Fonte: Minima cardiniana
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di Franco Cardini – 25 novembre 2018
Una delle mie sotto-professioni semiufficiali è quella del recensore. Come tale, mi capita di tutto: specie sotto Natale. Quest’anno mi è arrivato un sacco di roba su un argomento che mi è molto congeniale: l’orientalismo. Vi propongo le mie indicazioni e le mie riflessioni al riguardo.
LIBRI SULL’ORIENTALISMO
Oriente: il luogo da cui sorge il sole; il paese del viaggio, dell’avventura, del mistero; il regno delle fiabe e al tempo stesso la caverna dalla quale sorgono i mostri. Qualcuno ha detto che gli occidentali sono ossessionati dall’oriente; sarebbe forse meglio affermare, semplicemente, che l’idea di oriente è uno degli elementi fondamentali per la costruzione dell’identità occidentale, effettiva o immaginaria che sia. Il fatto è che la nostra civiltà, nata sulle sponde del mediterraneo, sogna l’Oriente, se non da sempre, almeno fino dai tempi delle “guerre persiane” e poi di Alessandro Magno.
“Orientalismo” è il termine che nel mondo moderno e contemporaneo si è dato allo studio ma anche alla passione se non all’innamoramento-ossessione per l’oriente, con tutte le mistificazioni che ciò comporta e che peraltro hanno avuto spesso un esito almeno esteticamente e artisticamente parlando molto felice. Peraltro, gli “Orienti” sono ormai molteplici: quello arabo, quello turco, quello persiano, ma anche quello indiano e quelli cinese, giapponese sudest-asiatico. E, nonostante l’editoria sia in crisi, i titoli dei libri che avvicinandosi il periodo natalizio vengono pubblicati in impressionante numero e che parlano degli “Orienti” sono molti. Vale la pena di presentarne brevemente alcuni.
Tuttavia, il Mediterraneo era stato, fin dall’età antica, il centro nel quale tutte le culture del vecchio mondo si erano incontrate: perfino la cinese, dal momento che attraverso la Via terrestre “della seta” e quella oceanica “degli aromi” le merci e qualcosa della cultura di quei mondi lontani arrivava fino a noi.
Ma vi fu un momento nel quale fummo presi dalla voglia di andar direttamente a scoprire la fonte di quelle ricchezze e la sorgente delle meraviglie da cui si diceva scaturissero. Fu attorno al “lungo” XIII secolo, allorché i commerci e le crociate ci avevano posti in contatto con quei porti e con quegli empori (Costantinopoli già da secoli, ma al di là di essa Damasco e Alessandria) attraverso i quali l’Oriente c’inondava di spezie, di gemme, di sete pregiate. Erano i mediatori greci e arabi che stabilivano i prezzi di quelle merci tanto ambìte in Europa: perché non andar direttamente oltre, non oltrepassare quei filtri costosi, non giungere direttamente ai luoghi d’origine e di produzione di quelle ricchezze?
Dalle crociate ai viaggi in Asia
Il libro di Antonio Musarra, Il crepuscolo della crociata. L’Occidente e la perdita della Terrasanta (Bologna, Il Mulino, pp. 320, euri 24) ci fornisce di quel periodo un’insospettata e quasi incredibile, sconvolgente lettura. La conquista occidentale degli orizzonti dell’Asia tenne dietro non a una vittoria, bensì a una sconfitta cocente. La prima crociata, conclusasi nel 1099 con la conquista di Gerusalemme, aveva preluso alla fondazione di una monarchia feudale tra Mar di Levante e Giordano che della Città Santa aveva fatto la sua capitale. Ma si era trattato di un regno sempre in pericolo, minacciato quasi subito dalla controffensiva islamica e alla fine travolto. Tutte le crociate successive alla prima fallirono; intanto, dall’Asia profonda, l’orda dei mongoli guidati dai discendenti di Genghiz Khan giungeva a lambire la valle danubiana e quella del Reno. Insieme, giungevano in Europa nuove notizie sull’Asia e sulle sue genti. Si parlava perfino di opulenti regni cristiani oltre le montagne e i deserti. La Chiesa inviò a quella volta i propri ambasciatori e i propri missionari: ch’erano sovente dei mercanti e che viaggiavano con loro. Quando, nel 1291, l’ultima piazzaforte crociata, San Giovanni d’Acri (oggi Akko in Israele), cadde nelle