Le storie di Zerocalcare

per Gabriella
Autore originale del testo: LUCA VALTORTA
Fonte: La Repubblica
Url fonte: http://www.repubblica.it/cultura/2014/09/28/news/zerocalcare-96706002/

di LUCA VALTORTA

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A Rebibbia, quartiere popolare di Roma, sono nate tutte le storie di Michele Rech, 30 anni. Oggi, dopo quattro volumi vendutissimi che hanno riportato il fumetto un po’ ovunque (persino in tv), sta per pubblicare un nuovo albo, “Dimentica il mio nome“, che per la prima volta svela l’intimità, potente, avventurosa e inaspettata, della sua famiglia. Lo abbiamo incontrato dove tutto ha avuto inizio: nella sua cameretta.

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A Rebibbia non ci capiti per caso. È l’ultima stazione della metro B di Roma e devi volerci andare. E la motivazione più forte per andare a Rebibbia è il carcere: ogni giorno i parenti dei detenuti si riversano dalla metropolitana per le visite. Zerocalcare, pseudonimo di Michele Rech, 30 anni, da sempre vive lì. E da lì, dice, non si muoverebbe mai. Zerocalcare è un fenomeno del fumetto italiano: è l’autore singolo che ha venduto di più nella storia, con oltre 200.000 copie dei suoi quattro volumi pubblicati fino a oggi. È anche l’unico fumettista riuscito ad arrivare al primo posto della classifica di varia, quella che comprende anche i libri di letteratura. E che ora sta per pubblicare un nuovo lavoro, Dimentica il mio nome.

A Ponte Mammolo scendono quasi tutti. Sul vagone della metro restano un paio di persone. Michele mi aspetta per andare a mangiare: “Andiamo dal kebabbaro sotto casa mia, praticamente è il luogo dove a Rebibbia succede tutto”. Tipo? “Mah, in realtà Rebibbia è un posto tranquillissimo e non succede mai niente, però l’anno scorso due tizi coi cani molosso hanno rifiutato di pagare e hanno scatenato i cani che hanno morso una persona che passava di lì, che poi si è rivelata essere la Mantide di Cairo Montenotte di ritorno a Rebibbia in permesso”. Siamo già in un suo racconto. Poi entriamo in casa, il tempio di Zerocalcare, descritta in molte sue storie tra cui quella, divertentissima, in cui racconta che “casa mia ha tre livelli di degrado, la cui valutazione è affidata a un’agenzia di rating specializzata”.

La realtà è molto meno agghiacciante. Ci sono solo quattro o cinque console da videogame per terra coperte di polvere in un accrocchio di fili davanti al televisore e, per il resto, ordine e disciplina regnano (quasi) sovrani (“Vabbé, ho messo a posto, eh, perché sapevo che venivi…”). Su tutto troneggia quello che Michele considera l’unico vero lusso che si è concesso: una macchina per videogiochi da bar, di quelle davanti a cui negli anni Ottanta stazionavano orde di adolescenti che giocavano a Street Fighter, gioco che ha segnato indelebilmente anche lui, tanto che uno dei personaggi delle sue storie ha il nome di Blanka, un bestione capelluto che si trasformava in una palla e con una mossa speciale dava una scossa elettrica agli avversari: “La cosa bella è che dentro ci puoi scaricare tutti i retrogame che vuoi”, dice.

Per i non adepti, i cosiddetti “retrogame” sono appunto i vecchi giochi per quel tipo di macchine che oggi sopravvivono sulla Rete, per la gioia di tutti i geek della terra. Del resto ormai il mondo è loro: i geek sono creatori di software, di app, ma anche fumettisti, registi, scenografi, giornalisti ultraspecializzati, personalità dei blog e di YouTube: Peter Jackson è un tipico geek, i fratelli Wachowski, creatori della trilogia di Matrix, sono una sorta di divinità del pantehon geek anche se Michele, su tutti, venera Star Wars, come dimostrano poster, action figure e, soprattutto, un superbo modellino del Millenium Falcon: “L’ho barattato in cambio di alcune tavole originali”. Un affarone.

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Com’è incominciato tutto?

