Jan Neruda (1834-91) Pablo Neruda (1904-73): cercare sè stessi nelle vite degli altri

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Francesco M. Bonicelli Verrina

di Francesco M. Bonicelli Verrina

Disse Borges in una intervista a Fausta Leoni per la televisione italiana: “Io spesso sono stufo di essere Jorge Luis Borges, la lettura è una forma di vita poderosa che permette di ampliare la propria vita e vivere altre vite”.

 

Scrisse Pablo Neruda (in realtà pseudonimo di Neftalì Ricardo Reyes Basoalto), come prologo di Veinte poemas de amor y una cancion desperada: “Yo tengo un concepto dramatico de la vida, y romantico; no me corresponde lo que no llega profundamente a mi sensibilidad. Como ciudadano soy hombre tranquilo, enemigo de leyes, gobiernos e insitituciones establecidas. Tengo repulsion por el burgues, y me gusta la vida de la gente intranquila e insatisfecha, sean estos artistas o criminales”.

 

Potrebbero essere parole scritte da Jan Neruda (1834-1891), anche lui, era stato giovane rivoluzionario nel 1848, lo scrittore praghese in omaggio del quale, non a caso, il cileno cambiò il suo nome.

Se il Neruda ceco è soprattutto ricordato come grande autore di prosa, il Neruda cileno è indiscutibilmente uno dei maggiori poeti del Novecento. Il primo ci lasciò anche alcune notevoli poesie ed il secondo una notevolissima opera di prosa: Confesso che ho vissuto, scritto fino a poco prima di morire (morì settantunenne, pochi giorni dopo il golpe del generale Pinochet, 1973), nella quale si percepisce una rara abilità di cogliere la nobiltà nella miseria della piccolissima borghesia (di cui sono originari entrambi gli autori) e di regalare ai lettori ritratti di individui unici e mitici, spesso reietti, assurdi, marginali, anormali, colti nelle moltitudini metropolitane di Santiago e del mondo, con un occhio sempre lirico e solidale, attento ai dettagli degli “invisibili”, così come l’occhio di Jan Neruda, appartato nel quartiere materno di Mala Strana di “viuzze selciate, casette sghembe” (narrato nei Racconti di Mala Strana), ai margini della frenetica Praga trafficante, “la poetica e quieta Mala Strana, tra gente amabile e silenziosa”, dove Jan, studente ampiamente fuoricorso, torna per dedicarsi completamente agli studi di legge, facendo in realtà tutt’altro, paralizzato in una rete di rapporti con tutto il bizzarro vicinato, tutt’altro che “silenzioso”.

 

Entrambi gli scrittori, che sono stati anche giornalisti impegnati che hanno vissuto intensamente le loro rispettive epoche storiche, si trovano alle prese con gli scherzi della memoria, che tutto trasforma e dilata o polverizza il tempo e lo spazio, interpreta e reinterpreta, gioca, sposta fatti e personaggi, anche senza che ce ne accorgiamo. Bisogna cercare di imporre un controllo alla memoria: “E’ tempo che io diventi più preciso nel descrivere la scena e le persone. Per quanto riguarda i personaggi, sarà il caso stesso a metterli in primo piano” Scrive Jan Neruda. Tuttavia “Queste memorie, o ricordi, sono discontinue e a tratti si smarriscono perché così è appunto la vita. Il poeta ci consegna una galleria di fantasmi scossi dal fuoco e dall’ombra della sua epoca. Forse non ho vissuto in me stesso; forse ho vissuto la vita degli altri. Da quanto ho lasciato scritto in queste pagine sempre si staccheranno le foglie gialle che vanno a morire. La mia vita è una vita fatta di tutte le vite”. Così apre Confesso che ho vissuto, Pablo Neruda.

 

La vita è una confluenza di vite, l’anima una confederazione di anime, l’uomo uno, nessuno e centomila, ma solo pochi lo percepiscono così nitidamente, pochi sono così attenti alle vite degli altri, e le raccolgono come il vento raccoglie le foglie gialle dell’autunno e vivono inseguendo le altrui vite, attraverso le vite degli altri, osservate dalla propria navicella appartata, in compagnia solo del proprio pensiero, come è evidente dall’incipit di Mala Strana di Jan Neruda: “Sentiamo di stare in una stanza completamente chiusa. Intorno a noi un buio profondo. (…) ci sembra per un attimo di avere qualcosa di chiaro davanti agli occhi, questo è soltanto il bagliore rosso del nostro pensiero. I sensi tesi percepiscono anche i minimi segni di vita. (…) Intanto sentiamo il respiro di persone che dormono. Ce ne deve essere più d’una. Il respirare s’intreccia in modo svariato, non s’accorda mai completamente. (…) Anche l’orologio a un tratto emette un profondo respiro e sobbalza”. Scrive dall’altra parte Pablo: “Le case nascondono i desideri dietro le finestre luminose”.

