Il giorno in cui il diavolo ci mise l’unghia

per Gian Franco Ferraris

 di Mariano Fasciolo

 

Una persona, della quale per ora taccio il nome, mi ha confidato una storia alquanto singolare.

Naturalmente i particolari e le informazioni più detta-gliate riguardo al luogo ed ai personaggi coinvolti nella vicenda non posso svelarli per non mancare ad una tacita promessa. Sappiate comunque che tale fatto successe parecchi anni fa, ma ne restano ancora oggi le tracce, anzi le testimonianze viventi.

I CAPITOLO

Quando cominciò a sentire un prurito nella parte del corpo più delicata e nobile il signor Giobatta ebbe un moto d’imbarazzo e stizza.

Certo non era cosa piacevole per un uomo come lui, così timido, riservato, timoroso di Dio e degli uomini.

Il signor Giobatta viveva appartato senza affetti, da quando la vecchia madre l’aveva lasciato a combattere da solo una esistenza dura, ma tutto sommato abbastanza tranquilla.

Del padre non riusciva a ricordarsi, in pratica non era mai esistito.

Fisicamente era un uomo solido, un po’avanti negli anni, ma ancora ben piantato, con le braccia muscolose di chi ha conosciuto la fatica vera del contadino, il viso abbruttito dalle lunghe giornate al sole, al vento, mentre i capelli folti che un tempo erano stati neri gli disegnavano una cornice argentata attorno alla fronte.

Abitava fuori di un piccolo villaggio di campagna come non ne esistono più:poche case sparse, una bottega dove si trovava ogni cosa utile alla casa ed al lavoro nei campi, la chiesa in mezzo all’unica piazza, il fabbro e una taverna che era il luogo di ritrovo di tutti i paesani.

La sua casa isolata in cima alla collina era modesta, ma l’orto che la circondava e il campo di granoturco che si allungava fin quasi ai margini del paese gli davano di che vivere dignitosamente.

I suoi guai cominciarono la domenica successiva quando si recò in chiesa per la messa festiva.

Il solletico,malizioso, lo colse nel bel mezzo della fun-zione, quando tutti i fedeli si dovevano alzare in piedi per ringraziare il Signore.

Il povero Giobatta saltò come una cavalletta, con dei ri-flessi insospettabili in un tipo come lui, tanto da meritarsi decine di occhiate sorprese e un tantino seccate.

Il suo viso passò tra diverse sfumature di colore, dal bianco pallido al rosso acceso, per poi stabilizzarsi in un rosa carico, sintomo di buona salute.

Solo le orecchie, di un bel granata vivo, tradivano la sua malcelata emozione.

Poi ci fu la predica del parroco, don Lucio, un san- t’uomo che amava molto i suoi parrocchiani. Quel giorno gli sembrava che ci fosse meno attenzione del solito e, tra la folla, vedeva una testa che si muoveva ritmicamente come un pendolo, mentre le spalle si abbassavano e si alzavano scompostamente.

Il poverino era afflitto da quel male misterioso più che doloroso e, per non farsi notare troppo giacché non avrebbe mai usato una mano per grattarsi, piuttosto sarebbe morto, strofinava i lombi lateralmente sulla ruvida panca di legno.

Ciò gli dava enorme sollievo, ma non otteneva discrezione.

Per fortuna e con lo zampino del parroco la messa finì più presto del solito e Giobatta, come del resto era sua abitudine, poté sgattaiolare via prima di essere travolto dalla curiosità generale.

Giunto a casa un po’ allarmato si fece coraggio e, calatosi le braghe e i mutandoni, cominciò un’accurata quanto imbarazzata visita alle parti più intime.

Pur disturbato dalla naturale peluria e con l’aiuto di uno specchio riuscì a vedere più di quanto aveva mai osato, ma non notò niente di strano se si eccettua un puntino microscopico bruno-verdastro nel bel mezzo dello sfintere anale.

