di Nicola Boidi
«L’irrazionalità forgia ancora il destino dell’uomo» (Max Horkheimer)
Nel precedente articolo è stato presentato lo scenario su cui si muove il nuovo governo planetario del capitalismo finanziario, e ci eravamo lasciati sui seguenti quesiti: i mercati finanziari sono un ‘ineluttabile, destinale, legge di natura dell’economia mondiale, e se sì di che genere di «natura» stiamo parlando ? Il secondo, conseguente, quesito è: è pensabile invece che l’economia finanziaria attuale sia «civilizzabile» (cioè umanizzabile) ?
Tentiamo innanzitutto di rispondere alla prima domanda. Mentre infuria in Italia il dibattito sull’approvazione del decreto legge di riforma del mercato del lavoro – Job act – presentato dal governo Renzi, avviluppato nelle sue insolubili contraddizioni, la parte deregolativa della legge viene elogiata da due tra le più importanti istituzioni del mercato finanziario internazionale: il Fondo Monetario Internazionale, per bocca della sua presidentessa Christine Lagarde, e la Banca centrale europea, incarnata dal presidente Mario Draghi. In particolare Draghi avrebbe dichiarato, riferendosi indirettamente al Job Act di Renzi, che «le riforme coraggiose sono la chiave per migliorare l’ambiente economico e aumentare gli investimenti», che «il successo delle stesse misure di politica monetaria dipende dalle riforme strutturali che devono migliorare la competitività» e che «è presto per giudicare l’impatto economico delle Titro (il maxifinanziamento alle banche europee a tassi vantaggiosi), ma si può affermare che il loro annuncio ha già avuto un effetto positivo notevole sul sentimento dei mercati finanziari».
L’attribuzione di «sentimento» ai mercati finanziari in quest’ultima affermazione di Draghi, può a un tempo stupire e suscitare confusione nel lettore. Abbiamo imparato a conoscere la finanza internazionale come un super meccanismo, una mega macchina produttrice di speculazione e di massimizzazione del profitto; la sua personificazione, anche fosse semplicemente assunta con valore metaforico, può suscitare sconcerto se comparata al suo «macchinismo». Infatti si tratta di una metafora che agisce potentemente se sovente si sentono ripetere formule del tipo « i mercati lo vogliono», «una reazione positiva (o negativa) da parte dei mercati», «euforia (o depressione) dei mercati». Questo fa pensare che in realtà vi sia una strategia comunicativa soggiacente, una volontà di far penetrare nelle coscienze il dogma dell’ideologia neoliberista (quel supporting cast mediatico, editoriale, di think tanks, di istituzioni accademiche a servizio del main stream a cui si accennava la volta scorsa), per cui da una parte anche solo il pensare di potere mettere in campo una strategia oppositiva di contrasto ai processi finanziari debba sembrare come volere lottare contro gli onnipotenti elementi di natura, e dall’altra parte però si vuole al contempo tranquillizzare l’opinione pubblica dando un ‘immagine di sensibilità, di capacità di ragionevolezza e sensatezza, «di umanità» di fondo di questo processo. Allora se dovessimo prendere sul serio la sua trasfigurazione in persona, se dovessimo mettere in piedi un setting di analisi psichica (psicoanalisi) della personalità del capitalismo finanziario, quale tipo di personalità dovremmo qui delineare, quale genere di «sentimenti» potrebbe mai manifestare una «psicologia» di questo genere?
Una personalità presa appunto nel dualismo tra pulsioni di irrazionale, perversa, «anaffettiva» disumanità e insensibilità da una parte, e l’espressione di ingenue e infantili manifestazioni di sentimenti dall’altra parte. La prima diagnosi psicoterapeutica sulla base di questi sintomi non potrebbe che essere quella di personalità al confine tra nevrosi e psicosi, tendente a una dissociazione schizofrenica. Proseguendo nella metafora, se l’analista o terapeuta da questa sintomatologia volesse scandagliare nella biografia del «soggetto» in questione, ricostruire l’anamnesi delle sue vicende esistenziali per risalire alla fase evolutiva, infantile, della sua psicologia, per trovare se vi sia possibilità di ricomposizione (di cura) di tale personalità psichica scissa , che cosa troverebbe nelle origini e nell’evoluzione della storia personale del «paziente» capitalismo finanziario?
