Legge di natura del capitalismo finanziario. Parte terza: l’estrazione di valore dalla natura

per nicola
Autore originale del testo: Nicola Boidi

di Nicola Boidi

«La guerra al pianeta e alle popolazioni nasce nella mente degli uomini di potere». (Vandana Shiva)

Quello che ormai avremmo dovuto imparare a chiamare non più capitalismo finanziario ma bensì capitalismo « finanziarizzato» – non più una varietà del capitalismo accanto alle altre, un capitalismo della speculazione finanziaria accanto a quello produttivista, dell’«economia reale», ma un unico totalitario processo di ibridazione tra finanza e industria, tra finanza e agricoltura, tra finanza e settore terziario del commercio, della grande distribuzione e dei servizi, mediato dallo sviluppo avanzato della tecnologia dell’informazione ,della comunicazione e dei trasporti – non poteva mancare di applicare la sua massima di« estrazione di valore», di massimizzazione del profitto, all’altro polo della relazione costitutiva della storia umana: la natura o il mondo naturale.

Il concetto di « natura» si presenta come inevitabilmente mediato e stratificato ai concetti di storia e società umana da millenni, ma è solo da un paio di secoli o poco più – con la nascita della rivoluzione industriale – che la natura naturans («la produzione originaria della vita» secondo l’etimo del termine greco antico physis) è diventata progressivamente sempre di più natura naturata, «natura ricreata» o rigenerata dal processo di produzione dell’uomo. Quando nella Critica al programma di Ghota del 1875 (programma della socialdemocrazia e del partito operaio tedeschi) Karl Marx contesta l’affermazione, insita nel programma, che l’unica fonte di ricchezza dell’umanità sia data dal lavoro e osserva invece che la natura è un valore o ricchezza di per sé, indipendentemente dalla sua elaborazione, a cominciare dalla natura umana, mette in luce due temi: che la valorizzazione della produttività e dell’attività lavorativa « purchesia» sotto il regime del valore di scambio sul libero mercato dell’offerta e della domanda dell’economia capitalistica è una mistificazione che risponde a una metafisica e a una morale del concetto di lavoro nella società borghese; collegato al primo tema, che la natura è l’altro ineludibile e insopprimibile della specie vivente uomo e della sua storia.

Ugualmente quando il fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud, almeno nella «linea principale» della sua dottrina, afferma che nell’inconscio profondo di ogni individuo agisce un’indomabile ragione biologica guidata dal principio dell’autoconservazione dell’individuo in nome della specie (un principio che si manifesta sotto forma di pulsioni libidiche, di energia sessuale primigenia che detta all’individuo la sua soddisfazione sotto un regime «omeostatico» del « principio di piacere » proprio in nome dell’eredità biologica della riproduzione della specie e della difesa della prole) rivendica i diritti di una natura che la cultura non può raggiungere e che, a sua volta, si riserva il diritto di giudicare, resistere e modificare la cultura (o per meglio dire di addivenire ad un compromesso con la cultura sotto un altro regime, quello del«principio di realtà», come emerge in Il disagio della civiltà).

Marx rivolge la sua attenzione a un concetto più generale,«oggettivo», di natura; Freud invece a un concetto più specifico,dell’«interiorità profonda» dell’individuo, di natura, a una natura «soggettiva». Nè Marx nella seconda metà dell’ottocento, né Freud nella prima metà del novecento, potevano prevedere che entrambi i modelli – la natura come mondo-ambiente, e la natura come «istinto primordiale di autoconservazione dell’individuo in nome della specie umana» potessero essere messi in forse nell’aprirsi del proscenio del nuovo secolo e del nuovo millennio, che il ventunesimo secolo nel suo orizzonte a breve-medio termine disegnasse la potenzialità/minaccia di una mutazione dell’antropologia umana, di un essere umano«post-umano», insieme a uno sconvolgimento irreversibile del clima, del mondo animale e vegetale (l’estinzione di migliaia di specie animali e vegetali), l’esaurimento delle risorse primarie essenziali per l’uomo dell’aria, dell’acqua e del cibo, delle risorse energetiche fossili, petrolio, gas e carbone.