Lì per lì non diede molta importanza alla cosa, ripromet-tendosi di chiedere consiglio all’ostetrica del paese, la si-gnora Marta: non era sposata, però aveva messo al mondo mezzo paese e quindi le era dovuto un titolo di rispetto.

In quanto al medico neanche a parlarne, visto che la sua condotta distava parecchi chilometri” si preoccupava il signor Giobatta; però nei momenti di maggiore sconforto

gli capitava di passeggiare nervosamente per tutta la stanza, continuando a rimuginare sulla sua disgrazia.

-Ce l’ho in quel posto! Sì, ce l’ho proprio in quel posto… ooh, perdonami Signore! Ma ce l’ho proprio in quel posto!

Dio misericordioso, abbi pietà di questo povero peccatore!-

E continuava finché durava la tortura.

Ripensava anche a certi discorsi sentiti più per caso, parole rubate alle chiacchierate di sua madre con le amiche come la signora Marta, giù al paese, ché eccetto il parroco, mai nessuno si arrampicava fin lassù.

Queste chiacchiere vertevano su temi medici, tanto cari alle persone di una certa età: si spaziava dall’artrosi alla cistite, accennavano al presunto rimbambimento della signora Gina, la moglie del fabbro, per trovare infine reciproca solidarietà su di un male tanto comune quanto inopportuno come le emorroidi, con relativo scambio di infallibili consigli.

E lui ci congetturava sopra, mentre già si era scordato, volutamente, di accennare della cosa con la levatrice.

Quella pettegola! L’avrebbe rovinato! E poi, insomma, è pur sempre una donna e certe cose son troppo delicate…”

Così passarono i giorni e l’unica cura che Giobatta applicò fu dei frequenti bagni con acqua fredda: vicino a casa scorreva un torrentello, bastava sedersi su di una pietra liscia e levigata dalle onde per sentire subito refrigerio, la schiuma gorgogliava contro la schiena e poi giù, tra le natiche rosa e foruncolose!

Un giorno, un infausto giorno, dopo molti bagni e molto lavoro nell’orto il signor Giobatta si accorse che il suo molto personale disturbo era aumentato in maniera notevole, si guardò di nuovo con attenzione e vide, il tapino che, orrore tra gli orrori, tragedia delle tragedie, gli era spuntata una bella fogliolina verde in mezzo al deretano!

Lascio a voi immaginare il seguito, per quanto mi riguarda dovrei soprassedere sui giorni che seguirono, un vero calvario per il pover’uomo.

Accennerò soltanto che questi, da quel giorno, non volle più allontanarsi da casa, per paura che qualcuno lo vedesse, né pensò minimamente di andare dal dottore: un fatto simile, già di per sé grottesco e tragicomico, sarebbe stato terribile se fosse trapelato e lui non voleva essere la favola del paese.

In quanto alla sua chiamiamola “malattia”progrediva in modo rapidissimo e con prognosi tutt’altro che favorevole.

In poco tempo le foglie uscirono abbondantemente e rigogliosamente all’esterno, ed il misero, pur non avendo problemi fisici, potendo cioè espletare i propri bisogni fisiologici senza alcun dolore, credette per un attimo che fosse giusto recidere il male alla radice, sradicare quindi quell’assurdo cespuglio da dove si trovava.

Ma appena cercava di strapparsi di dosso anche una sola foglia fitte acutissime gli impedivano di proseguire.

Perciò decise, salomonicamente, che questo fenomeno com’era cominciato sarebbe finito.

In fondo ogni pianta nasce,cresce e muore!”semplificò, da buon contadino.

Questa volta , però si sbagliava di grosso: ormai l’ingranaggio era in moto, il processo non si poteva fermare per quanto mostruoso sarebbe stato e il nostro vedeva giorno dopo giorno che il suo corpo cambiava, la sua stessa struttura fisica stava subendo una trasformazione incontrollabile.

