di Anna Lombroso per il Simplicissimus – 25 giugno 2014
Chissà se qualcuno dirà che il problema dell’Aquila è il traffico, come si disse di Palermo. Non è certo inattesa o sorprendente la notizia apparsa oggi sui quotidiani che per trarre maggiori profitti dagli appalti della cosiddetta ricostruzione privata i sette imprenditori coinvolti nell’inchiesta «Dirty Job» della Direzione Distrettuale Antimafia dell’Aquila si rivolgevano alla camorra, in particolare al clan dei Casalesi, per farsi procurare le maestranze a basso prezzo. Sono stati arrestati per ora solo sette imprenditori che operano nell’ambito della ricostruzione privata, quella caratterizzata dall’assenza di bandi pubblici con i lavori che possono essere affidati direttamente dai cittadini proprietari degli immobili danneggiati dal sisma del 6 aprile 2009, ma l’indagine continua.
In fondo all’appello tra i roditori e gli sciacalli che hanno spolpato l’Aquila fino all’osso mancava solo la presenza delle mafie, esplicita e di tradizione, poiché l’eufemismo in voga tra opinionisti e media impone che non vengano chiamate così le alleanze opache tra imprenditori, credito, pubblica amministrazione e politica anche se modi, usanze, linguaggio, usi di casa, coincidono.
Che a dirigere l’autorità che dovrebbe operare e in fretta contro la corruzione e ora a coordinare la vigilanza sull’Expo sia stato chiamato un magistrato in passato in prima linea nella lotta alla camorra dovrebbe significare che il governo ha ben chiare le commistioni oltre che la sinistra corrispondenza nell’agire delle mafie e del “malaffare”, l’integrarsi accertato tra i due contesti così come la convergenza degli interessi.
Ma sospetto che non sia così, che Cantone sia stato scelto per la sua popolarità che fa bene al premier, per la fretta della compagine governativa di far vedere risultati con nomine autorevoli cui non importa seguano i fatti, per quell’apostolato della fuffa che procede per gesti e annunci, cancellando enti e istituzioni ma lasciando al loro posto criminali eccellenti e non, imprese il cui core business è la progettazione e realizzazione di profitti facili e che, come dimostra il caso in questione, se portano “crescita” è quella della precarietà, della caduta degli standard di sicurezza e legalità, della svalutazione del lavoro. E che siano o no in odore di mafia poco importa, tanto è vero che si continua a non aggredire i gangli del crimine economico, in coppola e doppiopetto, per usare a un tempo due stereotipi: falso in bilancio, evasione, riciclaggio.
Addirittura a fronte dell’esplosione mefitica di scandali il burbanzoso giovinastro, così attento all’egemonia della comunicazione, ostenta ancora maggior disinteresse dei precedenti governi, perfino di quelli che santificavano dotti collezionisti tornati da Beirut o improbabili stallieri, al tema della “legalità”, se ne riduciamo la portata al tentativo di contrastare la criminalità organizzata in tutte le sue forme. Davanti alla Tav, al Mose, all’Expo, la priorità è andare avanti a tutti i costi, non ci si spreca nemmeno – come facevano Monti o Letta – a proclamare vigilanza contro le infiltrazioni di malaffare e mafie. L’isteria della crescita, il futurista pragmatismo dei festosi baciati dalla fortuna e dalla Merkel, considerano questi degli optional e d’altra parte si tratta di alleati di governo, finanziatori, compagni di merende, amici di compagni di merende, che ormai a pieno titolo fanno parte dei generosi creatori di Pil, quello cui l’Europa intende far contribuire prostituzione, gioco, scommesse, traffico di droga.
Ma non si può farne una colpa eccessiva. Anzi la colpa è dei mafiosi che sono venuti meno a certe tradizioni. Come i massoni hanno dismesso i grembiulini, loro hanno messo in naftalina la coppola e probabilmente anche il tritolo, forse perché sono sempre meno quelli che dicono di no. E così sono diventati indistinguibili rispetto ai Mantovani del Mose, ai Maltauro dell’Expo, agli uomini d’oro delle Coop, ai brillanti operatori di fondi e agenti immobiliari, a qualche ex-ministro, vanno nelle stesse scuole, seguono gli stessi master, si fanno vestire dagli stessi sarti, e se non lo fanno direttamente lo fanno fare ai loro manager, preparati, dinamici, cosmopoliti.
E dire che dovrebbero saperlo tutti che è così, non solo qualche valoroso investigatore o magistrato della Dia. Lo dovrebbero sapere i giornalisti e gli opinionisti che corrono su e giù per le scalette del consenso come criceti. Lo dovrebbe sapere il governo. Lo dovrebbero sapere i parlamentari, almeno quelli obbligati a leggere gli atti della Commissione Antimafia, e temo siano pochi, nei quali è scritto che le nuove mafie si caratterizzano per il controllo ossessivo, quasi maniacale, del territorio; per una struttura fluida ma saldamente ancorata all’elemento territoriale, ma con una spiccata vocazione alla proiezione internazionale, che permette di dare luogo alla nascita di gruppi federati che si costituiscono all’occorrenza per affari di droga o spartizione di appalti, secondo un modello non gerarchico, ma reticolare e cooperativo. E che le organizzazioni mafiose hanno trovato il modo di affrontare sfide e cambiamenti della modernità in modo sorprendente ed inatteso: rimanendo uguale a se stesse ed esportando in altri territori un modello organizzativo; rivelando una provata capacità di infiltrazione nella Pubblica Amministrazione con il fine di intercettare i flussi di denaro pubblico e una la profonda vocazione ad infiltrarsi nelle Istituzioni, specie con riferimento alla funzione di governo degli enti locali. I numerosi esempi di atti in danno di politici locali ed amministratori locali attestano una logica criminale che punta all’occupazione delle amministrazioni locali e un’elevata capacità di penetrazione nel sistema economico lecito, a seguito dell’accumulazione di patrimoni smisurati.
E se la ‘ndrangheta viene definita come una ‘holding criminale’, “che si caratterizza per il drenaggio delle risorse pubbliche riconducibili ad appalti pubblici, contributi, fondi comunitari e nazionali”, anche la camorra si sta costruendo un impero altrettanto moderno e innovativo, “vestendo sempre più spesso i panni dei colletti bianchi ed assumendo i connotati tipici di coloro che “si propone di fare a tutti i costi una scalata sociale alla grande ricchezza e al potere”e riuscendo a sostituirsi con il proprio ordine alle funzioni dello Stato e degli Enti locali, interfacciandosi con la criminalità globalizzata, accreditandosi come autorità economica, tanto “da indurre alcune realtà imprenditoriali a rivolgersi spontaneamente al capo clan, quasi ad “esorcizzare” l’effetto estorsivo, prima di iniziare l’attività di impresa; mentre in altre inchieste è emerso che grandi gruppi nazionali affidavano la rappresentanza in esclusiva a soggetti riconducibili ai clan, così da ottenere l’ulteriore effetto di facilitare l’inserimento dei propri prodotti sul territorio”.
Un bel po’ di anni fa ormai citavo in un post di questo blog una dichiarazione folgorante di un tenente dei carabinieri di Monza: “ il mondo ormai è la Calabria e quello che diventerà Calabria”. La profezia si è rivelata giusta, il mondo è Expo, è Tav, è Mose, è l’Aquila o lo diventerà.