IN PROSSIMITÀ DEL GIORNO DELLA MEMORIA, RICORDIAMO ANCHE LORO
SAND CREEK E GLI ALTRI MASSACRI
“Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek” cantava Fabrizio De André in Fiume Sand Creek, nel 1981. La canzone ricorda uno dei più tragici massacri fra i numerosi che hanno condotto al genocidio dei popoli nativi americani. Il massacro di Sand Creek è stato compiuto su Cheyenne e Arapaho da parte dell’esercito statunitense durante le guerre indiane americane, avvenuto il 29 novembre 1864, quando una forza di 675 uomini del Terzo Cavalleria del Colorado sotto il comando del colonnello dei volontari statunitensi John Chivington attaccò e distrusse un villaggio di Cheyenne e Arapaho nel territorio sudorientale del Colorado uccidendo e mutilando un numero stimato in circa 150 persone inermi.
In base ai termini del Trattato di Fort Laramie del 1851 tra gli Stati Uniti e sette nazioni indiane, tra cui i Cheyenne e gli Arapaho, gli Stati Uniti avevano riconosciuto che i Cheyenne e gli Arapaho possedevano un vasto territorio che comprendeva le terre tra gli attuali Wyoming sud-orientale, il Nebraska sud-occidentale, la maggior parte del Colorado orientale e le porzioni più occidentali del Kansas. Nel novembre 1858, tuttavia, la scoperta dell’oro nelle Montagne Rocciose in Colorado, fra le terre assegnate ai nativi, provocò lo sconfinamento dei cercatori d’oro e portò le autorità federali a ridefinire l’estensione delle terre dei nativi. La nuova riserva era grande meno di un tredicesimo del territorio riconosciuto nel trattato del 1851. Alcuni dei nativi accettarono, altri invece non riconobbero il nuovo trattato il che li portò a frequenti attriti con i cercatori d’oro e contro i coloni. Mentre il conflitto tra gli indiani e i coloni e i soldati del Colorado continuava, le tribù facevano la guerra durante i mesi primaverili ed estivi fino a quando la sussistenza diventava difficile da ottenere. A quel punto, le tribù cercavano di fare la pace durante i mesi invernali, quando si rifornivano di provviste, armi e munizioni, fino a quando non sarebbe tornato il bel tempo e la guerra sarebbe potuta ricominciare. Nel luglio del 1864, il governatore del Colorado John Evans inviò una circolare agli indiani delle pianure, invitando quelli amichevoli a recarsi in un luogo sicuro a Fort Lyon, nelle pianure orientali, dove la loro gente avrebbe ricevuto provviste e protezione dalle truppe degli Stati Uniti. Il capo Black Kettle, che in passato aveva ricevuto garanzie durante un incontro con Abramo Lincoln, accettò; era a capo di circa 163 Cheyenne ai si erano aggiunti alcuni Arapaho sotto il capo Niwot. Dopo qualche tempo, ai nativi fu chiesto di trasferirsi a Big Sandy Creek. Nel villaggio vi erano solo circa 75 uomini, più tutte le donne e i bambini. Gli uomini rimasti erano per lo più troppo vecchi o troppo giovani per cacciare. Black Kettle aveva esposto una bandiera statunitense, con una bandiera bianca legata sotto di essa, sopra la sua capanna, come gli aveva consigliato il comandante del vicino Fort Lyon, per dimostrare la sua amicizia e prevenire qualsiasi attacco da parte dei soldati del Colorado. Tuttavia, a capo delle truppe vi era il colonnello John Milton Chivington, un pastore metodista e massone che aveva come colonnello dei Volontari degli Stati Uniti durante la Campagna del Nuovo Messico della Guerra Civile Americana. Chivington prese il comando di 250 uomini del 1° Cavalleggeri del Colorado e forse di una dozzina del 1° Reggimento Fanteria Volontaria del Nuovo Messico, quindi partì alla volta dell’accampamento di Black Kettle dove diede l’ordine di attaccare. Due ufficiali, il capitano Silas Soule e il tenente Joseph Cramer, si rifiutarono di obbedire e dissero ai loro uomini di non sparare. Tuttavia, il resto degli uomini di Chivington attaccò immediatamente il villaggio, ignorando la bandiera statunitense e la bandiera bianca issate in segno di pace. Inizialmente, il massacro di Sand Creek fu descritto come una vittoria contro un nemico coraggioso e numeroso, ma presto testimoni e sopravvissuti