 

Tutto l’Io del poeta è teso a percepire ogni minimo segno di vita di persone, ed oggetti persino, come accordi musicali, disarmonici, scordati, intorno a lui. Riconosce i respiri, i passi, le voci, dell’umanità in cui è immerso, ma come in una bolla. Come afferma Pablo, in merito alla propria giovinezza timida: “La timidezza è una condizione strana dell’anima, una categoria, una dimensione che si apre verso la solitudine”.

 

La solitudine dei due Neruda li rende in realtà compagni dell’umanità intera. “La mia testa era piena di libri, di sogni e di poesie che mi ronzavano come api”. E nel treno che porta da Parral a Santiago, Pablo si immerge fra quei “contadini dal poncho bagnato, con cesti di galline, taciturni mapuches, tante vite si mescolavano nel vagone di terza”, è il treno la sua Mala Strana, la sua via Ostruhova.

 

Per Pablo “le città sembravano piene di ragnatele e di silenzio” ma scopre Santiago “grandiosa e sconosciuta (…) sapeva di gas e di caffè. Migliaia di case erano occupate da gente sconosciuta e da cimici”, dalla sua pensione, esce, secondo le sue parole, come un mollusco da un guscio, per perdersi nel mare del mondo, dove si soccombe “alle diete rigorose della miseria”. La città diventa addirittura un animale e non solo proiezione e metafora della condizione umana: “a volte si scuote come una balena ferita. Barcolla nell’aria, agonizza, muore, resuscita”. È brulichìo: “Quanti secoli di passi, di scendere e salire con il libro, con i pomodori, con il pesce, con le bottiglie, con il pane”.

 

I due diventano osservatori e antropologi, “Le facce dei preti e degli scapoli, si camuffino quanto vogliono, si riconoscono all’istante” scrive Jan, come anche Pablo (che incontrerà persino il terribile Stalin) impara a riconoscere i tipi umani al primo sguardo e soprattutto riconosce i poeti come lui, che si aggirano affilati, nei loro mantelli scuri, inconfondibili (anche Jan si autodescrive similmente: “viso asciutto e scuro, ricci neri, baffi delicati, fez e pipa di gesso dalla lunga cannuccia”), per le strade di Santiago, così come sono riconoscibili “il capo dagli occhi torbidi” “i ballerini e i teppisti che scatenavano risse contro l’esistenza dei poeti”. Per entrambi il libro è qualcosa di pubblica utilità, fazzoletto per asciugare le lacrime e il sudore, spada per combattere le lotte contro le ingiustizie e i soprusi. Scrive ancora Jan: “Che aria! Si dice che la terra di Prometeo odorasse di carne umana, questa gente qui odora di terra, ma certo non fertile. Che gente incredibile! I pensieri li considerano solo monopolio di stato, esattamente come il sale e il tabacco (…) la mia misera specie di praticante”.

L’uso dei paesaggi e la natura come metafore dell’umano è cara ad entrambi, “Tu sei come un paesaggio di montagna” “I tuoi capelli sono come uno scuro bosco favoloso” “tu sei un mondo completo”, ricorrono in Mala Strana, così come scorrono dalla penna di Pablo versi come: “Come i pini, com’essi sei alta e taciturna” “accogliente come una vecchia strada” “Corpo di donna, bianche colline” “frutto di neve bruciante avvolto in una corteccia di lutto”.

 

Intorno alle birrerie ed alle taverne, dove si incontrano i tipi umani più disparati e i poeti, anche gli alberi e i tetti delle case e i colori, la luna, le stelle, l’aria sembrano godere di vita propria, malgrado la città; tutto è magico e speciale: “gli alberi rabbrividivano”. Pablo scrive tutto il giorno e guarda dalla finestra: “Alla sera, quando il sole tramontava, davanti al balcone si svolgeva uno spettacolo quotidiano, che io non perdevo per nulla al mondo. Era il tramonto del sole con grandioso accumularsi di colori, con zone di luce, ventagli immensi di arancione e di scarlatto” “Il sangue di un tramonto sopra i colli, sangue sopra le strade e le piazze” e Jan, invece di studiare, scrive, ascolta, scruta le vite degli altri e alla sera parla ai tetti delle case: “Le stelle tremolavano appena, la luna splendeva gioiosamente, l’aria era piena di luce argentea. Sembrava che la luna illuminasse i tetti della via Ostruhova meglio e più allegramente degli altri, anzi, in particolare due di loro, quelli silenziosi delle case contigue. Che tetti singolari! È un gioco saltare da uno all’altro e sono tutti pieni di recessi, di gronde, di passaggi”.