“Con 500 copie de La profezia dell’armadillo. Che fu un’autoproduzione”.

Cosa significa autoproduzione?

“Che portavo io le copie alle librerie: quattro copie a una, dieci all’altra, e le lasciavo in conto vendita. Tenevo i conti su dei fogliettini che poi perdevo. Ma non potevo lasciare gli scatoloni in macchina se no te la sfondavano e quindi: tre piani a piedi senza ascensore ogni giorno. In macchina ci stavano solo cinque scatoloni e quando il libro ha iniziato a vendere e dieci librerie in un giorno mi chiedevano quaranta copie l’una, dovevo andare avanti e indietro dallo stampatore a Formia, due volte. Un incubo. Ancora adesso mi ritrovo dei foglietti in certe giacche, con il conto vendita di copie mai pagate, di librerie in cui non sono più tornato, senza contare che in quel periodo mi hanno tolto nove punti della patente…”.

Quanto copie hai venduto in questo modo?
“Le ho ristampate per dieci volte fino ad arrivare a circa 5.000 copie”.

Intanto la Profezia dell’armadillo cominciava a diventare un caso. A quel punto qualcuno se n’era accorto…
“Sì, la casa editrice Bao si è fatta avanti e mi ha chiesto di pubblicare un nuovo libro, ma quando si sono accorti che io non ce la facevo più e che l’Armadillo continuava a vendere hanno deciso di ristamparlo loro e quella è stata la mia salvezza”.

Quante copie questa volta?
“Altre 5.000 e sembrava un azzardo, invece credo che alla fine siano arrivate a 50.000”.

Poi l’anno dopo esce Ogni maledetto lunedì su due, la raccolta delle storie pubblicate sul blog.
“Finì subito al primo posto su Amazon e, cosa per me assolutamente incredibile, al primo posto della classifica Nielsen della varia”.

E i vari racconti di cui era composto erano gratis sul blog.
“Forse molta gente lo regala. Io per esempio non leggerei mai un fumetto sul Web, non mi piace, si fa fatica”.

Quali sono state le tue più importanti influenze?

Topolino e Paperino: ho iniziato a disegnare da piccolissimo proprio cercando di copiare i personaggi di questi fumetti. E poi Lupo Alberto, Kattivik, Sturmtruppen e i supereroi della Marvel ma anche i manga giapponesi, da Dragon Ball, di cui aspettavo l’uscita con il cuore in gola, a Ken il Guerriero. Poi sono passato al fumetto underground: Tank Girl di Jamie Hewlett e Brian the Brain di Miguel Ángel Martín”.

Hai una collezione imponente?
“Purtroppo ho venduto tutto: i videogiochi mi hanno rovinato”.

In famiglia qualcuno disegnava?

“Mia nonna, protagonista di Dimentica il mio nome, tra le tante, incredibili cose che ha fatto nella sua vita, era anche pittrice”.

Nei tuoi racconti ci sono sempre affermazioni d’amore per Rebibbia, il quartiere di Roma in cui vivi. Come mai?
“È il posto in cui sono cresciuto ma è sempre stato bistrattato. Per me affermare l’appartenenza a Rebibbia è un motivo d’orgoglio. Alcuni pensano che sia una sorta di Bronx mentre è un quartiere davvero tranquillo. Rebibbia per me è un’isola felice tra San Francisco e Pescara”.

Nei tuoi fumetti racconti spesso la tua infanzia vessata da ogni genere di prepotenza.
“Più che prepotenza è che nei quartieri popolari di Roma non ti fanno passare niente: non puoi mai mostrare debolezze e se le mostri te ne devi dimostrare molto consapevole. Se ti piangi addosso o fai finta di non averle vieni massacrato. Persino se sbagli il colore delle scarpe da tennis”.

Anche come punk la cresta era del colore sbagliato…
“Esatto. Tra i punk io ero quello che non riusciva mai a fare la cosa giusta: la cresta rossastra che a un certo punto mi ero fatto era davvero orrida, sembrava un animale morto”.

Questo nuovo corposo volume di ben 238 pagine, Dimentica il mio nome, è la cosa a cui tieni di più in assoluto. Da quanto tempo ci stavi lavorando?