Il futuro a breve-medio termine prospetta il problema assai probabile di un«disagio nella natura», (come sottolinea il filosofo Slavoj Zizek) tanto oggettiva che soggettiva, ormai prioritario rispetto al«semplice» «disagio nella cultura» di cui ci parlava Freud. Un disagio determinato dal convergere degenerativo dei processi storici e dei processi naturali in un milieu in cui «l’umanità», almeno come si era conosciuta e, parzialmente perseguita, come ideale, per alcuni millenni di storia, e la «natura» come eden terrestre o viceversa come wilderness (natura selvaggia, primigenia, incontaminata), altrettanto idealizzata, rischiano di essere superati e inghiottiti.

Ma come si traduce, sotto il regime della «legge di natura» del capitalismo finanziarizzato (l’ultimo stadio possibile di sviluppo del capitalismo?), l’estrazione di valore dalla natura-ambiente? Potremmo dire che esiste un processo indiretto di estrazione di valore dalla natura che regimenta e modella sulla sua logica il processo di «estrazione diretta». L’estrazione indiretta è chiaramente la logica della quotazione sul mercato borsistico ed extraborsistico, a cui tutte le maggiori imprese di tutti i settori dell’economia sono subordinati (ricordiamo che gli investitori istituzionali – fondi d’investimento comune e compagnie assicurative sovente eterodirette da grandi banche, e fondi d’investimento pensione – detengono il 55 % delle azioni di tutte le società e imprese quotate in borsa) logica secondo cui un ‘impresa di qualsivoglia settore produttivo, e il suo management, è obbligata innanzitutto a rispondere alle esigenze e richieste degli azionisti di maggioranza, per cui deve : 1) massimizzare il valore facendo salire la quotazione delle azioni; 2) ottenere un elevato rendimento a breve termine del capitale di proprietà degli azionisti; 3) implementare i dividendi e le plusvalenze distribuite tra gli azionisti.

A questa logica si conforma l’estrazione «diretta» di valore dalla natura. Letteralmente nel caso delle industrie di estrazione, distribuzione e trasporto di energia da combustibili fossili (petrolio, gas naturale e carbone). Ne è esempio paradigmatico la recente affermazione di un nuovo metodo di estrazione del petrolio o del gas naturale dalle profondità del sottosuolo: i cosiddetti shale gas, shale oil, tight oil, o tar sands (idrocarburi « non convenzionali»). E’ noto da tempo che la trivellazione verticale del sottosuolo terrestre o dei fondali marini nei pozzi o nelle piattaforme petrolifere, nei giacimenti di gas naturale, o lo scavo del carbone dalle vette delle montagne o in miniere a cielo aperto, comportano tutta una serie di impatti ambientali negativi, di violenze perpetrate nei confronti della natura. Esse vanno dall’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera – l’anidride carbonica, CO2 , principale imputata del riscaldamento globale – al rilascio di anidride solforosa (SO2) responsabile del fenomeno delle piogge acide, alla produzione di altri inquinanti atmosferici quali gli ossidi di azoto, il biossido di zolfo, i composti organici volatili e i metalli pesanti. La combustione di carbone da parte sua produce grandi quantità di materiali radioattivi – uranio e torio – oltre a ceneri pesanti e ceneri volanti. L’estrazione dalle piattaforme petrolifere mette a rischio gli organismi acquatici. Anche il trasporto del carbone e del petrolio ha il suo costo ambientale. Per non parlare dell’effetto inquinamento dei prodotti petroliferi quali ad esempio il rilascio delle plastiche nei corsi d’acqua e da qui nei mari e negli oceani, destinate a costituire vere e proprie isole «continentali» al centro degli oceani con conseguenze mortali sull’habitat marino.

La prospettiva del possibile raggiungimento a breve del « picco» di estrazione di petrolio e gas (ossia il superamento della metà dei giacimenti esistenti sul pianeta) e quindi la necessità di guardare alla prospettiva futura di un esaurimento delle scorte di energie non rinnovabili, invece d’incrementare la progettazione e la produzione di macchinari per l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, (il cui sviluppo complessivo procede ancora molto lentamente) ha spinto le industrie petrolifere e gassifere a ricercare quei nuovi metodi di estrazione di combustibili fossili da giacimenti « non convenzionali». I giacimenti non convenzionali ad esempio sono costituiti da strati di rocce poco porose poste ad alta profondità («scisti») che intrappolano il gas naturale (il shale gas).