 

Proprio in quelle birrerie i due giovani Neruda incontrarono i loro rispettivi mentori: “Fra le persone che mi cercavano c’erano due snob del tempo: Pilo Yanez e sua moglie Mina. Incarnavano il perfetto esempio del dolce far niente, più lontano di un sogno, in cui mi sarebbe piaciuto vivere. Luci soffuse, comodi divani, pareti foderate di libri il cui dorso evocava una primavera inaccessibile. Gli Yanez mi invitarono spesso, gentili e discreti, senza far caso ai miei diversi stadi di mutismo e d’isolamento. Ciò che più di ogni altra cosa richiamò la mia attenzione fu il pigiama del mio amico. Era un pigiama di un panno spesso, simile al panno di un biliardo, ma di un azzurro ultramarino. In quel tempo non concepivo altro colore di pigiama che non fossero le strisce come quelle delle uniformi da carcerati. Quello di Pilo Yanez era veramente fuori dall’ordinario. Il suo panno pesante e il suo azzurro splendente suscitavano l’invidia di un poeta povero che viveva nei sobborghi di Santiago (…)

 

Alberto Rojas Jimenez, che sarebbe diventato uno dei più cari compagni della mia generazione, portava un cappello a larghe tese e lunghe basette da aristocratico. Elegante e distinto, malgrado la miseria in cui sembrava danzare come un uccello dorato. Libri e ragazze, bottiglie e barche, itinerari e arcipelaghi: conosceva e utilizzava tutto fin nei suoi più piccoli gesti. Si muoveva nel mondo letterario con un’aria da mascalzone impenitente, da dissipatore del suo talento e del suo fascino. Le sue cravatte erano sempre splendidi esemplari di opulenza, fra la miseria generale. Se ne andava come era arrivato lasciando versi, disegni, cravatte, amore e amicizia dovunque fosse stato. Era come un principe delle favole, contraddistinto da una generosità inverosimile e quindi regalava tutto, il cappello, la camicia, la giacca e persino le scarpe. Quando non gli rimaneva nulla di materiale, scriveva su un foglio una frase, un verso o qualsiasi graziosa trovata, e con un gesto magnanimo te l’offriva partendo, come se ti lasciasse fra le mani un gioiello inestimabile. (…) il suo volto che illuminava tutto, che faceva volare dovunque la bellezza, come se animasse una farfalla nascosta. Da don Miguel de Unamuno aveva imparato a fare uccelli di carta (…) I suoi bei versi gli si gualcivano in tasca, senza che siano mai stati, fino ad oggi, pubblicati. (…) Aveva, come di consueto, lasciato la sua giacca in un bar del centro. In maniche di camicia, in quell’inverno antartico, attraversò la città (…) Due giorni dopo una broncopolmonite si portò via da questo mondo uno degli esseri più affascinanti che abbia mai conosciuto. Il poeta se ne andò volando con i suoi uccelli di carta per il cielo e sotto la pioggia. Ma quella notte gli amici che lo vegliarono ricevettero una visita insolita. La pioggia torrenziale cadeva sui tetti, i lampi e il vento illuminavano e scuotevano i grandi platani, quando la porta si aprì ed entrò un uomo a lutto stretto e inzuppato dalla pioggia. Non lo conosceva nessuno. Di fronte agli amici, lo sconosciuto prese la rincorsa e saltò la bara. Poi, senza dire una parola, se ne andò improvvisamente come era venuto, scomparendo nella pioggia”.

 

Se sono stravaganti i personaggi incontrati da Pablo Neruda, altrettanto lo sono le loro vicissitudini e bizzarra è la loro fine. Alberto, (che viene ritratto come i personaggi di De Chirico, pieno di cassetti ricolmi di cose) assomiglia per certi versi al signor Vorel, incontrato invece da Jan Neruda, è un altro giovane uomo con talento, talento che però spreca, non sa come spendere, è fuori tempo ed avrà una sorte altrettanto triste e bizzarra. Analogo al salotto degli Yanez è invece quello malastranense di Dagli Štajnic, luogo “esotico” e onirico, dove i ginnasiali incontrano i “grandi”, dipinti anche loro non senza ironia, e con il consueto descrittivismo, anche psicologico, e attento al sociale, che contraddistingue i due Neruda, ricco di incisi ed interiezioni colloquiali.