Dapprima aveva accettato tutto ciò come un castigo divino, poi poco alla volta il suo pensiero si allontanò da Dio per andare in una dimensione meno eterea, più sensitiva.

Un moto di terrore lo colse nel momento in cui vide il suo addome trasformarsi rapidamente in un bellissimo fusto di quercia bruno, nodoso, che si allungava a dismi- sura, con una corteccia rugosa che si sostituiva rapida-mente all’epidermide senza avvertire alcun fastidio fisico.

Sentì anche l’irresistibile impulso di spingere le braccia verso l’alto e là rimasero, trasformate però nei due rami principali, anch’essi sempre più lunghi, mentre le coste si contorcevano senza procurargli dolore, fino a diventare tanti rametti ombrosi.

Cominciava anche ad aver problemi di locomozione, i piedi si facevano sempre più pesanti e il suo istinto o chissà che altro gli impose di stabilirsi in un luogo nascosto vicino alla casa, per cui scelse il punto di confine tra l’orto e il campo di mais.

Ora Giobatta iniziava una nuova vita in panni vegetali, sforzandosi di dimenticare quelli umani, che gli avevano dato ben poche soddisfazioni.

Anche la testa sparì, letteralmente, forse inghiottita da quella mostruosità vegetale, ma lui riusciva ugualmente a pensare ed osservare.

II CAPITOLO

In paese il parroco era preoccupato della sorte di Giobatta: era ormai un’eternità che disertava messa,lui di solito così puntuale, aveva chiesto in giro ma nessuno l’aveva visto e non se ne meravigliavano. Per i suoi compaesani era sempre stato un tipo strano, solitario,egocentrico e quindi era logico che stesse rintanato in casa. Ma don Lucio, pur condividendo quei giudizi generali,si ricordava dell’ultima volta che lo vide in chiesa ed era rimasto incuriosito e sorpreso dal suo comportamento. Decise allora di andare a fargli visita,poteva anche darsi che non stesse bene ed avesse bisogno di aiuto.

Arrampicandosi su per la strada sassosa giunse ben presto alla meta,ma né i richiami continui, né le occhiate intorno alla casa servirono allo scopo.

Stava già per entrare,temendo il peggio,quando lo vide: fiero,maestoso,svettante al cielo troneggiava al limite del campo.

III CAPITOLO

Cominciava a capire l’importanza del vento e di tutti i profumi, e sentiva l’energia che scorreva in quello che un tempo era stato un corpo ormai vecchio e affaticato dagli anni.

Si innalzava alto, adesso, uno splendido albero giovane con forti radici ben piantate e ramificate nel terreno.

Ah, benissimo, finalmente niente più gente petulante e chiacchierona, intrigante e bigotta!

Adesso ci sono decine di uccellini che cullano il mio risveglio e ogni tanto qualche scoiattolo mi fa solletico alla pancia!”

Pensava soddisfatto e senza alcun rimpianto l’Albero Giobatta, quando vide avvicinarsi un viso familiare.

Che strano, non provava nulla dentro quella corazza naturale, vedendo un suo ex-simile, cioè non sentiva quella sensazione di sorpresa tipica degli esseri umani alla vista di un altro essere umano, specie se prete.

Don Lucio si avventurò con cautela sotto le fronde come se non credesse a ciò che vedeva :

Eppure qui non c’è mai stato nulla! Sto forse impazzendo? Non è la prima volta che vengo a trovare Giobatta e quest’albero non l’ho mai visto!”

Ruminava di continuo questi pensieri e intanto camminava molto circospetto intorno al tronco.

Incapace di trovare una risposta, stava avviandosi di nuovo verso la casa quando un particolare curioso attrasse la sua attenzione.

Inforcati gli occhiali con la montatura dorata, si accucciò ai piedi della pianta: quello che vide lo sconvolse a tal punto che per poco non svenne.

