L’interesse della Nazione e quello della “gente”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 27 settembre 2018

Il Ministro Tria, interpellato sull’eventualità di sollevare l’asticella del rapporto debito/PIL al 2,4%, ha risposto che lui vigila sull’interesse nazionale, della Nazione, di tutti. Gli altri, i sollevatori di asticelle del debito altrui, rivendicano invece i diritti del Popolo (ossia della gente) contro il generico interesse della Nazione a cui si appellerebbe il ministro dell’Economia. Per Salvini, l’interesse della Nazione si riduce, invece, a “che la gente torni a lavorare e pagare meno tasse”. È la gente contro la Nazione dunque. E si tratta di ‘gente’ e di ‘popolo’, per capirci, che reclama in special modo flat tax, reddito di cittadinanza, tagli alla tasse, condono fiscale, e dunque un diretto beneficio personale piuttosto che mediatamente sociale. Gente che la Nazione come cultura, lingua, sentimento disinteressato di appartenenza nemmeno la vede col cannocchiale. Che populismo è questo che poggia proprio sulla scissione di Popolo e Nazione? E che privilegia la spesa corrente e individuale, invece di investimenti e spesa sociale?

Un populismo d’accatto, come minimo. L’idea di contrapporre la gente alle élite (ministri, parlamentari, tecnici, medici, magistrati, intellettuali), oltre che alla Nazione, è roba da lasciare sbigottiti. Ma come, volete fare la rivoluzione nazionale, battere i pugni sul tavolo europeo, rompere vincoli, tranciare le catene, andare alla ricerca di un posto al sole invocando la Comunità Nazionale e la difesa dei confini verso i disgraziati sui gommoni, e poi vi dimenticate che il Popolo nasce come soggetto primo di questa ipotetica rivoluzione nazionale, ne è il protagonista, e che il Popolo va inteso come unità di gente umile e intellettuali, lavoratori ed élite! Che riscatto nazionale ci può essere dietro la rivendicazione che la gente ‘normale’ debba essere risarcita da un condono fiscale, da una flat tax, da una paghetta paternalistica, e non invece da una società coesa, una democrazia più rappresentativa, un mondo complessivamente migliore?

Andatevi a rileggere Ippolito Nievo, allora, mica un astruso filosofo: basterebbe questo per capire quali contraddizioni solleviate, del tutto incoerenti con il populismo che pure professate, esplicitamente o meno. Nievo scrive del bisogno di “ricostituire l’unità nazionale; ricongiungere la mente con il braccio […]; di indurre cioè nelle opinioni del volgo rurale un cambiamento tale che le colleghi alle opinioni della classe intelligente, e li riunisca insieme e per sempre nell’amore della libertà e dell’indipendenza; che questo è il significato che può darsi ora in Italia alla frase: rivoluzione nazionale”. Rileggete questo passo con lessico attuale e vedrete come il disegno ‘nazionale’ passi per un ‘popolo’ che sia unità di ‘gente comune’ ed élite. Non lo Strapaese da due soldi che attizza le peggiori pulsioni ed esalta l’egoismo sociale, la paure e l’intolleranza contro le élite “cosmopolite” o locali, i professori, i ragionieri, i medici, gli uffici pubblici, ma un programma unitario di rinascita del Paese nel concorso di tutti e in base alle effettive capacità di ognuno. Questa sarebbe la strada giusta se stessimo parlando di forze popolari vere, non di individui pulsionali, atomi, aggregati attorno ai valori di mercato, oppure di politici veri e non avventurieri della politica.

Il populismo contemporaneo, laddove nei decenni trascorsi, puntava all’unità popolare e alla rivoluzione nazionale, oggi è solo un rabbioso movimento di parte, un pansindacato della gente, che contrappone e divide popolo a popolo, nazione a consessi internazionali, e crea debito pubblico senza cavarne un benessere sociale o generale, ma solo un illusorio benessere personale, che presto morrà dinanzi a servizi sempre più privi di risorse o smantellati. Questa serie di contraddizioni mostra come la strada populista (di destra come di sinistra), ossia l’idea di affidare a un Tribuno la soluzione dei problemi popolari a colpi di mance e di risentimento, sia un pezzo consistente della tragedia contemporanea. Torniamo alla politica, perciò, torniamo all’analisi minuziosa del sociale, all’idea che i conflitti tra le classi rafforzino la democrazia e non la uccidano, all’idea che i partiti rappresentino meglio e con più forza le esigenze popolari, dei lavoratori, dei precari, dei giovani, dei pensionati, delle donne, degli ultimi, non un ceto politico rampante, improvvisato, personalistico, che si fa spazio a mancette (e parlo anche del renzismo). Non amo molto né il concetto di ‘popolo’, né quello di ‘nazione’, ma devo ammettere che le esigenze di entrambi le hanno difese più i vecchi partiti che gli attuali banditori d’asta – più la democrazia rappresentativa che le chiacchiere in rete alla ricerca della felicità espressa in un click. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti.

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