 

 “Già molti anni fa quando ero ancora un piccolo ginnasiale, la compagnia del ristorante aveva questo carattere esclusivo. Essa era l’Olimpo di Mala Strana, dove si riunivano i suoi dei. (…) ha in sé qualcosa di nobile, antico, possiamo dire persino sonnacchioso e da tutta questa sonnolenza compresa erano avvolti quei signori. Ma per noi era tanto più Olimpo in quanto vi si riunivano anche tutti i nostri vecchi professori. Vecchi?Perché dire vecchi! Li conoscevo tutti bene quegli dei della nostra cara Mala Strana e non avevo mai pensato che qualcuno di loro fosse stato una volta giovane (…) C’era poi il conte, cieco da un occhio. In verità i conti a Mala Strana non mancavano mai, ma questo con un occhio solo era forse l’unico che frequentasse allora un ristorante del quartiere. Alto, ossuto, di un fresco colorito rosso, aveva cortissimi capelli bianchi e una benda nera sull’occhio sinistro. Si soffermava sul marciapiede davanti al ristorante anche per due ore, e se gli dovevo passare vicino, gli giravo intorno alla larga. La natura ha dato ai nobili un certo profilo, definito aristocratico, che li rende molto somiglianti ai rapaci. (…) Poi c’era, ma no! Tutti quei vecchi decaddero poco a poco sempre più e alla fine morirono… meglio non richiamare le ombre dalle tombe. Ricordo con piacere i momenti di orgoglio vissuti tra di loro; quel senso di indipendenza, di virilità, sì, di grandezza, quando ormai studente universitario, entrai per la prima volta senza timore davanti ai professori, Dagli Štajnic, tra quegli esseri elevati” lo stesso che prova Pablo, girando libero per le vie di Santiago, emancipazione, indipendenza. Prosegue Jan: “Mi considero solo una povera copia di quegli esseri elevati, ma tutto ciò che in me è nobile, lo devo a loro!” .

 

Il signor Vorel “inaugurò il suo negozio di granaglie nella casa Dall’Angelo Verde, il giorno 16 febbraio dell’anno milleottocentoquaranta e qualcosa. Allora tutto aveva il suo posto assolutamente stabilito. Aprire all’improvviso un negozio di granaglie là dove c’era stato, per esempio, un emporio, era una cosa così sciocca, che a nessuno sarebbe venuta mai in mente. A quel tempo i negozi s’ereditavano di padre in figlio, e se raramente passavano a qualche estraneo di Praga o di fuori, i malastranesi non lo guardavano del tutto come un intruso, solo perché, in un certo modo, il nuovo venuto si era assoggettato al loro ordine abituale e non li disturbava con la novità. Ma il signor Vorel non solo era del tutto forestiero, ma addirittura aveva installato un negozio di granaglie dove non c’era mai stata neanche l’ombra di un negozio. (…) L’unica consolatrice del signor Vorel era la sua pipa di schiuma. Quanto più era di cattivo umore, tanto più poderose nuvole di fumo s’allargavano dalla sua bocca. Le sue guance impallidivano, la fronte si raggrinziva, ma la pipa di schiuma, giorno dopo giorno, diventava sempre più rosso bruciato e splendeva di buona riuscita. I poliziotti guardavano velenosamente quel fumatore instancabile nel negozio… condividevano istintivamente l’avversione dei vicini per un estraneo. E il signor Vorel sedeva corrucciato dietro il bancone, senza fare una mossa. (…) il giorno prima dello sfratto, il negozio era rimasto chiuso del tutto, ma il giorno dopo davanti ad esso c’era stata una moltitudine di gente dalle nove di mattina fino alla sera tardi. Poi si raccontò che il padrone della casa, siccome non era riuscito a rintracciare il signor Vorel da nessuna parte, aveva fatto forzare la porta del negozio, e che allora era rotolato in strada uno sgabello di legno e sopra era apparso l’infelice granaiolo, che dondolava appeso ad un uncino. In quel momento il commissario aveva messo una mano in una tasca della giubba del morto e ne aveva estratto la pipa di schiuma. Allora l’aveva alzata controluce e aveva detto: una pipa di schiuma così ben annerita non l’avevo ancora vista!”.

