Il populismo e il grande partito di massa

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 22 ottobre 2018

E che ci vuole? Invece di perdere tempo nella faticosa costruzione di un partito grande, di massa, nell’articolazione di un pensiero, nella messa a punto di una rappresentanza, di istituzioni democratiche all’altezza dei tempi, di mediazioni politiche e culturali che rendano più comprensibile e ‘dicibile’ il mondo grande e terribile che ci circonda, invece di svolgere questo lavoro, si prende la scorciatoia cool e si ammicca al populismo (o si fa tout court i populisti, a sinistra per primi)! E così, per vincere le elezioni serve un ‘leader’, e tanto più per far rinascere la sinistra – la priorità diventa il ‘Popolo’, che cessa di essere “costituente” e sovrano nei limiti della Costituzione, per divenire una categoria mediatica tra le altre, prepotente, semplificatrice, che alliscia tutte le differenze, tutti gli ‘scarti’ (come direbbe François Jullien), esibisce solo interessi, ed è più manipolabile delle vere, ruvide e ineludibili singolarità sociali (classi, ceti o individui che siano). E magari al partito si aderisce da casa, con un click. Facile no? Al mondo piatto si risponde con una proposta ancor più piatta, livellata direttamente sul ground zero del ‘Popolo’, al quale il Capo (sia esso una persona o un intero gruppo dirigente) può rivolgersi di getto, senza mediazioni estranee, semplicemente lusingando e promettendo la salvezza dello status di consumatori e di individui di mercato, nonché la difesa dall’altro che incombe ai confini. Volete voi un nuovo bonus? Sì!

Spiace dirlo ma la politica italiana oggi è tutta qui, in termini quasi trasversali. C’è la complessità politica e sociale da una parte, e c’è invece una risposta, dall’altra, che scivola sull’onda mediatica, social, sulla banale semplificazione, vittima di un attualissimo linguaggio standard. E c’è un soggetto (il ‘Popolo’) che rimane l’unica mediazione in atto, la più scarna, quella minima, l’unica categoria per cui accedere alla conoscenza e alla pratica del mondo esterno. Il populismo è un vistoso arretramento sul piano culturale, un segno della crisi politica, una scorciatoia che facilita la vita quando si tratta di dare l’assalto al cielo (perché dice ‘sì’ alla rabbia, alla protesta, all’indignazione, alle pulsioni), ma la complica terribilmente quando si hanno in mano le leve del potere, quando le mediazioni diventano necessarie, e le responsabilità sono assolutamente ineludibili. Il populismo va bene per chi punta al limbo, per chi vuole costruire una forza dell’8-10%, per gestire rappresentanza parlamentare, per corroborare un ceto politico, per stare sulla soglia del governo senza il rischio di accedervi davvero. Il populismo va bene per chi, entrato a Palazzo, intende vivacchiarvi oppure continuare a fare l’opposizione. Va bene per chi ha altre mire, ossia svuotare la democrazia, creare i presupposti di un regime, disintermediare tutto a partire dal dibattito pubblico.

Il populismo non va bene invece se si intende davvero cambiare, se si vogliono trasformare le articolazioni della società e dello Stato in direzione dell’eguaglianza, dell’equità, della protezione dei più disagiati, di una maggiore libertà, con più diritti e più partecipazione organizzata. Oggi essere populisti è cool, è attualità, è parlare un linguaggio molto diffuso, fatto di leaderismo, critica feroce delle istituzioni e dei partiti, competizione, individualismo di mercato, predominio di un Capo che parla al suo Popolo senza ostacoli in mezzo. Il problema vero oggi è la qualità della politica, che non è tale da tentare una risposta più avanzata, più elevata che includa più rappresentanza, più Parlamento, partiti di massa, partecipazione organizzata, un ricco telaio sociale e culturale su cui tessere pensiero e prassi. Oggi la classe politica dei non-partiti è una non-classe politica. Oggi la supremazia appartiene a un pensiero che non è quello della sinistra. E sembra di vivere in un deserto, dove si tenta di gridare più forte e dove ci si impegna a rispettare le regole dell’egemonia corrente in modo ancor più zelante dei propri avversari. Un realismo stucchevole, snobistico, radicalistico che ti fa dire che la dialettica è più facile con gli avversari (o presunti tali) che non con i possibili alleati. Ecco perché, se proprio volete fare un partito nuovo a sinistra, questo deve essere grande, di massa, popolare, di governo, non identitario e non deve essere a misura di “militanti severi” come li chiama Guccini nell’Avvelenata. Perché non c’è alternativa al partito grande, di massa, al Parlamento, alla rappresentanza, alle mediazioni, al dibattito pubblico, alla partecipazione organizzata. Non sono i click la soluzione del problema, né il crudo economicismo dei professori. Per quanto vi almanacchiate.

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