di Alfredo Morganti su facebook 24 giugno 2014
Oggi Franco Venturini consegna all’editoriale sul Corriere un grido di allarme. “Il mondo ha il dito sul grilletto” scrive. E prima di ciò elenca una serie di crisi regionali, che tanto regionali non sono visto che Venturini accenna alla ‘grande guerra interislamica’: il caos libico, la Siria, l’Iraq, l’Isis come “simbolo rilevatore dei nuovi tempi”; e poi l’Asia, con la Cina che investe sulla marina per presidiare il Mar Cinese meridionale, il Giappone che si appresta a reagire, gli USA che lo fanno già; e infine la Russia (che investirà sulla marina 700 miliardi di dollari e rende più chiaro il ‘ratto’ della Crimea) e l’Ucraina che è già una polveriera e punta al riarmo. “Il mondo ha il dito sul grilletto” appunto.
E noi che si fa? Che dice di questo il ‘metodo Renzi’? Diciamo che la politica internazionale è quasi sparita dai nostri orizzonti. Che la fine della politica ha trascinato con sé anche (e soprattutto) la fine della visione globale, l’idea che gli Stati non sono soltanto un ‘omnibus’ di burocrati e fannulloni, ma giocano sul palcoscenico geopolitico e allargano l’interesse nazionale verso eventi e conflitti che esplodono nel mondo e che ci mettono in gioco anche se non lo volessimo. La riduzione di spessore della manovra politica al confronto tra pochi storytelling più o meno azzeccati e all’assalto spregiudicato verso taluni posti-chiave (o presunti tali), accorcia la prospettiva politica, rende tutti più miopi, fa immaginare la cucina di casa come una specie di grande parco americano. Un gioco di rifrazioni che ci acceca.
L’impressione è che la piccola Europa sia circondata da un magma incandescente. E che poco o nulla sappia o possa fare per arginare l’onda, o per intervenire come un attore protagonista nello scenario in corso. Gli ambiti regionali sembrano muoversi in totale autonomia, in assenza di un’autorità o soggetto internazionale che possa in qualche modo governarli. Il mondo sembra davvero solo un grande ‘contenitore’ di odi, interessi inconciliabili e ambizioni smisurate. E in effetti, la metafora del ‘contenitore’ sembra dilagare, nella politica interna come in quella estera. Uno spazio vuoto, asettico, senza soggettività, senza protagonisti di alto profilo, un ‘luogo’ geometrico (ricordate Martinazzoli?) incapace di produrre valori o mediazione di interessi, un universo senza grandi organizzazioni, solide, strutturate, più grandi almeno delle misere ambizioni di qualcuno. Un ambito neutralizzato dentro il quale si riversa e si agita un po’ di tutto, come una schiera di mosche impazzite.
Chi ha il respiro più corto oggi vince, o crede di aver vinto. Respiro corto, cortissimo. Uno spot. Carriere veloci, scorciatoie, fretta eletta a valore, cavalcate nel deserto di questo o quell’avventuriero alla ricerca di un califfato, nel tentativo di ripristinare antichi confini coloniali, oppure vecchi potentati a onta del nuovo che si vorrebbe testimoniare. Manca un orizzonte tale da fornire un senso futuro ai moltissimi terremoti attuali. Siamo davvero naufraghi, almeno in ciò. Vince chi sa lucrare su questo bisogno di spazi vuoti, nei quali scaricare interessi ristretti e fiati cortissimi, rivincite personali e furbizie, enormi ambizioni e pochezza di risultati. Ma se c’è ancora una sinistra, allora batta questo colpo: torni a indicare prospettive, torni a precisare e individuare ideali e bisogni per cui valga la pena impegnarsi, lasci andare il piccolissimo cabotaggio e il ‘tengo famiglia’ e riconceda speranza a tutti noi. Non quella di tirare a campare, ma quella di tornare a pensare al nostro destino (personale, sociale, culturale, persino emozionale) con occhi più grandi e magnamini degli attuali.