I maggiori studiosi (economisti e sociologi) concordano nel sostenere che alle origini del processo di finanziarizzazione del capitalismo (nella sua«infanzia») vi sia un mutamento storico, economico-finanziario e sociale da collocare alla fine degli anni sessanta del novecento, fenomeno noto sotto il nome di «stagflazione». Durante il trentennio della cosiddetta golden age (e in particolare tra gli anni 60 e gli anni 80) si sviluppa progressivamente un processo di sostenuta lotta di redistribuzione delle ricchezze e di potere tra le imprese dei paesi sviluppati (l’Occidente) da un lato e i loro lavoratori e i produttori di materie prime dall’altro, con il conseguente aumento dei salari e delle materie prime, con mutati rapporti di forza economici e politici che gli alti livelli di occupazione hanno contribuito a generare a vantaggio dei lavoratori sia nei luoghi di lavoro che nella società, dei loro diritti sul lavoro e sulla previdenza, della crescita delle istituzioni e dei servizi sociali. Questi processi economici e sociali e non i problemi di sovraproduzione sarebbero stati all’origine della stagnazione dei profitti, con il conseguente calo degli investimenti in innovazioni produttive da parte delle imprese e concomitanti fenomeni inflazionistici di aumento dei prezzi dei prodotti al consumo: la «stagflazione» appunto.
A partire dagli anni settanta il capitale cerca di indirizzare l’investimento complessivo verso la riconquista di maggiori margini di potere economico – profitto – e politico. Accantonata la visione keynesiana a vantaggio della visione neoliberista della scuola economica di Chicago incarnata proprio negli anni settanta dal suo più illustre rappresentante, Milton Friedman, nuovi equilibri economici, politici e sociali vengono ricercati attraverso la riduzione del costo del lavoro e della dinamica della spesa pubblica.
Il conseguente rallentamento della domanda (del consumo) da salari e da spesa pubblica, dunque il fenomeno della carenza di domanda rispetto alla capacità produttiva, e all’aumento della produttività dovuto all’incessante sviluppo tecnologico, accentua ulteriormente il fenomeno della stagnazione dei profitti. L’economia «reale», messa ulteriormente in difficoltà da questo squilibrio prodotto tra la possibilità della domanda effettiva e l’offerta potenziale, cerca allora profitti sostitutivi attraverso il processo di finanziarizzazione spinta dell’economia, processo agevolato e favorito dai governi, dalle istituzioni politiche e dalle istituzioni economiche internazionali. A partire dagli anni 80 l’«equilibrio di forza» tra poteri politici ed economici nei paesi sviluppati muta totalmente a vantaggio dei secondi, anche per l’aperta collaborazione e «concessione» delle istituzioni politiche dei paesi occidentali (non solo il repubblicano Regan e la conservatrice Tatcher, ma anche il cristiano-democratico Kohl e i socialisti Mitterand, Jacques Delors e Craxi), che consentono la deregolazione («liberalizzazione») del movimento dei capitali e la ricerca di nuove forme di profitto: un profitto da «estrazione di valore» .
A questo scopo si costituisce, a partire da quegli anni con una progressione geometrica gigantesca, un sistema finanziario tripartito in : 1) la centralità del ruolo delle banche – sempre più liberate dall’obbligo della separazione tra la funzione di banca di depositi e prestiti e banca d’ investimenti fuori dal bilancio–; 2) la costituzione di un sistema di finanza «ombra» – un gigantesco volume di transazioni finanziarie attuate al di fuori dei bilanci, («gli attivi») delle banche e al di fuori dei mercati regolati delle borse azionistiche –; 3) lo sviluppo esponenziale della dimensione degli investitori istituzionali – fondi pensione, fondi d’investimento comune, compagnie assicurative – assurti nel giro di vent’anni al ruolo di vera e propria potenza economica capace d’influenzare in modo determinante il governo delle imprese.