Conficcata sopra una radice stava in bella mostra un’unghia lucente, inconfondibilmente umana, l’unghia di un alluce!

Il poveretto guardò adesso l’albero con occhi ben diversi e in un lampo magnifico di intuizione comprese la terribile quanto inammissibile verità: l’unghia era il naturale prolungamento della radice, tragico scherzo di una natura particolarmente burlona.

La sorpresa fu tale che superò la logica preoccupazione per la sorte del malcapitato contadino, tanto che si dimenticò di fare un sopralluogo all’interno della casa.

Ripresosi dallo shock tremendo della rivelazione, il raziocinio del curato fece a pugni con la sua incrollabile fede e da uomo equilibrato qual’era decise di allontanarsi al più presto da quel luogo, non senza prima essersi segnato la fronte ed aver segnato, incrociando l’indice, la causa tangibile del suo sbigottimento.

IV CAPITOLO

Non provò pena Giobatta per il suo vecchio confessore, certo riusciva ad immaginare la profonda emozione che doveva aver provato, ma la cosa che più lo preoccupava era l’effetto che tale rivelazione avrebbe causato e rabbrividiva fin sulla punta delle foglie all’idea che una squadra di boscaioli sarebbe comparsa il giorno appresso o il giorno dopo ancora per porre fine a questo equivoco naturale con un bel taglio netto.

Passò un giorno, ma non successe nulla, l’Albero continuava la sua nuova esistenza e piano piano si familiarizzava sempre più con il suo corpo.

Al mattino sentiva un po’di freddo per via della rugiada, durante il giorno il sole lo riscaldava, mentre la notte finalmente riposava, come può riposare una pianta, immagazzinando ossigeno.

Il vero nutrimento però lo riceveva dalle radici che, estendendosi per molti metri sottoterra, aspiravano tutte le sostanze di cui abbisognava.

E non solo quelle: insieme ad esse riceveva, come fossero terminali di un moderno computer, molta sapienza, una enorme, infinita sapienza.

Lui che durante l’esistenza umana era rimasto piuttosto ignorante delle cose che lo circondavano, adesso pur non potendo muoversi aveva saputo le Grandi Verità!

Scoperte e avvenimenti inimmaginabili per qualunque scienziato scorrevano come in un caleidoscopio, bastava che intrecciasse una radice con un altro albero, oppure che il vento gli trasportasse gli umori, i pollini dell’altro emisfero e subito veniva codificato e catalogato.

Anche gli insetti, gli uccelli così numerosi e tutti gli animali del bosco riuscivano a comunicare con quella strana quercia più di quanto egli stesso avesse mai fatto con gli uomini.

Ora sapeva molte cose sulla Storia, quella vera, sapeva ad esempio che l’uomo è molto più giovane delle piante (centinaia di milioni di anni li separano), e quindi è molto meno saggio, che il suo egoismo lo porterà ad annientarsi, mentre il mondo vegetale sarà sempre la base della vita, la grande guida spirituale e materiale di tutto intero l’universo.

Sa, ora, che la religione, anzi la morale nel mondo vegetale è basata sul rispetto verso la Terra madre e il padre Sole, unici artefici della vita, di qualunque vita.

V CAPITOLO

La preoccupazione si leggeva chiaramente sul viso stanco e affaticato del prete di campagna.

Ma perché proprio a lui doveva succedere un fatto talmente singolare?

Perché il buon Dio stavolta era stato così crudele nell’affidargli una simile incombenza?

Appena tornato in chiesa e quindi sgattaiolato in sacrestia l’anziano sacerdote s’era trovato improvvisamente solo col suo inconfessabile segreto; avrebbe dovuto chiedere consiglio, ma a chi?

Certo non a qualcuno del paese…

Improvvisa un’altra geniale intuizione: chi è il più diretto responsabile di ciò che accade contro il volere degli uomini, escluso ovviamente Dio stesso?

