La moneta rinnegata

per Gabriella
Autore originale del testo: Francesco Saraceno
Fonte: keynesblog
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LA MONETA RINNEGATA – di MARTIN SANDBU – ed. LUISS

 

L’euro è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai soliti europeisti (e ai noeuro)

Nell’identificazione tra moneta unica e politiche liberiste sguazzano i no euro ma anche i fautori dello status quo. Entrambi, l’un contro l’altro armati, fanno finta di non vedere che il problema non è la moneta unica, ma il clima intellettuale che domina in Europa. Idee per cambiare finalmente direzione senza far saltare il continente, in un estratto rielaborato dalla prefazione di Francesco Saraceno all’edizione italiana del libro di Martin Sandbu “La moneta rinnegata”.  

di Francesco Saraceno

LUISS University Press ha appena pubblicato la traduzione italiana dell’ultima fatica di Martin Sandbu (La moneta rinnegata), appassionato e competente commentatore del Financial Times, sulla crisi dell’euro. Vista la messe di lavori che circolano sull’argomento, qualche scetticismo sull’utilità dell’ennesimo saggio era giustificato. Tuttavia, una volta immersomi nella lettura mi sono rapidamente ricreduto, La tesi di Sandbu, enunciata fin dalle prime pagine del libro, è netta: il campo pro-euro sta perdendo la battaglia delle idee contro i sostenitori dei vari exit, perché ne accetta la premessa fondamentale, quella cioè di un’unione monetaria che non può funzionare senza unione politica. Una volta accettata questa premessa, l’argomento europeista è fortemente indebolito, dal momento che l’unione politica è oggi poco più che una chimera che nessuno riterrebbe politicamente percorribile. Il campo dei pro-euro non ha quindi, per opporsi agli exiters, argomenti migliori della paura: uscire costerebbe troppo, sarebbe destabilizzante, lascerebbe i piccoli paesi indifesi davanti alla mondializzazione, e altri scenari affini. Tutte argomentazioni giustificabili, ma caratterizzate dall’essere contro e non per: nessuna di esse mette in evidenza i vantaggi della costruzione europea, e tantomeno della moneta unica, ma solo i costi del suo abbandono, ammettendo quindi implicitamente che di vantaggi non ne ce ne sono. Leggendo questa critica, molto ben argomentata, è impossibile non pensare alla campagna elettorale che ha sostenuto la Brexit –  in cui il campo del remain ha giocato, perdendo, la carta della paura – e al dibattito che è seguito al referendum, esclusivamente incentrato su costi e benefici dell’uscita dall’Unione Europea.

La variegata galassia contraria all’euro ha radicato nel dibattito pubblico l’identità tra la moneta unica e le politiche liberiste seguite in Europa prima e soprattutto durante la crisi. La teoria delle zone monetarie ottimali, discussa anche da Sandbu, è stata da più parti distorta, anche se nei suoi elementi fondativi è stata elaborata da Robert Mundell, un economista di osservanza keynesiana.  Sintetizzata in poche frasi, la teoria  postula che il costo principale dell’abbandono della sovranità monetaria è la rinuncia alla politica monetaria come strumento di stabilizzazione, e che quindi aderire alla moneta unica sia ottimale solo quando questo strumento non è veramente necessario.  Il resto segue logicamente da queste premesse. Un primo criterio per giudicare dell’ottimalità di una moneta comune è la simmetria: i costi dell’abbandono della sovranità monetaria sono tanto più ridotti quanto più sincronizzati sono i cicli economici (se le economie si muovono insieme, una politica comune può rispondere ai bisogni di tutti, e non c’è bisogno di banche centrali nazionali). Ma anche in caso di choc asimmetrici, l’adesione alla moneta unica può comunque essere conveniente: è il caso ad esempio se gli choc asimmetrici possono essere assorbiti da trasferimenti fiscali da una regione all’altra, o dalla flessibilità dei mercati del lavoro e dei beni, che rendono la politica monetaria superflua; e se la politica monetaria è superflua, importa poco a quel punto poco che essa sia centralizzata o meno.