1) Per quanto riguarda il sistema bancario le tradizionali attività di deposito e prestito a imprese e famiglie è rapidamente declinato a favore delle attività fuori bilancio (gli attivi delle 18 maggiori banche statunitensi formati da prestiti commerciali e industriali si sono ridotti dal 20,6% del 1992 al 10,9 del 2008); corrispondentemente, sul totale degli strumenti creditizi utilizzati dalle imprese, la quota dei prestiti è scesa dal 26% del 1985 al 10% del 2005 (nonostante l’ipersviluppo dei mercati finanziari, oggi le imprese si finanziano prevalentemente attraverso diversi strumenti sul mercato del credito e dell’autofinanziamento, ossia trattenendo per sé i profitti). Nello stesso periodo le banche hanno accresciuto di sei volte il reddito totale dovuto ad attività fuori bilancio: commissioni, plusvalenze del commercio di titoli (derivati finanziari), margini ritagliati da operazioni di fusioni e acquisizioni d’ imprese. Per l’insieme delle banche il reddito da attività fuori bilancio non costituito da interessi è salito dal 7% del 1980 al 44% del 2007.Queste attività prevalenti sono state condotte dalle banche sia per conto proprio sia in nome di imprese e grandi patrimoni. Inoltre negli Stati Uniti (l’unico paese di cui si hanno dati ufficiali) negli ultimi vent’anni si è realizzata una massiccia concentrazione del capitale in pochi grandi gruppi nel settore bancario. Massicce ondate di acquisizioni e fusioni tra banche hanno ridotto il numero degli istituti finanziari dai 14.000 del 1992 ai 7.000 del 2008, e gli attivi delle prime 18 banche statunitensi sono passati in quegli anni dal 23% al 60% del totale. E’ presumibile sia avvenuto un analogo processo per le banche europee.
2) Abbiamo visto la scorsa volta come il sistema della finanza ombra si sia sviluppato su un mercato di derivati finanziari principalmente incentrato sulla «cartolarizzazione» immessa sul mercato di compravendita di titoli, (Collaterated Debt Obbligations, titolarizzazione di prestiti/debiti delle banche per mezzo della costituzione ad hoc di società veicolo – Siv – fuori bilancio) e attraverso il parallelo sviluppo della compravendita di certificati di protezione dal rischio d’insolvenza del credito, Credit Default Swaps, mercato di derivati finanziari che nel primo decennio del duemila ha raggiunto un valore nominale complessivo della spaventosa cifra di centinaia di migliaia di miliardi di dollari. Accanto a queste forme di speculazione finanziaria risaltano le cosiddette operazioni di «arbitraggio», di compravendita di titoli e divise (monete) acquistati su una piazza in cui il loro prezzo è minore, per rivenderli immediatamente dove il prezzo risulta anche di poco maggiore.
Le operazioni tecnico-finanziarie di questo modello definito «capitalismo di arbitraggio» sono rese possibili dalla tecnologia di ultima generazione HFT – high-frequency trading – computers dotati di una potenza e velocità di calcolo delle transazioni finanziarie incomparabilmente superiori alla mente umana, per cui le operazioni vengono svolte in microsecondi, escludendo dal sistema la capacità mentale intuitiva dell’essere umano, «non abbastanza veloce». Il mercato non lo fa più il trader con l’intuizione migliore ma quello dotato del computer più veloce. Ogni sistema di HFT costa milioni di dollari e tutto va in automatico, svolgendo in millesimi di secondo l’equivalente delle operazioni di un centinaio di trader in attività ventiquattro ore al giorno. La macchina decide da sola cosa fare, cosa comprare e cosa vendere, «legge» ogni lancio di agenzia di notizie finanziarie, politiche ed economiche da tutto il mondo e agisce di conseguenza. Questi sistemi informatici partecipano ai mercati europei e ai loro movimenti per una percentuale che oscilla tra il 55% e il 65% del loro totale, immersi in una liquidità giornaliera di oltre 5 mila miliardi di dollari, in forma totalmente anonima sui circuiti off-limits OTC. Questo genere di compravendita, di titoli e divise a brevissimo termine per fini speculativi grazie a queste tecnologie permette di realizzare guadagni unitari magari minimi, ma che, ripetendo queste operazioni migliaia di volte al giorno, presi nella loro totalità si trasformano in guadagni molto elevati.