Ma è semplice, il Papa, il rappresentante umano di Gesù sulla terra!

Ebbene io, povero prete di paese, a lui mi rivolgerò!” sentenziò con fare molto deciso.

Ed ora aspettava con crescente impazienza, aveva scritto una lettera dettagliata a Roma che terminava con le sue conclusioni molto poco credibili.

Si pentiva, tardivamente, di quel che aveva fatto, non avrebbero mai creduto ad un vecchio fuori dal mondo moderno come lui.

A conferma di ciò la cassetta delle lettere era desolatamente vuota ogni giorno che passava ed il parroco aveva ormai perso ogni speranza, quando una mattina, anzi non era ancora l’alba, una macchina molto nera e molto anonima si fermò davanti alla chiesa.

Don Lucio, mezzo insonnolito, corse ad aprire al suono della campana e grande fu la sorpresa quando, preceduto dall’autista, vide avanzare sul sagrato, alto e solenne, il Segretario Particolare del Pontefice.

Farfugliò qualcosa, poi baciò il rubino che gli balenò davanti agli occhi, infine si lasciò cadere sulla panca in fondo all’altare maggiore, contemporaneamente al suo illustre ospite che, nel frattempo, aveva già congedato il suo aiutante.

– Don Lucio, voi siete stato molto accorto e tempestivo nel comunicarci la vostra scoperta!- esordì il Monsignore.

E si vedeva bene, dal tono affettato e gentile ma deciso, che era una persona abituata, allevata nel potere e per il potere, quello terreno e probabilmente anche quello ultraterreno.

– Sua Santità è rimasto favorevolmente impressionato da voi – proseguì il Principe della Chiesa, mentre mulinava lentamente la mano destra affusolata e curatissima.

– Ne sono onoratissimo,Vostra Eminenza!- balbettò l’esterrefatto parroco.

– Naturalmente bisognerà trovare al più presto una soluzione al problema, prima che questo luogo diventi una nuova Lourdes, la Chiesa non ha bisogno di manifestazioni divine o diaboliche che siano per affermare il suo Credo, e voi capirete bene che i fedeli rimarrebbero molto confusi e disorientati se venissero a conoscenza di un fatto simile! – incalzò il Segretario, accarezzandosi con noncuranza l’aristocratico mento di quel volto senza età.

– Per cui è urgente fare una visita a questa…rarissima pianta.-

Così dicendo si alzò, anzi fluttuò nell’aria, come un grande e nero uccello delle vette guadagnò l’uscita, seguito a ruota dal parroco,resosi sempre più piccolo per non turbare l’armonia che si era venuta a creare nella silenziosa navata.

I due giunsero come ladri davanti al grande responsabile e immediatamente il Monsignore vide quella piccola nota stonata brillare ai suoi piedi.

-Vostra Grazia pensa che sia utile un esorcismo?- cercò di indovinare don Lucio.

– No, non occorre, sarà sufficiente un po’ di acqua santa.-

Prese da sotto l’ampia veste viola un piccolo oggetto dorato di preziosa fattura, dal manico tondo e liscio con un minuscolo smeraldo incastonato al fondo e sormontato da una palla tutta traforata, lo intinse in un cofanetto anch’esso prezioso e, recitando con estrema solennità le fatidiche parole :

– In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen.- benedisse generosamente la quercia ed in particolare quel ridicolo corpo estraneo.

Non successe nulla, come forse si aspettava don Lucio, nel senso che non fece fumo, né prese fuoco, ma accettò quella pioggia fuori programma come un omaggio gradito.

-Forse sarebbe giusto estirparla quell’unghia, Vostra Eminenza!- propose il parroco, ma il Segretario, roteando sulla veste come una ballerina di flamenco, lo redarguì scandalizzato- Cosa dite, don Lucio, avete perso il senno?