Per la sua estrazione si utilizza il metodo del fracking («fratturazione del sottosuolo») che alla tecnica tradizionale di trivellazione di un pozzo verticale assomma la progressiva deviazione della trivella in direzione orizzontale rispetto al piano del terreno, finchè non raggiunge lo strato roccioso , lo fa esplodere con cariche di esplosivo nel canale scavato, si producono grosse fratture all’interno del giacimento roccioso e infine si pompano acqua, sabbia e agenti chimici per produrre ulteriori microfratture all’interno dello scisto e si libera il gas che esso contiene. Una procedura ripetuta più volte facendo procedere a passo di gambero la trivella, facendo più esplosioni e più pompaggi per ogni condotto. E, dalla trivellazione verticale, si procede a fare altre deviazioni orizzontali in modo da fratturare il più possibile la roccia. In questo modo, da un solo pozzo visibile in superficie, si possono realizzare anche dieci vie d’uscita per il gas, ognuna delle quali comporta varie cariche di esplosivo e conseguente pompaggio del fluido. Gli effetti nocivi contemplati di tale tecnica di estrazione possono andare dalla fratturazione del sottosuolo che può creare instabilità (addirittura scosse telluriche di non elevata intensità), allo sprigionamento di quel 0,5 %. delle sostanze pompate nel sedimento roccioso, un mix di sostanze chimiche tra cui alcune potenzialmente nocive alla salute umana. Una possibile conseguenza molto grave di questa tecnologia è la contaminazione tra gas e falde acquifere attraversate nella prima fase di discesa verticale della trivellazione, contaminazione dovuta al fatto che il gas una volta liberato, «naturalmente » procede in verticale e non in orizzontale e può incontrare una falda acquifera di profondità o di superficie. Nelle centinaia di pozzi di gas di scisto scavati in questi ultimi anni negli Stati Uniti le fughe di gas metano e le sue contaminazioni con l’acqua sono state molto frequenti.

Non diversamente «problematiche» si presentano le produzioni di petrolio «non convenzionale» , shale oil, tight oil o tar sands. Nel caso dello shale oil si estrae petrolio dal cherogene , un mix di sostanze organiche depositatosi nel sottosuolo in milioni di anni, che contiene idrocarburi liquidi o gassosi. Ma presentandosi abitualmente il cherogene allo stato solido o compatto, l’estrazione di petrolio richiede complesse procedure chimiche – dallo scisto cherogene, si produce bitume, dal bitume petrolio pesante – che si realizzano solo in raffineria, con conseguenze ambientali pesanti. Il tight oil , da parte sua, è l’estrazione di petrolio da rocce o argilla con un metodo molto simile al fracking dello shale gas. Infine le tar sands sono sabbie di superficie impregnate di petrolio misto ad acqua e argilla( il«petrolio bituminoso»). Se ne ricava un petrolio molto denso, viscoso e di scarsa qualità, che richiede per la sua estrazione dalla sabbia un complesso procedimento chimico-meccanico.

Gli idrocarburi «non convenzionali» comportano in generale complesse operazioni e costi economici (oltre a quelli ambientali) di estrazione molto elevati senza avere la sicurezza della resa del prodotto finale ; evidentemente però la novità dei procedimenti, la prospettiva, sia pure incerta, di compensare la minaccia futura di un esaurimento degli idrocarburi tradizionali, crea fiducia e stima da parte dei mercati finanziari con la conseguente crescita a breve, se non brevissimo termine, delle quotazioni in borsa delle azioni delle società estrattive e tutto ciò che ne consegue. Questo naturalmente a detrimento dell’incentivazione allo sviluppo delle energie alternative rinnovabili.