La cartolarizzazione di debiti/ crediti, la certificazione «assicurativa» dal rischio d’insolvenza del credito, le operazioni di «arbitraggio» HFT, e il «leveraggio», ossia il rapporto sempre più sproporzionato consentito dai derivati tra la percentuale minima di depositi di riserva obbligatoriamente tenuti dalle banche nei loro bilanci e le somme date a credito, sono le forme principali con cui gli enti finanziari (a cui il tradizionale nome di «banche» fa torto per difetto) «creano denaro dal nulla». Infatti in queste transazioni il denaro comincia ad esistere solo dal momento in cui viene iscritto (su un computer) dalla banca su un conto il cui intestatario potrà prelevare fino a una somma predeterminata. E’ la concessione di credito (prestiti, mutui, scoperti di conto corrente a individui, famiglie, imprese, enti pubblici, altre banche) che origina la stragrande maggioranza dei depositi bancari e non viceversa, come usualmente si crede. Questo per le banche private.
Le banche centrali invece, se da una parte hanno da sempre la prerogativa esclusiva di stampare o coniare monete e banconote «reali», dall’altra parte «creano denaro dal nulla» prevalentemente acquistando titoli di stato (i Bot), da un istituto autorizzato alla loro vendita, con la seguente procedura: la Banca centrale accredita sul conto di una Banca di deposito, indicata dall’istituto venditore, una somma (ad es. 200.000 euro) finalizzata all’acquisto dei Bot; la banca di deposito accredita sul conto corrente dell’Istituto venditore dei titoli la somma indicata e in questo modo 200.000 euro che prima non esistevano entrano nel sistema bancario e da qui nel sistema economico. Dato poi che in questo caso il prestito figura nel bilancio della banca di deposito come un attivo, essa avendo accresciuto i suoi attivi di 200.000 euro, può ora concedere , detratta la somma di deposito di riserva di 16.000 euro (l’8% obbligatorio), fino a 184.000 euro di nuovi prestiti o crediti, con un meccanismo moltiplicatore della somma iniziale. Le banche centrali dovrebbero regolare e «calmierare» la massa monetaria in circolazione e impedire che le banche private creino denaro senza limiti attraverso il tasso di sconto (tasso d’interesse anticipato applicabile alle banche che prendono denaro in prestito) e attraverso l’obbligo della quota di capitale da tenere come riserva o patrimonio di vigilanza. Ma ciò non accade più per due motivi: 1) il sistema finanza ombra è sfuggito completamente al controllo e alla comprensione delle stesse banche centrali; 2) sono le stesse banche centrali che hanno contribuito alla crescita sproporzionata della massa monetaria dando un forte impulso all’indebitamento delle famiglie, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, alla creazione della cosiddetta «rete del debito». Se la creazione di denaro dal nulla da parte delle banche svolge da sempre una funzione positiva per lo sviluppo di un’economia produttiva, permettendo a famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni di compiere investimenti che altrimenti non sarebbero in grado di fare, la perversione e lo squilibrio di questo meccanismo creano invece effetti devastanti, come si è constatato in questi anni.