“Da più di due anni, anche se la lavorazione vera e propria è stata di circa otto mesi. Ho iniziato e poi l’ho interrotto perché non mi sentivo ancora pronto a metterlo giù”.

Perché affronti temi molto intimi che riguardano la tua famiglia?

“Sì, ci sono alcune cose autobiografiche e altre no, ma non rivelerò mai qual è la parte vera e quale quella di fantasia. Io comunque ho una storia familiare nebulosa, piena di buchi e di contraddizioni. Solo dopo la morte di mia nonna queste lacune si sono colmate ed è venuta fuori una storia che andava raccontata per forza”.

È una storia molto poetica in cui in qualche modo la protagonista assoluta è sua madre.

“Infatti ero in paranoia, perché mentre io i fatti miei li posso mettere in piazza e devo rispondere solo a me stesso, in questo caso ho raccontato cose molto private che nemmeno la gente intorno a lei conosce”.

Ne avete parlato?
“Sì e credo che anche lei sia stata contenta di queste rivelazioni, per non farle morire nell’oblio e nel segreto”.

C’è anche tuo papà nel racconto, che disegni tra il padre di Kung Fu Panda e Paperoga…
“In realtà è ingeneroso il ruolo che gli do nei fumetti. I miei si sono separati quando io ero piccolo ma lui è sempre stato quello meno di polso, mentre mia madre era il carroarmato. Con lui c’è un rapporto strano: anche se ci vogliamo molto bene non riusciamo mai a mostrare i nostri sentimenti. C’è una sorta di pudore tutto maschile che ce lo impedisce”.

Di cosa parla il nuovo libro?

“Si apre con la morte di mia nonna e ripercorre alcuni episodi della mia vita, insieme all’attraversamento del lutto da parte di mia madre. In questo processo vengono a galla dei fatti che mi erano stati taciuti e che non avrei mai potuto immaginare”.

Pensavi di essere quello ribelle e alternativo e invece…

“E invece ero l’ultimo degli scemi e anche le cose più ribelli che pensavo di aver fatto impallidiscono di fronte a una storia della mia famiglia avventurosa e inaspettata”.

Che importanza hanno avuto i centri sociali e la musica punk nella tua formazione?
“Fondamentale. I centri sociali sono posti in cui io sto bene e che cercano di fare qualcosa di positivo in una realtà sociale sempre più complessa. Ho iniziato a disegnare facendo locandine di concerti per loro da quando ho sedici anni. Il punk è parte della mia vita: io sono ‘straight edge’, il che significa che non bevo, non fumo e non mi drogo”.

La scuola è stata importante?
“Non molto: nonostante gli sforzi dei miei insegnanti non sono mai riuscito a imparare l’anatomia. L’unica cosa che mi ha insegnato è una certa disciplina: se sei completamente autodidatta e non sai disegnare un cavallo finirà che non lo disegnerai mai. Lì invece sei obbligato”.

Quali sono i disegnatori italiani che preferisci?

“Dei disneyani Cavazzano, Mastantuono, Silvia Ziche e, dei più giovani, Lorenzo Ceccotti “LRNZ” è un mostro e poi ovviamente Gipi che è inarrivabile: lui quando inizia a disegnare ha in mente una cosa ma tu non puoi capire che cos’è, poi improvvisamente si materializza davanti a te. Ed è meravigliosa. Sono proprio onorato che abbia accettato di fare una copertina speciale per l’edizione speciale di Dimentica il mio nome (4.000 copie già esaurite, ndr)”.

Cinque graphic novel e una storia nuova sul blog ogni quindici giorni, per non parlare delle collaborazioni e dell’enorme quantità di presentazioni: hai lavorato moltissimo in questi anni.
“Perché ho sempre pensato, e lo penso tutt’ora, che non sarebbe durata. Il mio è, inevitabilmente, un fenomeno destinato a sgonfiarsi: probabilmente l’unico motivo per cui verrò ricordato è ‘ah, sì, Zerocalcare, quello che ha venduto un sacco di fumetti per un breve periodo senza avere nemmeno una vaga idea di cosa fosse l’anatomia'”.

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