Analoga logica di «valorizzazione» economica della natura è osservabile nel caso dell’abbattimento di foreste, pluviali e altre, per la produzione di legname industriale e per la «liberazione» di ampie aree messe disposizione di monocolture estensive, o nell’imbrigliamento di acque fluviali in bacini artificiali mediante dighe che modificano radicalmente gli ecosistemi e gli insediamenti umani a valle. La deforestazione, se può comportare un ricavo immediato e temporaneo per metro cubo di foresta abbattuto, è però assolutamente sproporzionata, infinitamente inferiore rispetto all’eliminazione definitiva e permanente dei numerosi e complessi servizi che la foresta offriva; anche escludendo le considerazioni di carattere estetico-paesaggistico, e rimanendo a un ragionamento economico strictu sensu, si osserva che le funzioni di assorbimento di diverse tonnellate di ossido di carbonio per chilometro quadrato di foresta in cambio del rilascio di diverse tonnellate di ossigeno, una volta eliminate definitivamente, per essere «ricostruite artificialmente», industrialmente, sono operazioni di cui si è calcolato un costo finanziario enormemente superiore al ricavo che si ottiene dalla distruzione di quell’area di foresta. Analogo ragionamento vale per l’irreggimentazione e incanalamento dei corsi fluviali: il ricavo da dighe e cementificazione selvaggia del territorio di bacino dei fiumi e dei loro affluenti è sproporzionatamente inferiore ai costi che, per gli effetti di alluvionamento e disgregazione idrogeologica del territorio, sarebbero richiesti per porvi rimedio (oltre al tributo di vite umane e di insediamenti abitativi che i fenomeni esondativi sempre più esigono, come ben sappiamo per l’ Italia).

La morale di tutti questi casi di«valorizzazione delle risorse naturali» è il paradosso che la creazione temporanea di ricchezza finanziaria è in realtà surclassata dalla distruzione permanente della ricchezza ecologica del pianeta. Vi è un’ evidente correlazione (misurata da tempo) tra la crescita del Pil e l’aumento del capitale azionario e la contemporanea erosione del capitale vivente sotto forma di degrado ambientale e distruzione di risorse non rinnovabili.  Ma se nel caso dell’ ambiente naturale una mobilitazione e diffusione di pensiero e sensibilità ecologista sono riuscite fin’ora a opporre, a macchie di leopardo nelle diverse aree del pianeta, una certa attività di contrasto alle mire estrattive del sistema economico, vi è un ambito in cui l’estrazione di valore dalla natura ha potuto affermarsi in maniera incontrastata, ed è quello della forma più antica e primordiale di «scambio organico dell’uomo con la natura per la conservazione della propria specie», come direbbe Marx: le attività economiche primarie dell’uomo dell’agricoltura e dell’allevamento, trasformate e perfezionate sempre di più, con l’impiego di tecnologie scientifiche e metodologie seriali, in industria agro-alimentare.

Ciò accade da ormai una ventina d’anni con: 1) la formazione di monopoli e oligopoli in settori strategici – la produzione di sementi a monte, il mercato degli alimenti primari in mezzo e la distribuzione di prodotti alimentari a valle; 2) l’industrializzazione dell’agricoltura con la trasformazione industriale degli alimenti da un lato e la subordinazione a contratto degli agricoltori rimasti formalmente indipendenti; 3) l’acquisto su grande scala e la gestione diretta, da parte delle corporation già in possesso del controllo del mercato degli alimenti di base o comunque strettamente collegate ad esso, di terreni agricoli.

Il sistema del capitalismo finanziario ha contributo a questo orientamento dell’agro-alimentare con il suo sostegno massiccio e diretto, attraverso la spinta determinante a un’intensa attività di fusione e acquisizione di aziende concorrenti del settore, non diversamente da ciò che accade negli altri comparti dell’economia. Monopoli e oligopoli si sono così formati nel mercato globale delle sementi, di cui la metà esatta è proprietà di dieci corporation: tre americane (Monsanto, Dupont e Land O’ Lakers), che si spartiscono il 64 % della suddetta quota di mercato, cinque europee, (la svizzera Sygenta detiene la maggiore quota del gruppo, il 13 % ) e infine due giapponesi ( che assommano appena il 4 % della quota di mercato). Le corporation Monsanto, Dupont e Sygenta producono e commerciano su grande scala tanto sementi «naturali», in parte anch’esse assoggettabili a brevetto, in quanto prodotto di ibridazione o coltivazione e trattamenti speciali, che sementi geneticamente modificate (OGM).

