di Alfredo Morganti – 5 luglio 2014
Scrive Francesco Bei che le critiche all’Italicum che arrivano a Renzi dalla sinistra del PD quasi lo galvanizzano. E che adesso partirà la controffensiva contro i ‘frenatori’, che diventeranno così i ‘sabotatori’ non delle ‘riforme’ ma dell’Italia tout court. Al telefono, pare che il premier abbia stretto ancor più il ‘patto’ con Berlusconi (l’altro ‘patto’ è quello con la Merkel), assicurandosi il fronte sul lato di Forza Italia. Ora Renzi farà scattare il fronte interno, chiamando a raccolta il partito contro gli oppositori. La manovra è sempre la stessa, la maggioranza renziana del PD che chiede ai parlamentari sostanzialmente di chinare il capo. Una ‘mossa’ che alle prossime politiche non sarà più necessaria visto che, nella testa del premier, maggioranza interna e parlamentare coincideranno in modo martellante. D’altronde, il ‘patto’ con la Merkel (riforme in cambio di flessibilità) regge solo se regge il ‘patto’ con Berlusconi e se il PD risponde come un sol uomo al suo segretario-premier e ai ‘patti’ che stipula, senza più frenator-sabotatori a rompere le uova nel paniere.
Raccontata così dà non dà l’impressione di una manovra politica, piuttosto di una manovra di campo (‘campo’ d’altronde è un termine che sta divenendo molto renziano). Manovra di campo in senso bellico. Non c’è nulla della mediazione politica, né del vicendevole ascolto, tanto meno della trattativa in cui reciprocamente ci si legittima in vista di un obiettivo comune. No. No davvero. Il linguaggio, la fenomenologia, gli atteggiamenti, gli stili, le ‘pose’ sono quelle del generale, degli stati maggiori, degli ufficiali di complemento e dei soldatini che marciano nel fango sotto le granate. E poi ci sono i sabotatori, i disfattisti, quelli che non vogliono il bene dell’Italia. E poi, ancora, la vecchia guardia accusata di sabotaggio, la palude in cui si rischia di restare impantanati, i patti (meglio se col nemico), la rete diplomatica e le grandi alleanze, il fronte che si muove, si spacca, arretra o avanza. L’Aula come metafora della grande pianura dove gli eserciti si affrontano. La tenda dove i generali elaborano strategie. Le ripicche, le stilettate, i colpi bassi, la rottamazione, la gloria, la macchina del fango, il petto in avanti, i grandi discorsi alle truppe, la fortuna che arride agli audaci.
Questa è la grande novità renziana. Trasformare l’aspetto dialettico della politica in mera tenzone. Il dialogo politico in una rete di ‘patti’ e di accordi. Rendere l’anima della politica un’anima bellica. Pensare al bene comune come al frutto di una ‘vittoria’ bellico-mediatica. Chiamare a raccolta i fedelissimi dragoni contro gli infedeli, i congiuratori, i sobillatori, i disfattisti. Che la guerra fosse la prosecuzione della politica con altri mezzi, era noto da tempo. Ma non voleva dire che alla politica si dovesse sostituire la guerra! Al contrario. La celebre formula significa che la guerra è guerra, ma che è sempre la politica a dettare i tempi: PROSECUZIONE della politica! Churchill, insomma. Non che al sopraggiungere della guerra la politica (l’intelligenza diplomatica della politica, la sua razionalità discorsiva) debba cadere in un silenzio ostinato e assistere inerte allo scempio. Oggi pare di essere dinanzi a un tavolo dove il generale indica una mappa piena di bandierine, i fedelissimi ascoltano, e tutto il resto deve essere silenzio.
Si sa che fu il generale inverno a battere Napoleone, ossia i tempi lunghi, dilatati, le naturali fasi della politica, come un destino che batte alle porte. Si sa pure che la politica non è soltanto ‘manovra’ o ‘rapporti di forza’. E che due dei più grandi politici di questi ultimi quaranta anni (Moro e Berlinguer) erano tutto meno che coatti baldanzosi pronti a fare il grugno davanti al ‘sabotatore’ eventuale. Se tutto questo non fosse chiaro, allora è possibile che le cose si complichino e i tempi si allunghino un po’ troppo, e prima o poi cali il gelo. Diverso sarebbe se oltre all’arte dell’eloquio il premier conoscesse anche quella dell’ascolto e della temperanza. La migliore parola possibile non è quella che fuoriesce dalla bocca, ma quella che entra nell’orecchio. Soprattutto se si tratta di cambiare le basi costituzionali del Paese.