Il primo caso di coronavirus a Nizza ha molto turbato una mia vicina di casa.
La signora Amélie è una pensionata, vedova senza figli e senza nessuno, ma molto attiva e molto intraprendente anche nel coltivare rapporti umani.
Da giovane è stata una discreta campionessa di tennis; sport che ha continuato a praticare anche in età avanzata.
Cinque anni fa le è stato diagnosticato un tumore bilaterale al seno, ed ha affrontato tutto da sola con grande dignità.
Nel riferirle quanto sta avvenendo in Italia, devo essermi spiegato male, e forse ho anche usato delle espressioni infelici…
Le ho ripetuto quanto ho sentito da tutti i TG italiani. E cioè che i deceduti di coronavirus erano molto anziani, alcuni erano già malati e una donna era “anche” ricoverata in oncologia.
La signora Amélie ha trattenuto a stento la sua irritazione.
Ma lei crede, mi ha detto a denti stretti, che mi sono fatta asportare entrambi i seni, e mi sono sottoposta a cicli di chemioterapia e a trattamenti di radioterapia, per poi farmi spazzare via da un banale virus?
Confesso di essermi vergognato non poco…
In effetti, chi ha combattuto e vinto delle battaglie, come chi le sta ancora combattendo, meriterebbe una medaglia, e non una considerazione mortuaria: sanitaria puramente numerica.
Purtroppo, senza neppure rendermene conto, l’erbaccia della “cultura dello scarto” ha invaso anche i confini, che supponevo invalicabili, della mia povera coscienza.
Forse anch’io, inconsapevolmente, ho pensato che la vita non è più vita quando non produce più, e non serve ad alimentare le casse pubbliche e private.
Grazie, signora Amélie!
Lei mi ha ricordato che c’ è vita in chi, nel momento buio della prova, nella notte della malattia, sa volgere ancora lo sguardo in avanti…
C’è tanta bella vita in chi sa ancora rivolgere l’animo a qualcosa, e tendere ancora il cuore a qualcuno.