Alla concentrazione nel settore delle sementi corrisponde un ‘uguale concentrazione nel commercio degli alimenti di base, negli allevamenti di bestiame, nella lavorazione e nella distribuzione di generi alimentari. Esempi di concentrazione monopolistica intervenuta lungo tutta la filiera del sistema agroalimentare sono le società Archers Daniels, Midland e Cargill , le quali, se da una parte,insieme alla società Blunge, detengono l’ 85% del mercato delle granaglie (dunque di alimenti di base), sono anche presenti tra i 10 maggiori produttori di alimenti confezionati e bevande, (che gli forniscono rispettivamente il 55% e il 30% dei loro ricavi). Ugualmente queste due società, accanto ad altre, si sono spinte fino allo stadio della catena agroalimentare di acquisizione, controllo e sviluppo di fattorie organizzate come stabilimenti agro-industriali. Hanno inoltre stipulato con centinaia di migliaia di agricoltori dei contratti di fornitura estremamente rigidi, che impongono i generi, la quantità, la qualità, i prezzi e i tempi di consegna dei prodotti da fornire, oltre che i termini di pagamento. I tempi di consegna sono generalmente strettissimi, i pagamenti ampiamente dilazionati. Le fattorie che aderiscono a questo regime di contratti sono di fatto trasformate in succursali degli stabilimenti agro-industriali maggiori (la svizzera Nestlè, gigante degli alimenti confezionati e delle bevande, che ha 280.000 dipendenti nel mondo, ha anche oltre 600.000 agricoltori sotto contratto).

Metà dei suini, metà dei bovini e due terzi del pollame del mondo, sono allevati e macellati da agrostabilimenti industriali gestiti da megacorporation (con animali per la maggior parte tenuti in condizione da lager, alla catena, senza spazio di movimento, ingrassati con alimenti di dubbia genuinità, con una alimentazione finalizzata all’ingrossamento di organi e muscoli in vista della loro«trasformazione» in alimenti confezionati). La concentrazione e l’integrazione verticale delle società dell’agroalimentare vede inoltre l’acquisizione di immense superfici agricole in ogni parte del mondo, destinate a monocolture estensive (in Africa circa 15 milioni di ettari sono stati acquistati negli ultimi anni da società e fondi d’investimento, privati e sovrani, cinesi, americani, britannici, arabi e indiani). In Argentina 2,4 milioni di ettari sono proprietà di appena 30 società, in Ucraina 25 società controllano 3 milioni di ettari. Questa nuova forma di« latifondismo » messa in opera dalle corporation in quattro continenti ha espropriato e scacciato le popolazioni contadine, con indennità nella maggior parte dei casi irrisorie, se non addirittura con la forza (e con l’aiuto dei governi nazionali). Appena il 5 % di queste popolazioni è stata trasformato in operai dell’industria agroalimentare. Un ‘altra piccola quota ha trovato occupazione nell’industria manifatturiera dei paesi emergenti o nell’economia «informale» . La stragrande maggioranza è andata a ingrossare le fila degli abitanti degli slums e delle baraccopoli delle megalopoli del mondo.

Anche in fondo alla catena dell’industria agro-alimentare, allo stadio della grande distribuzione, la concentrazione dei venditori è pari a quella dei produttori e dei mercanti. La distribuzione di alimentari vede infatti le prime 100 ditte spartirsi il 35 % del mercato mondiale; di questa quota ben il 40% è posseduto da 10 ditte (il numero uno è l’americana Wall-Mart, ma in classifica è seguita immediatamente da 8 società di paesi europei, tra cui la francese Carrefour e la tedesca Edeka). L’«industrio-finanziarizzazione» dell’agricoltura, con il passaggio obbligato a vastissime monocolture estensive ha distrutto gran parte della agricoltura tradizionale basata sulla piccola azienda pluricolturale (per trattenere sulla terra i contadini ci sarebbe voluta la politica economica inversa della fornitura di tecnologie adatte e la facilitazione dell’accesso ai mercati di queste piccole aziende).