Quella cosa resta là così com’è. Però quand’ero a Roma ho meditato molto su questo fatto e, con l’assenso del Santo Padre, abbiamo deciso di pitturarla, come fanno le donne.

Le donne, voi lo sapete bene, ne sanno una più del diavolo!-

Una risata fresca, misurata, ma contagiosa irruppe prepotentemente dalle bocche dei due sacerdoti, un’ilarità provvidenziale che sgelò un’atmosfera carica di tensione e di sottintesi.

Magicamente l’alto prelato trasse dalla manica senza fondo un pennellino ed alcuni tubetti di colore, prevalentemente sul marrone.

Con sapiente maestria mescolò i vari colori fino ad indovinare la tonalità giusta e con grande finezza ed un tocco da pittore, quasi non facesse altro di solito, mimetizzò con due pennellate leggere ma indelebili quell’unghia fuori posto.

L’anziano prete non riusciva più a nascondere una sconfinata ammirazione per quell’uomo eccezionale, ma non ebbe il tempo di congratularsi che quell’illusionista servitore di Dio si congedò dicendo :

– Ora è tutto come prima, caro don Lucio. Presenterò i vostri ossequi al Santo Padre, state tranquillo e al Vaticano porterò un buon ricordo di voi.-

E si dileguò come era apparso, senza attendere ringraziamenti e baciamano.

VI CAPITOLO

Quando si fece giorno don Lucio si apprestò come tutte le mattine ad officiare messa al suo sparuto gruppo di fedeli, ma la sua mente era lontana, un vago senso di colpa lo tormentava ancora, al contrario del Monsignore, che sembrava particolarmente avvezzo a questo genere di cose e la sua innaturale freddezza l’aveva lasciato sgomento, come se fatti di questo genere accadessero più spesso di quanto lui potesse immaginare.

In paese, nel frattempo, si era sparsa misteriosamente la voce che Giobatta era partito abbandonando la casa.

Si diceva fosse andato da lontani parenti in Nuova Zelanda o in Tasmania, non si sapeva bene.

Ah, l’imprecisione delle notizie riportate!

Il parroco non escludeva ci fosse coinvolta la sotterranea mano del potente prelato e, interrogato dalla signora Marta, si affrettò a confermare, chiedendo mentalmente perdono a Dio della pietosa bugia.

D’altronde la vita di quell’uomo mite e solo era stata talmente avara di amicizie da non indurre nessuno a preoccuparsi della sua sorte, anzi la novità venne accettata con un certo sollievo, come una liberazione.

Assolto il suo dovere giornaliero si precipitò su per la collina, credendo e sperando in cuor suo che quel vegetale fosse partito su nel cielo come un razzo o risucchiato nell’intestino della terra, ma naturalmente era sempre là, con quei due grossi rami protesi verso l’infinito in una posa anomala vagamente agghiacciante per un semplice prodotto della terra.

Forse era solo la fantasia messa a dura prova che faceva vedere anche cose inesistenti, ma quando don Lucio abbassò lo sguardo verso il dito nodoso e dipinto sussultò come percorso da una violenta scossa elettrica, e non per quello che vide ma per ciò che sentì:

Avete fatto bene!” mormorò una voce, o meglio una somma di suoni che sembravano provenire dai recessi più profondi del terreno, ed in quel preciso istante i rami e le foglie cominciarono a muoversi in una danza ordinata come tante braccia sollevate al cielo che ritmano, oscillando,una melodia orientale.

Non alitava un filo di vento in quella tiepida giornata primaverile e l’esterrefatto prete pensò immediatamente di fuggire, però di nuovo percepì:

Non temere padre, figlio della terra e del sole, non accadrà più nulla di simile, volevo solo manifestarti la mia gratitudine. Tu sei un uomo buono e saggio, quindi fai in modo che non succeda nulla di male a me ed agli altri miei simili! Non permettere che l’uomo avveleni sua madre come sta facendo oggi e come farà molto di più domani, il mondo è di tutti gli esseri viventi e va rispettato.