 

Vorel è a modo suo un ribelle, un vagabondo, un forestiero, un martire ed un eroe involontario, che giunge in città a mettere, un po’ come un artista, in scompiglio la realtà in cui sono immersi i sonnacchiosi malastranesi, si inventa un negozio dove non c’era, ma ben lungi dal premiarlo, chi gli è intorno, lo isola fino a farlo morire di solitudine, debiti e sconforto, non lo capiscono e di lui rimane solo una pipa annerita, non si sa altro, come di Alberto scompaiono le poesie, su fogli sgualciti e volanti, rimangono solo gli uccelli origami, senza che nessuno l’abbia capito, senza che nessuno si sia accorto della sua esistenza, mentre infreddolito vagava per le strade di Santiago senza un cappotto, un uomo misterioso si ricorda di lui e si reca a compiere quel misterioso rito, saltando sulla sua bara e poi scomparendo, prima del funerale. Sono come due fulmini dei quali si percepisce appena il mistero. In entrambi i ritratti, i due autori, senza dire quasi niente delle caratteristiche superficiali dei due personaggi, scolpiscono due ritratti, attraverso i quali penetriamo la psicologia di un’epoca proprio attraverso la sfortuna e la stranezza di questi due “diversi”, due “strani”, quelle stranezze e anomalìe che sono poi in fondo quelle di tutti noi.

 

Analoghi sono i due “filosofi” della strada ai quali in qualche maniera sono debitori i due scrittori, Vojtišek, incontrato da Jan Neruda a Praga, il nobile che visse nella strada come un mendicante, ucciso dalla maldicenza, ritrovato congelato per strada con solo un cappotto sgualcito, senza camicia e un paio di pantaloni, e Omar Vignole, un medico che visse, fingendo di essere sempre qualcun altro, per le strade di Buenos Aires, con la sua vacca, alla quale dedicò racconti, poesie e conversazioni filosofiche, incontrato da Pablo Neruda, durante la sua permanenza in Argentina.

 

È la letteratura che scopre la filosofia degli ultimi, sono i personaggi irriducibili e provocatori che popolano le vite dei due Neruda. In essi scoprono il mistero dell’uomo.

 

 Jan Neruda, in una delle ventidue poesie della sua raccolta, Pisne kosmicke, intitolata Esistono anche là le rane?, immagina:

Le rane allo stagno erano assise

I cieli intente osservando su in alto

La rana maestra la conoscenza

Dell’universo a loro insegnando.

Trattava con esse dei vasti cieli

Delle faci che vediamo lì bruciare

E che gli astronomi, uomini curiosi

Come talpe scavano per imparare.

Ma se le stelle vanno a disegnare

Ciò che è grande assai piccolo diviene

Venti milioni di miglia per noi

Sono per loro un piede, se conviene.

(…)

La maestra tacque. Le rane intorno

Gli occhi di rana roteavano stremate.

Quali altre cose su quest’universo

Vorreste che vi vengan raccontate?

Soltanto un’altra cosa per piacere

Chiese una rana, E’ la verità?

Ci sono creature vive come noi

Invero, esistono le rane anche là?

Con una filastrocca per bambini, con la semplicità con cui i bambini rivolgerebbero a un grande questo dilemma, Jan Neruda, attraverso l’uso di ranocchie antropomorfizzate, poste in una singolare scuola in uno stagno, ripropone in maniera originale l’interrogativo antico come l’uomo: cosa può l’uomo capire dell’universo, del mistero nel quale è calato? Il lavoro degli scienziati è in fondo un lavoro da “talpe”, da chi cieco scava nella terra senza cavare niente dal cielo, senza restituire nulla di più di ciò che solo un bambino può semplicemente provare contemplando le stelle, gustando sbigottito l’abisso e l’infinito che da sempre suggestiona i sogni dell’uomo che danno senso al mondo creato dall’uomo stesso. La più precisa mappa del cielo sarà sempre qualcosa di distante dalla realtà, infinitamente più piccola, che non ci darà nessuna risposta ai problemi veri dell’esistenza, al mistero della vita e delle altre vite possibili sparse per l’universo in altri mondi paralleli e possibili, appena immaginabili.