Nella teoria originale, dunque, la flessibilità era solo uno dei possibili meccanismi di aggiustamento di una zona monetaria. E, da un punto di vista empirico, nemmeno il più importante se, grazie a un lavoro di Jeffrey Sachs e Xavier Sala-i-Martin del 1992, sappiamo che anche in un paese dove la mobilità e flessibilità sono elevate come gli Stati Uniti gli aggiustamenti di mercato spiegano meno della metà dell’aggiustamento che segue ad uno shock asimmetrico.

Nella vulgata no-euro, tuttavia,  la flessibilità è diventata l’alfa e l’omega di ogni aggiustamento in presenza di una moneta unica, e in quanto tale non ammette alternative all’uscita qui ed ora dalla moneta unica e dall’Europa. In questo, i fautori del ritorno alle monete nazionali sono stati aiutati dalla sciagurata gestione della crisi e dal fatto che, come loro, anche gli alfieri dello status quo hanno insistito in questi lunghi anni sul fatto che la via maestra per l’uscita dalla crisi erano più riforme e più flessibilità.

Gli estremi si sono quindi toccati. Coloro i quali proponevano e propongono di continuare con il binomio austerità e riforme, e i sostenitori dell’idea che l’euro sia irriformabile, condividono l’equazione liberismo = euro, che si è quindi installata nel dibattito come un’evidenza.  Da qui la “solitudine del riformista” che molti (e, ne sono sicuro, anche Martin Sandbu) hanno sperimentato. Qualunque critica delle politiche seguite prima e durante la crisi, qualunque proposta per migliorare il funzionamento della moneta unica accettando che i mercati non sono efficienti e non possono assorbire tutti i problemi, venivano bollate da un lato come vetero interventismo keynesiano e, dall’altro, come velleità destinate a scontrarsi con i poteri forti che impongono il gioco liberista ai popoli spogliati dalla sovranità. Tutti noi, chi più chi meno, ci siamo prestati alla rappresentazione dell’euro impefetto, facendo il gioco allo stesso tempo di chi voleva smantellarlo e di chi voleva continuare con lo status quo. Il volume di Sandbu è importante proprio perché spariglia il gioco e mette l’accento sul vero problema europeo, che non è l’euro (“orfano d’Europa”, nel titolo inglese), ma sulle politiche che sono state seguite prima e durante la crisi, che non erano inevitabili e che, aggiungo io, probabilmente non sparirebbero in caso di implosione della moneta unica.  Come Martin Sandbu sono convinto che il binomio austerità più riforme non fosse inevitabile. Come e più di lui insisto fin dal 2011 (ma si veda anche qui e qui) sul fatto che i paesi del centro, in primis la Germania, avrebbero potuto accompagnare il consolidamento fiscale nella cosiddetta periferia (Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda) con politiche espansive; questo avrebbe reso l’aggiustamento meno doloroso e anche più efficace, con effetti benefici sui paesi toccati dalla crisi, ma anche sulla zona euro nel suo complesso. Non è l’euro che ha impedito un’espansione fiscale in Germania tra il 2010 ed oggi. Non è l’euro che ha imposto una lettura della crisi come legata al debito pubblico di alcuni paesi “peccatori”, lettura che per chi non avesse paraocchi ideologici appariva fin dall’inizio erronea e foriera di errori. Quello che oggi tutti sembrano accettare, cioè che si trattasse di una crisi da debito privato, era nel 2010 tesi eretica nei circoli europei, e per sentirsi meno soli si era obbligati a rivolgersi agli economisti di scuola anglosassone. L’euro ha in realtà ben poco a che vedere con le politiche che sono state seguite, inadatte e quasi criminali per l’inutile sofferenza che hanno inflitto alle popolazioni europee, ed è illusorio pensare che l’uscita dalla moneta unica provocherebbe un’inversione di marcia. Si può assistere con un certo sbigottimento al compiacimento delle élites europee, che festeggiano tassi di crescita appena accettabili come se stessimo assistendo a un nuovo miracolo economico; si può sorridere dell’ingenuità di chi ha festeggiato l’elezione di Emmanuel Macron in Francia come la fine dell’onda populista (salvo poi essere rapidamente contraddetto dalle elezioni tedesche); si può e si deve, insomma, criticare severamente quasi tutto quello che è stato fatto dagli anni Novanta ad oggi, ma occorre evitare di prestare il fianco a chi erroneamente si ostina ad identificare scelte ben precise di politica economica con le istituzioni nel cui ambito le scelte vengono effettuate.

