Il centrosinistra unito può giocarsela

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Antonio Floridia
Fonte: Striscia Rossa

 Il centrosinistra unito può giocarsela

A cose fatte, sembra tutto scontato, ma il test del voto regionale toscano presentava alcune incognite, non tanto circa il risultato finale, quanto per il modo con cui ci si poteva giungere. Il primo dato è quello di una conferma: come anche emerge dal voto nelle Marche e in Calabria, e prima ancora in Liguria, dove pure il centrosinistra ha perso, i rapporti di forza complessivi tra i due schieramenti sono stabili, come pure i sondaggi più seri continuano a dire da mesi: un lieve vantaggio del centrodestra, che però si azzera considerando anche una componente centrista potenzialmente alleata con la sinistra. Lo “sfondamento” a destra non c’è stato, dopo tre anni di governo Meloni, e nonostante l’imponente apparato propagandistico di cui può godere. E da qui, anche, a quanto pare, il progetto di cambiare nuovamente la legge elettorale

Foto da Facebook

Le grandi incognite dentro le urne

In Toscana, poi, c’erano altre incognite specifiche: negli ultimi anni la destra ha conquistato 7 capoluoghi di provincia su 10 (tutti tranne Firenze, Prato e Livorno), in alcuni casi confermando al secondo mandato i sindaci eletti, segno di un certo radicamento di un nuovo ceto politico, come ad esempio a Pistoia, con il sindaco Tomasi, ora candidato alla presidenza della Regione. Si poteva ipotizzare che questa maggiore presa sul potere locale si traducesse in un’avanzata anche elettorale: non è accaduto. La Toscana, in questi ultimi due decenni, non si è spostata a destra: nelle elezioni regionali del 2000 l’ex-ministro Altero Matteoli ottenne il massimo storico, il 40% dei voti, e da allora il centrodestra ha sempre oscillato tra il 35 e il 40, ottenuto poi di nuovo solo nel 2020, con la leghista Ceccardi e ora replicato da Tomasi. I dubbi nascevano sull’assetto dell’altro schieramento: quando vi era una solida struttura coalizionale fondata sui Ds , l’Ulivo e poi il primo  Pd, il distacco era netto, non c’era partita. Negli ultimi anni, come sappiamo, il “campo” opposto alla destra si è sfrangiato, sono emersi nuovi soggetti dalla difficile collocazione, e il PD – dopo la stagione renziana – si è fortemente indebolito (si tende troppo stesso, anche all’interno del Pd, a glissare su un punto: il partito in dieci anni, dal 2013 al 2022, ha perso sei milioni di voti: come mai è accaduto?). E la necessità di costruzione di coalizioni ampie si è fatta più stringente. Nelle regionali del 2020, una coalizione ristretta Pd-IV ebbe solo 8 punti di vantaggio, e con i dati delle Europee del 2024, se non si fossero aggregate sia le forze centriste che il M5S, si partiva da un dato di parità.

 

Si prefigura un assetto ideale della futura coalizione di centrosinistra

Si spiega così come la strategia ostinatamente unitaria di Elly Schlein, premiata in Toscana: se anche in Toscana un “campo” molto largo era necessario, figuriamoci quanto lo sia da altre parti e su scala nazionale Si dirà: non basta. Certo, una coalizione larghissima è necessaria, ma non ancora sufficiente, in vista delle elezioni politiche del 2027. E allora si parli di questo, la si smetta con i discorsi inutili sul “formato” della coalizione: sono tutti indispensabili, compreso quel M5S che, dall’interno e dall’esterno del PD, si vorrebbe rimuovere e che molti continuano a dare per irrilevante o spacciato (ma non accade, e non è accaduto neanche in Toscana). Renzi lo ha capito: ha capito che non ci sono più margini per posizioni “terzopoliste”: una forza di centro è utile, e può avere molto spazio, ma all’interno – e senza ambiguità – di uno schieramento progressista che comprenda pienamente sia AVS che il M5S. Si discuta al più presto del programma comune, sciogliendo i nodi più difficili (nodi, però, che il PD deve affrontare innanzi tutto anche al suo interno, specie nel campo della politica estera ed europea), ma archiviamo le chiacchiere vuote.