cominciarono a raccontare la verità. Furono condotte diverse indagini; il capitano Silas Soule testimoniò contro Chivington e fu assassinato poco dopo per vendetta. L’insieme delle testimonianze fu raccolto nell’Official Records of the War of the Rebellion: vi si legge come i soldati spararono anche a bambini piccolissimi, estrassero feti da donne incinte, scalparono e mutilarono i cadaveri esponendo poi le parti intime in pubblico al loro rientro. Tuttavia, nonostante le commissioni di indagine avessero condannato le azioni di Chivington, non furono mosse accuse formali contro coloro che avevano commesso il massacro. L’ex colonnello era fuori dalla portata della giustizia militare perché aveva già rassegnato le dimissioni e cosa più simile a una punizione che subì fu la fine effettiva delle sue aspirazioni politiche. I nativi, da parte loro, intensificarono gli attacchi contro i bianchi e le loro proprietà. Dopo che i dettagli del massacro divennero noti, il governo federale degli Stati Uniti inviò una commissione di esperti, e nel 1865 fu firmato il Trattato del Little Arkansas con il quale si prometteva ai nativi il libero accesso alle terre a sud del fiume Arkansas e prometteva risarcimenti in terra e in denaro ai discendenti superstiti delle vittime di Sand Creek. Tuttavia, il trattato fu abrogato da Washington meno di due anni dopo, tutte le disposizioni principali furono ignorate e il trattato di Medicine Lodge ridusse le terre della riserva del 90%, situate in siti molto meno desiderabili in Oklahoma. Le azioni governative successive ridussero ulteriormente le dimensioni delle riserve.
Sand Creek fu soltanto uno dei tragici massacri perpetrati contro i nativi. Per anni la memoria dell’espansione a ovest è stata celebrata come un’epopea e nel Novecento il cinema hollywoodiano ha ribadito l’immagine degli indiani crudeli e infidi e dei valorosi americani, fino a quando i movimenti di protesta che hanno attraversato gli Stati Uniti in concomitanza con le lotte per i diritti civili degli afroamericani e contro la guerra in Vietnam non hanno costruito una coscienza alternativa riguardo alla condizione dei nativi. Bury My Heart at Wounded Knee: An Indian History of the American West è un libro del 1970 della scrittrice americana Dee Brown che tratta la storia dei nativi americani nell’Ovest americano alla fine del XIX secolo. Il libro esprime i dettagli della storia dell’espansionismo americano da un punto di vista critico nei confronti degli effetti sui nativi americani. Brown descrive lo spostamento forzato dei nativi americani e gli anni di guerra condotti dal governo federale degli Stati Uniti contro di loro, costellate da massacri come quello al quale si riferisce il titolo, Wounded Knee, un villaggio Lakota nel quale i nativi avevano accettato di deporre le armi, e in parte lo avevano già fatto, quando i soldati cominciarono comunque a sparare, uccidendone circa 300.
Si è trattato di un genocidio? La risposta non può che essere positiva. Se in altri contesti si discute se massacri di massa o pulizia etnica corrispondano alla definizione di genocidio, non c’è dubbio che nel caso dei nativi americani si trattò esattamente di questo, del tentativo (in larga parte riuscito) di far estinguere gli indigeni combinando il diffondersi di malattie (spesso voluto, come quando si consegnavano loro coperte contaminate dal vaiolo), il provocare carestie uccidendo o distruggendo tutte le riserve di cibo alle quali potevano attingere, costringendoli a trasferimenti forzosi verso terre sempre più piccole e sempre più povere (il cosiddetto “sentiero delle lacrime”) durante i quali tanti persero la vita, i massacri veri e proprio come quelli citati. Senza contare il genocidio culturale che includeva la separazione dei figli dai genitori con la volontà di interrompere la trasmissione della cultura indigena.
Ma da queste infamie noi occidentali ci siamo rapidamente autoassolti. FC
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Autore originale del testo: Franco Cardini
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