Le scelte scellerate degli scorsi anni hanno le loro radici in un “Nuovo Consenso” emerso negli anni ’80 che sostanzialmente incorpora l’idea che i mercati siano efficienti, e quindi che il ruolo dello Stato nella regolazione dell’economia sia piuttosto limitato. È quindi in questo quadro intellettuale che vanno situate le scelte dei policy maker dei paesi avanzati, anche quelli che non hanno mai adottato l’euro.

È vero però, e questo mi differenzia in parte dall’approccio di Martin Sandbu, che in Europa il dominio del Nuovo Consenso coincide con la costruzione della “casa comune”, e ne influenza l’impianto concettuale. Il trattato di Maastricht del 1992 scrive le regole del gioco della moneta unica europea. Nel 1997 il trattato di Amsterdam viene a completare il quadro istituzionale con il Patto di Stabilità e Crescita che fissa le regole del gioco per la politica fiscale dei paesi membri dell’eurozona. In ossequio al consenso, il Patto di Stabilità ha come obiettivo principale il limitare ai soli stabilizzatori automatici la politica fiscale. Il deficit strutturale deve essere uguale a zero. Il nuovo Fiscal Compact, approvato in tutta fretta nel 2012, aggiunge a questa regola il vincolo della riduzione del debito pubblico in eccesso del 60%.

Anche la politica monetaria è coerente con il quadro concettuale del consenso, visto che la BCE deve solo preoccuparsi dell’inflazione, e ha anche notevole indipendenza. È lampante la differenza con la Federal Reserve americana il cui statuto, che risale agli anni settanta, le affida il “doppio mandato” di perseguire stabilità dei prezzi e piena occupazione. L’influenza dell’economia keynesiana, all’epoca ancora dominante, sulle istituzioni statunitensi è evidente.

Infine, l’Atto Unico del 1986 porta a compimento quello che fin dal trattato di Roma del 1957 era un pilastro dell’Unione Europea, ossia la politica della concorrenza, volta a combattere ogni forma di posizione dominante, e così facendo ad eliminare tutte le rigidità che impediscono ai mercati di convergere verso l’equilbrio ottimale. L’interpretazione che la Commissione Europea e le istanze europee hanno dato della politica della concorrenza, e la definizione piuttosto rigida di “aiuto di Stato” hanno di fatto impedito agli Stati membri di mettere in atto politiche industriali coerenti, e una programmazione economica di lungo periodo.

Io sono quindi convinto, probabilmente più di Sandbu, che le istituzioni europee abbiano in qualche modo favorito la messa in opera delle politiche che lui critica. E che quindi, soprattutto in virtù del fatto che la teoria macroeconomica oggi si interroga sulla direzione da prendere, sia il caso di ripensare le istituzioni europee per renderle più neutrali. Ma se le istituzioni hanno influenzato le politiche economiche, non le hanno però determinate. Si poteva fare altro, si doveva fare altro.

Più passa il tempo, più è chiaro che l’Europa, e l’eurozona, deve cambiare in profondità per rispondere alle esigenze di popolazioni allo stremo, a cui vengono vendute da tre decenni le stesse ricette miracolose. A partire dagli anni novanta, in Europa più che altrove la politica ha rinunciato all’ambizione di influenzare i processi di mercato, tentando di guidarli verso soluzioni socialmente desiderabili. All’idea che fu di Keynes, che la politica economica consista nel tentare gestire al meglio le interazioni tra due istituzioni entrambe imperfette, Stato e Mercato, si è sostituita la convinzione che lo Stato debba lasciare campo libero a mercati supposti efficienti. In Europa, più che altrove, l’adesione delle élites politiche e intellettuali al nuovo consenso ha portato ad una politica economica assente, che naviga giorno per giorno tra obiettivi contabili. In Europa, più che altrove, la politica economica ha abdicato al ruolo di orientare e regolare l’economia, e di pianificare su quegli orizzonti lunghi che spesso il settore privato fatica ad incorporare. È questa rinuncia alla prospettiva di lungo periodo la radice del “male europeo”. È mia convinzione che sia più facile (non facile; più facile) provare a recuperare la nobiltà della politica e della politica economica in un contesto europeo, piuttosto che nell’ambito di piccoli Stati nazione, in competizione tra loro, e ancora più vulnerabili di fronte ai vari Bilderberg che agitano le notti dei no-euro.

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