Alla luce di queste considerazioni il risulto toscano prefigura quasi un assetto “ideale” della futura coalizione: il presidente eletto con il 54% dei voti, a cui contribuiscono il 34,4% del PD, in posizione “pivotale”, il 7% di AVS e il 4, 3% del M5S a sinistra, e, sulla destra, l’8,9% della Lista “Giani, Casa riformista”, (che comprendeva IV, PiùEuropa, socialisti, ma che era soprattutto segnata dal nome del candidato presidente in bella vista nel simbolo). E’ un assetto equilibrato, potenzialmente credibile, che però ha bisogno di un Pd che si assuma pienamente l’onere di lavorare con spirito unitario, e senza arroganza: che è poi il modo migliore per esercitare una vera egemonia, rispettosa degli altri.

Resta un’ombra su questo voto: il livello record di astensionismo. Sulla questione si spendono molte lacrime di coccodrillo, ma un’analisi vera del fenomeno è da tempo svolta in sede scientifica, senza che ciò emerge “passi” poi nelle analisi correnti, piene troppo spesso di luoghi comuni.

Nicola Fratoianni, Elly Schlein, Giuseppe Conte e Angelo Bonelli (Foto di Vincenzo Nuzzolese / SOPA/SIPA)

 

Astensionismo: la personalizzazione della politica è una delle cause

Ci sono cause strutturali (alle politiche, le elezioni più sentite, ha votato solo il 69%): invecchiamento della popolazione, crescente mobilità residenziale e lavorativa; conta molto la percezione della rilevanza della posta in gioco: e qui, nonostante le grancasse di cui godono i “governatori” regionali, la verità è che gli elettori considerano le elezioni regionali elezioni di rango inferiore, di terz’ordine rispetto alle politiche e alle comunali). E ci sono anche cause più contingenti, in particolare conta molto l’incertezza sul risultato: nel 2020, in Toscana, votò il 62%, perché si era diffusa una certa preoccupazione per l’ondata espansiva della Lega; nel 2015, aveva votato il 48%, come quest’anno, perché non c’era il minimo dubbio sull’esito del voto; e poi conta la copertura mediatica nazionale: è stata veramente sciagurata la decisione di scaglionare nell’arco di tre mesi il voto di sei regioni! Va sottolineato che questo gioco delle aspettative sul risultato hanno avuto un duplice effetto sul voto toscano, sia nel 2015 che quest’anno: scoraggia gli elettori potenziali della destra (perché non credono alla possibilità di successo), ma incentiva anche il non-voto degli altri: non essendoci dubbi sull’esito del voto, la scelta di non votare per la propria parte viene sentita come poco “costosa”, e quindi anche i più marginali dubbi o qualche motivo di critica, verso questo o  quel partito, verso questo o quel canddiato, vengono amplificati e possono spingere all’astensione.

A tutto ciò si aggiungano altri elementi, di grande peso, a cui qui possiamo accennare: contrariamente alla vulgata che ci portiamo dietro da trent’anni la personalizzazione della politica non incentiva la partecipazione: se il voto non esprime più, innanzi tutto, la propria identità politica, ma si riduce alla scelta tra due persone, le motivazioni alla base del voto si restringono. Il sistema presidenzialistico in vigore nelle regioni italiane è una iattura. Se ne dovrà riparlare. E poi i partiti: cinquant’anni fa tre illustri scienziati politici americani, rispondendo alla domanda: “perchè la gente non va a votare”, dicevano che ciò accade per tre motivi: alcuni non possono votare (impedimenti oggettivi), altri non vogliono (per le più svariate ragioni), ma molti anche perché nessuno glielo ha chiesto. Ossia, non ci sono più partiti degni di questo nome, che sappiano organizzare il rapporto con gli elettori, anche quelli più marginali e periferici (sia in senso sociale, che culturale e territoriale), che li sappiano aiutare nelle loro scelte. Quando, trent’anni fa, in Toscana votata il 90%, non si può immaginare che fossero tutti cittadini informati, consapevoli e super-motivati: c’erano partiti di massa che curavano il rapporto con questi elettori, li aiutavano concretamente, ad esempio per accompagnali ai seggi, e che soprattutto organizzavano le campagne elettorali, come partito, per raggiungerli e convincerli. Oggi, la campagna elettorale è fatta sostanzialmente dai leader, in qualche occasione pubblica, e poi dai candidati a caccia di preferenze: ma questa caccia si svolge e sempre più in una sorta di “riserva”, in un territorio ristretto, quello delle relazioni personali o dei legami con i gruppi di potere. Come si può pensare, che in queste condizioni, la gente – quella “fuori dai giri” – possa andare a votare?

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