Le conseguenze evidenti sono: la riduzione della biodiversità delle piante alimentari; la distruzione di innumerevoli mercati locali africani, asiatici e americolatini; l’aumento smisurato della sproporzione tra i prezzi pagati ai piccoli produttori rimasti e i prezzi pagati dai consumatori; la destinazione di decine di milioni di ettari di terreno alla produzione di biocarburanti (un quarto della produzione annua di mais e di grano degli Stati Uniti). La maggior parte degli alimenti prodotti dalle corporation percorrono in media tra i 2500 e i 4.000 km su tir, navi e arei, con i costi di cementificazione e inquinamento del pianeta facilmente intuibili. Questa industrializzazione estensiva dell’agricoltura da parte delle corporations non ha portato vantaggi neanche alla situazione dell’alimentazione a livello planetario: al miliardo di individui sottonutriti stimati nel 2007, se ne sono aggiunti in questi anni di recessione mondiale almeno altri 2 miliardi che non ricevono una quantità adeguata di nutrimento, necessaria per una vita sana e longeva.

Al termine di questa peregrinazione nel capitalismo finanziario in quattro tappe che ci ha portato dalla «mappatura» del nuovo regime planetario della finanza, alla genealogia del suo processo di costituzione e di perfezionamento del suo meccanismo, all’applicazione onnicomprensiva della sua legge di «natura» dell’estrazione di valore all’uomo e alla natura, una domanda rimane sospesa nell’aria, una domanda che aleggiava in modo spettrale man man che ci si sprofondava nell’analisi di questi processi: il capitalismo finanziario è civilizzabile (umanizzabile) ? La non semplice risposta a questo angoscioso interrogativo è il compito che ci attende.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

2 commenti

Carlo 6 Dicembre 2014 - 19:33

Gran bell’articolo, molto interessante e da condividere specialmente con chi lavora, o ha lavorato, in almeno uno dei tantissimi settori toccati qui (agroalimentare, nel mio caso passato). E’ importante rendersi conto di questo quadro generale del campo di battaglia perché i ritmi odierni di lavoro ci rendono oggettivamente ciechi e sordi.

Complimenti ancora, non molliamo.

Carlo

Rispondi
nicola 7 Dicembre 2014 - 11:33

Ti ringrazio Carlo, il fatto è che lo stadio speculativo-finanziario del capitalismo attuale è un processo totalitario che non lascia intoccato nessun ambito della vita umana e della natura, ormai tra di loro strettamente accomunate nel loro destino, e oltre le devastazioni economiche , sociali,ambientali, sanitarie che questo processo comporta, la minaccia molto tangibile è anche di natura culturale.
Come l’attuale capitalismo non ha necessità di vincolarsi a regimi politici democratici, che anzi si dimostrano obsoleti e d’intralcio alle sue logiche interne, contrariamente all’ideologia propinataci dai cultori del neoliberismo, viceversa è funzionale al suo sistema che l’individuo perda la capacità di giudizio critico, di presa di distanza da una tale mostruosità, di condanna nei suoi confronti, che insomma non sia più quel soggetto “autocosciente”, che la modernità illuministica ci aveva proposto come ideale di compimento dell’essere umano.
Questo per mille motivi: perchè siamo presi nelle dinamiche lavorative ( o del dramma della disoccupazione) , perchè siamo bombardati, manipolati e imbrigliati dalla rete dei media o dallo sviluppo di modelli scientifici e culturali ( la cosidetta società della ” complessità”) che non ci permette la comprensione dell’insieme; e quando non siamo resi ciechi e inconsapevoli di fronte a questi processi spesso siamo rassegnati perchè ci pare di stare di fronte a un onnipotente forza della natura, a una ” legge di natura” appunto, al pari delle forze telluriche di un sisma, di un eruzione vulcanica o di uno tsunami.
Tutto ciò paralizza la nostra potenzialità, sempre presente allo stato latente, di pensiero e di azione; per questo ciò di cui scrivo trae ispirazione da tutti coloro che , nelle diverse discipline o saperi, non si rassegnano a questo stato di cose e alla sua legge fatale e cercano di dare un contributo al fine di tenere la coscienza vigile. A questi intellettuali e ” uomini di coscienza critica” va la mia profonda gratitudine.

Rispondi

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.