3) Il terzo pilastro della costruzione del sistema estrattivo di valore del capitalismo finanziario che è emerso negli ultimi vent’anni sono gli investitori istituzionali (fondi d’investimento comuni, fondi d’investimento pensione, polizze assicurative) che al pari delle banche hanno realizzato una massiccia concentrazione di capitale in pochi grandi gruppi. Un ristretto numero di investitori istituzionali hanno assorbito quattro quinti delle somme destinate da decine di milioni di famiglie all’acquisto in proprio di azioni, obbligazioni e altri titoli (nel 2007 i primi trecento fondi pensione del mondo su 30.000 avevano il 60% del capitale del settore, 12 trilioni di dollari su 17,5). Le grandi banche sono state spinte dalla concorrenza degli investitori istituzionali a creare esse stesse grandi gruppi di fondi d’investimento – da alcune decine ad alcune centinaia di fondi relativamente alle maggiori banche statunitensi ed europee – e inoltre oggi molte banche gestiscono fondi pensione per conto dei sindacati e altre associazioni. Sempre nel 2007 i primi dieci enti finanziari del mondo – tra cui cinque banche – avevano in bilancio oltre la metà dei capitali dei fondi d’investimento (13 trilioni di dollari su 26). Questa poderosa concentrazione tra capitale finanziario e la gigantesca mole di capitali gestiti, tra fondi pensione e fondi d’investimento, fa degli investitori istituzionali gli intermediari universali nell’impiego del risparmio,impiego su cui i risparmiatori/investitori non hanno alcun potere d’indirizzo né alcuna conoscenza sulla sua destinazione.
Se nel 1990 il totale degli attivi finanziari gestiti dagli investitori istituzionali di Usa, Francia, Germania e Regno Unito era di 9,1 trilioni di dollari, nel 2007 era giunto a 60 trilioni di dollari, un capitale superiore all’intero Pil mondiale di quell’anno, e inoltre detenevano oltre il 50% del capitale delle società quotate in borsa. E’ evidente che oltre che intermediari universali nella gestione del risparmio, gli investitori istituzionali hanno assunto il ruolo di nuovi proprietari universali, si sono trasformati in una potenza economica di cui non vi è grande impresa o corporation che possa ignorare le sue strategie d’investimento.
La pressione degli investitori istituzionali (dietro di cui ci sono le grandi banche) che richiedono un rendimento sul capitale investito in azioni dell’impresa in questione del 15% mentre l’economia mediamente, in tempi di congiuntura favorevole, cresce cinque o sei volte di meno, e il fatto che le operazioni finanziarie rendono assai di più delle attività produttive, modellano il comportamento delle grandi imprese. Le operazioni finanziarie acquistano sempre maggiore spazio nella organizzazione e nella priorità di gestione delle grandi imprese, a danno delle attività produttive. Gli alti dirigenti delle imprese non possono più evitare di assumere come criteri di riferimento la quotazione in borsa e la massimizzazione del valore per gli azionisti. Le imprese vengono acquistate, smembrate, svendute a pezzi al fine prevalente di estrarne valore. Sono cadute vittima di questo imperativo categorico di estrazione del valore gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’introduzione di nuove tecnologie, il rinnovo degli impianti, così come il livello dei salari e le condizioni di lavoro.
L’edificazione in qualche decennio di tale architettura complessiva dell’economia, finalizzata alla «riscossa» dei profitti capitalistici, alla massimizzazione del profitto, ha sperimentato sul campo un gigantesco meccanismo di estrazione di valore dall’uomo e dalla natura, con una estensione che progressivamente non ha lasciato al suo esterno nessun ambito della vita individuale, collettiva o dell’ambiente naturale. La presa di coscienza di tale «megamacchina» non consente più di accettare, né in modo ingenuo, né sotto forma di metafora, la trasformazione immaginaria dei mercati finanziari e dei loro «protagonisti» in una persona dotata di sentimenti, di ragionevolezza – in un «assennato e oculato padre di famiglia» – se non nei termini psicopatologici precedentemente indicati. Ma l’acquisizione di piena consapevolezza richiede la conoscenza di dettaglio dei modi di estrazione di valore dall’uomo e dalla natura. Ed è questo il prossimo passo che dovremo compiere.