gruppi per loro era segno di purezza, idealità e spirito rivoluzionario, senza mediazioni, senza concessioni. I ‘compagni’ da una parte, i ‘revisionisti’, la borghesia, i fasci dall’altra. Con una netta linea di demarcazione. Il grande partito era il traditore, quello che svendeva la pelle dei proletari per un piatto di lenticchie. Minoritari per scelta e per definizione (tanto il ‘popolo’ era con loro, mi dicevano), si rifugiavano in piccole formazioni, facevano scissioni, si scindevano pure dalle scissioni. Io ero nella FGCI ma parlavo con tutti (con alcuni ci suonavo, erano miei amici, il dialogo era obbligatorio), ma non capivo come ci si sentisse orgogliosamente chiusi in una specie di recinto, seppur ideologicamente dorato. Poi, alcuni di loro oggi sono di destra, fanno una vita molto diversa dalla mia, in borgata non li ho più rivisti, e già allora le loro famiglie di piccolo-media borghesia erano ben lontane dagli standard della mia, composta di operai romani ed ex contadini romagnoli. Ma questo è un altro ragionamento.
Bene. Secondo voi Bersani e D’Alema potrebbero definirsi ‘gruppettari’? Ossia ideologi che antepongono la propria purezza ideologica alla realtà quotidiana? Ma quando mai! Eppure c’è chi lo ha fatto, pensando che il tema fosse la ‘piccolezza’ di una formazione politica nata da una scissione e non la cultura politica di cui si è concretamente dotati. In realtà, è molto più gruppettaro chi milita in un partito più grande elettoralmente ma ragiona per ‘vocazione maggioritaria’, ‘chiudendosi’ in un recinto politico, per ampio che sia, in un partito che guarda solo a se stesso e cresce all’ombra di un Capo. Uno che legge quella vocazione in modo ‘minoritario’, com’è logico che sia: ‘me, il puro, contro tutti’. Tipo Renzi. Il quale, peraltro, sin dalla sua prima apparizione sulla scena, ha sempre ben distinto se stesso dalla politica-politica, si è ben guardato dal mischiarsi a un PD che non era ‘suo’, ha sempre manifestato una propria ‘purezza’ impolitica, una propria distanza dai palazzi romani, una ‘neutralità’ ideologica rispetto alla storia e alla tradizione della sinistra italiana. In fondo, la rottamazione era proprio questo, alzare un abisso tra sé e gli altri ‘politici’ invischiati nella ‘palude’. Non è un ‘gruppettaro’, uno così? Non è uno che vuole tenersi pulito, mentre attorno la politica quotidiana vive la sua ordinaria esistenza?
D’Alema ieri a Reggio Emilia, a proposito di chi lo ha definito ‘gruppettaro’, ha avuto parole sprezzanti. ‘Li abbiamo svezzati male’. Così ha detto. Facendo autocritica, in primis, e poi forse dicendo che il ‘giovanismo’ non ci ha aiutato, che le classi dirigenti debbono essere formate, non mandate allo sbaraglio ancora imberbi, armate delle sole ambizioni, per quanto gigantesche e sovradimensionate. Il problema delle élite non è una questioncina qualunque. Forse sarebbe il caso che, invece di parlare sempre di ‘popolo’, piazzandolo in qualunque discussione anche campata in aria, si parlasse di più di classe dirigente, della sua qualità, della sua preparazione, della sua ‘visione’ e persino della sua etica. Perché è dalle classe dirigenti che dipende anche la qualità del ‘popolo’. Non solo viceversa. Ma poi smettiamola di citarlo sempre, questo ‘popolo’. Davanti a noi ci sono classi, ceti, figure sociali reali. Soggetti ed esistenze singolari con problemi ruvidi e spesso tragici. La parola ‘popolo’ semplifica la sintesi a livello emotivo e comunicativo, ma poi c’è un mondo reale fuori di noi, dissestato, effetto della crisi, di difficile ricomposizione. Le categorie culturali aiutano, ma non possono bastare in una impresa titanica di coesione e trasformazione. Serve l’iniziativa politica, garantita da un grande partito o da un sistema di partiti operante in un tessuto di istituzioni democratiche e rappresentative autorevoli, dialoganti, aperte ai cambiamenti sociali. Di qui non si scappa, temo, e il resto mi sembra solo un’astrazione.