di Alfredo Morganti – 14 marzo 2017
Il “congresso inesistente” (Piero Ignazi)
Ieri ho scritto di quanto il Lingotto fosse stato solo il parterre di una curva da stadio, senza una discussione vera, ma solo orgoglio, senso di appartenenza e insulti (a cominciare da vigliacchi). Fosse stato appena la presentazione di un candidato alle primarie del PD, e poco più. Una kermesse, un evento mediatico e di marketing. Nulla a che vedere con la vita politica di un partito che voglia trasformare il Paese con le idee, la propensione al dibattito, la partecipazione consapevole dei cittadini, la militanza dei suoi iscritti. Mi è stato risposto che ero io a non aver visto, che al Lingotto invece si era parlato di politica, c’era stato un grande dibattito, una specie di fucina delle idee e delle proposte. Vorrei capire che traccia abbia lasciato questo dibattito, quali documenti abbia prodotto, se qualcuno li ha votati, come incideranno nella vita pubblica. Delle varie Leopolde non ricordo documenti, né atti, né raccolte di scritti, né testi. Deve essere un problema mio. Ma già parlare di ‘tavoli’, mi dà l’idea di un salotto o di un bar, più che di consessi veri e propri.
Oggi Piero Ignazi su ‘Repubblica’ conforta indirettamente questa mia interpretazione intorno ai caratteri della democrazia interna al PD. Al suo essere in qualche modo ‘plebiscitarismo’, e dunque espressione personale, solipsistica, divisiva dello scontro per la leadership. È in questo senso che è possibile interpretare il Lingotto come dispositivo di marketing dall’evidente curvatura plebiscitaria, dove il dibattito pubblico è inteso come mero orpello. Chiacchiera. Dice Ignazi che nel PD “il dibattito non ha più una sede di partito dove esprimersi”, tutto è ridotto a pratiche elettorali in vista delle primarie (il plebiscito finale, appunto). E perciò diventa tifo da ultras, ovazioni, senso di appartenenza, orgoglio, spirito di corpo. Tutti in fila per tre (direbbe Edoardo Bennato) dietro al Giovane Leader, il nostro Maradona, come dice Del Rio. L’uomo che ci fa vincere gli scudetti. Vincere?
Il discorso di Ignazi è articolato e andrebbe letto per intero. Ma il suo punto di partenza è demoralizzante: il PD non ha un vero congresso nazionale, dice, con quel che ne consegue in termini di identità politica e di dibattito pubblico (quello vero, non le chiacchiere a tavola del Lingotto). Ogni candidato fa gara a sé, per ritrovarsi al massimo in un faccia a faccia tv. Punto. Tutto è rimandato alle primarie, potenzialmente destinate anche a sovvertire il tragitto svolto nei congressi locali. Ma anche questo tragitto si riduce a ben poco. Al massimo a un ‘votificio’ delle piattaforme dei singoli candidati. Che cosa consegue da questa patologia democratica? Ne consegue l’assenza di una scelta collettiva, di momenti politici e culturali forti, di un’assise nazionale. Tal che le singole decisioni, dice Ignazi, seminano tempeste, perché nascono nella frammentazione, nella divisione, nell’atomismo politico, nell’uno contro uno. Si diventa per forza ultras, se si è educati allo scontro personalizzato, alla tenzone sostenuta per mero senso di appartenenza. Se la politica diventa una miriade di frammenti sparsi. Se l’unità non è più il timone della vita politica, ma la divisione, lo scontro, le mazzate mediatiche. Se chi vota alle primarie non sai chi sia. Se chi vota alle primarie non sa cosa sta facendo. Se gli iscritti sono estranei, e gli estranei comandano. E poi chiamalo partito, se ci riesci.