 

Anche Pablo Neruda scrisse una raccolta dal titolo Odas elementales, in cui parla degli elementi del cielo che partecipano al mistero umano e provocano lo stupore, i sentimenti e le domande essenziali, che danno senso all’esperienza umana. La notte, in quanto copre tutto con il suo mantello nero, da sotto il quale magicamente riappare e si ricrea il mondo, perché è lo stupore che crea il mondo, non l’arida scienza che del mistero umano non dice nulla.

 

Detras del dìa, de cada piedra y arbol, detras de cada libro, noche, galopas y trabajas, o reposas, esperando hasta que tus raices recogidas desarollan tu flor y tu follaje (…) el atareado empleado de estadistica se ha metido en un bosque de hojas petrificadas. La noche tambien duerme como un caballo ciego. (…) Noche, noche mia, noche de todo el mundo, tienes algo dentro de ti, redondo como un nino que va a nacer, como una semilla que revienta, es el milagro, es el dìa. Eres mas bella porque alimentas con tu sangre oscura la ampola que nace, porque trabajas con ojos cerrados para que se abran ojos, para que cante el agua, para que resuciten nuestras vidas.

 

È lo stupore per il miracolo che continua a perpetuarsi, che non si può fare che contemplare, che apre gli occhi dell’uomo, non l’arida scienza “dell’impiegato di statistica”, che scompone e riduce il mondo che è irriducibile. Anche il linguaggio di Pablo Neruda è un linguaggio piano e semplice, ampiamente comprensibile, un linguaggio elementare per problemi elementari, da bambini, anche la sua interpretazione della notte assomiglia ad una “favoletta per bimbi”, giocosa e seria come i giochi dei bambini.

 

La sensazione del vivere umano è quella che esprime Jan Neruda: “Non posso dire d’aver paura per la mia vita. Ma sono sicuro che arriverà la paura ed è questa paura che temo”. E non c’è neanche il conforto di un Dio per i due poeti. Entrambi dimostrano il proprio sereno e lucido scetticismo e agnosticismo, in merito alla credenza religiosa: “E’ un fatto storico accertato che gli dei nascono direttamente dal proprio popolo. Geova era un dio tetro, cattivo e vendicativo, crudele e sanguinario come tutto il suo popolo. Gli dei greci erano eleganti e pieni di spirito, belli e allegri, completamente elleni. Gli dei slavi… pardon, noi slavi non abbiamo avuto sufficiente forza plasmatrice né per la formazione di grandi Stati, né per la creazione di dei ben definiti” sono le parole di Jan.

 

Pablo invece incontra il culto di Buddha nei suoi viaggi diplomatici in estremo oriente e dedica queste parole con la consueta ironia: “Quel sorriso di dolcissima pietra. Passarono le contadine in fuga, gli uomini dell’incendio, i guerrieri mascherati, i falsi sacerdoti, i turisti divoranti…E la statua continuò a rimanere al suo posto, con lo sguardo perduto, totalmente inumano, eppure in qualche modo umano, in qualche modo o in qualche contraddizione statuaria, essendo e non essendo dei, essendo e non essendo pietra… In qualche modo pensiamo ai terribili Cristi spagnoli, che abbiamo ereditato con piaghe e tutto, con pustole e tutto, con cicatrici e tutto, con quell’odore di candela, di umidità, di stanza chiusa che hanno le chiese… Anche quei Cristi sono stati in dubbio se essere uomini ed essere dei… Per farli uomini, per avvicinarli di più a coloro che soffrono, gli scultori li hanno coperti di piaghe orripilanti, finché tutto questo non si è trasformato nella religione del supplizio, nel pecca e soffri, nel non peccare e soffri, nel vivi e soffri, senza nessuna possibilità di scampo”, la religione resta strumento di controllo e anch’essa non risponde a quel bisogno del cuore umano di battere nel petto altrui, “disteso sull’erba di trifogli neri e barcolla solo la sua passione delirante”, scrive Pablo nella poesia Tentativo dell’uomo infinito.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

J. Neruda, I racconti di Mala Strana, UTET, Torino, 2008 (a cura di Vedunka Kuzelova Lunardi),

J. Neruda, Canzoni cosmiche,

P. Neruda, Confesso che ho vissuto, Oscar Mondadori, Milano, 2008,

 

P. Neruda, Venti poesie d’amore e una canzone disperata, Edizioni Accademia, Milano, 1977,

 

P. Neruda, Ode alla notte e altre odi elementari, Passigli, Firenze, 2009.

 

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1 commento

Stella 28 Gennaio 2016 - 21:32

Un´articolo molto ispirativo, la migliore comparazione dei due Neruda che io abbia mai visto 🙂

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