Posso sopportare che due innamorati incidano il loro nome sul mio petto, anche se ciò mi procura notevoli sofferenze, perché è un atto d’amore, ma non posso comprendere, né tollerare che si inaridisca e muoia la linfa vitale che scorre sotto di noi solo per colpa dell’enorme stupidità umana.”

A quel punto il parroco urlò disperato :

– Ma chi sei veramente? Perché? O Dio, dammi la forza di sopportare tutto questo, anche se so che è un compito immane per questo povero prete di campagna!-

Tutto si placò e tacque, e l’uomo curvo sotto le spalle si avviò frastornato verso un destino che era già stato deciso.

Il giorno dopo e il giorno dopo ancora e così per chissà quanto tempo si sarebbe recato all’appuntamento sulla collina: il desiderio di sapere era più forte di qualunque paura, come fosse schiavo di una droga alla quale non sapeva, non poteva e non voleva rinunciare.

E il peccato di superbia che compiva ogni volta che saliva quella strada gli appariva nulla in confronto al beneficio che avrebbe ricevuto.

I suoi compaesani cominciarono a guardarlo con sospetto, anche se in fondo sembrava loro naturale che un religioso volesse estraniarsi così spesso per andare a meditare in quel luogo solitario.

Durante le prediche, più brevi e profonde di significati, quando nominava l’Essere Supremo il suo sguardo correva inevitabilmente oltre la vetrata, verso la collina, e la gente lo seguiva ipnotizzata e sconcertata.

Suscitò molta perplessità la sua decisione di cintare quell’albero vicino alla casa di Giobatta, ma lui si giustificò dicendo che quel terreno abbandonato brulicava di termiti ed una così magnifica pianta non meritava simili visitatori.

Finché una sera, fatale, non tornò più dal suo pellegrinaggio ed in paese erano preoccupati.

Forse si sarà addormentato”, pensavano e poi qualcuno disse :

Ma lassù fa freddo…e se si fosse sentito male? Bisogna andare a vedere!-

Ben presto, chi con torce elettriche altri con fiaccole di sterpaglie, si incamminarono in processione su per la strada buia.

Don Lucio era là, teneramente abbracciato alla pianta come fosse una madre, una sorella, un’amante e cantilenava, con lo sguardo fisso ad una radice :

-Perché taci? Ti prego, parla! Dimmi qualcosa, ti prego!- e piangeva come un bambino.

Tutti i presenti si guardarono negli occhi, pensando lo stesso pensiero.

VII CAPITOLO

A questo punto la storia sarebbe finita, ed ognuno è libero di crederci oppure no, però se passate dal paese di P. e vi fermate a parlare con un vecchissimo parroco, col viso violentato da migliaia di rughe, in quel viso vedrete che aleggia eterno un sorriso di beatitudine.

C’è chi dice che è un po’ sclerotico, tanto che un tempo gentilmente rifiutò il trasferimento a Roma per rimanere qui a contemplare la casa abbandonata e la vecchia quercia.

In questo momento egli è accanto a me, umile cronista, e sta tendendo l’orecchio al rumore delle foglie lontane.

E’ un linguaggio segreto, ma forse se si potesse tradurre suonerebbe in questo modo :

– L’uomo è un grosso presuntuoso! Ma non sa che presto verrà a nutrire le mie radici!-

L’anziano prete ha gli occhi che brillano, credo di indovinare ciò che sente :

E tu, cosa aspetti a raggiungermi? Possiedo la Verità Assoluta!

Vieni, lascia in pace il tuo dio, vecchio pazzo! Ti lacererò le misere carni, ti succhierò le ossa fino al midollo e poi le lascerò ai cani della terra!

Vieni, povero amico mio, lassù o laggiù non ha importanza, insieme misureremo quanto è lungo l’universo.-

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