mani dei sultani mamelucchi d’Egitto, quella che Roberto Sabatino Lopez aveva alcuni decenni or sono chiamata “odissea di mercanti” non si concluse affatto: anzi, cominciò. Musarra ci descrive in un libro dotto e avvincente l’Acri crociata del Duecento, contesa fra Templari e Ospitalieri, tra coloni veneziani e coloni genovesi: è la storia di una città ricca, colta, facinorosa, corrotta, con i cristiani che lottano ferocemente tra loro finché gli infedeli non li cacciano. Ma se con la fine del regno crociato quel movimento ch’era nato due secoli prima entrava in crisi, lo stesso non successe per gli uomini d’affari: al contrario, le vie terrestri cadute nelle mani dei sultani d’Egitto fiorirono di nuova vita. Quello che Musarra chiama con pittoresca efficacia “il crepuscolo della crociata” non fu per nulla un preludio a una oscura notte economica. Anzi, gli affari ripresero e, se i crociati erano stati espulsi, nessuno pensò nemmeno per un istante a cacciare i mercanti cristiani, che ai loro colleghi musulmani recavano le merci europee (guarda caso: soprattutto armi…) e che pagavano quelle che compravano coi bei fiorini d’oro di San Giovanni, coi bei ducati d’oro di San Marco. Sarà un caso, ma a proposito di “crepuscolo della crociata”, Antonio Musarra deve saperla proprio lunga. Eppure, viene da chiedersi, quanti “crepuscoli” (e quante successive albe) la crociata ha avuto? Non era essa, forse, ancora alla fine del XV secolo, l’alibi dell’ammiraglio Colombo nella sua ricerca tesa a buscar el Oriente para el Occidente? Ed ecco, difatti, ancora il giovane Musarra – diavolo d’un uomo – con un suo provocatorio Processo a Colombo. Scoperta o sterminio?, un libretto non poi così “-etto” (sono 253 pagine…) al quale tengo molto anche perché inaugura la collezione “Storia e Libertà” di una giovane e coraggiosa casa editrice: La Vela di Viareggio.
Il riferimento a Colombo non appaia pretestuoso. Alla fine del XV secolo era cominciata, difatti, almeno da un paio di secoli l’era dei viaggi e delle esplorazioni in Asia, dall’Arabia all’India fino in Cina (si pensi a Marco Polo e a Odorico da Pordenone); e nel Quattrocento si sarebbe giunti fino all’Africa orientale, quasi alle sorgenti del Nilo. Nel secolo successivo, mentre dall’altra parte del mondo aveva inizio l’epopea della conquista del Nuovo Mondo, ci si spinse ancora oltre sulla rotta dell’Oceano indiano.Anna Unali, illustre specialista di storia del commercio e della navigazione tra medioevo ed età moderna, che ci ha descritto in saggi memorabili le avventure mercantili tra i monsoni e le isole delle spezie, torna a conquistarci, adesso, con il saggio Damasco, La Mecca, Calicut. Il viaggio in Oriente di Ludovico de Varthema agente di Venezia ai primi del Cinquecento (Torino, L’Harmattan Italia, 2018, pp. 203, euri 27). Deciso a recarsi in India per via di mare, il de Varthema viaggiò verso Damasco, visitò pericolosamente la santa città della Mecca; quindi, attraverso lo Yemen e il temibile Oceano, giunse a Calicut in India. L’era coloniale era cominciata. Venezia si stava impegnando a battere i portoghesi, suoi concorrenti tra Africa e Asia. La Serenissima Repubblica di San Marco non ce la fece. Ma lasciò il testimone a inglesi e a olandesi. E, frattanto, sarebbero arrivati anche i gesuiti.
Etnìe e confessioni. Arabi, turchi, persiani, sunniti e sciiti
Quante sono state le crociate? Già Cesare Pavese, nei Dialoghi con Leucò,sottolineava ch’esse erano state ben più di sette. Altroché. Hanno avuto una primavera medievale, una calda estate cinque-seicentesca – da Lepanto 1571 a Vienna 1683 –, un autunno colonialista e ora stanno forse avendo un ambiguo inverno mediorientale, tra Balcani e Asia centrale. C’è perfino chi ne auspica una nuova primavere postmoderna. La crociata vera e propria, quella nata alla fine dell’XI secolo e che sembrava morta e sepolta con la caduta di Acri risorse a necessaria nuova vita di fronte a un nuovo pericolo musulmano. Se con gli arabi si trattava e si commerciava, con l’avanzare del Trecento, il Mediterraneo e l’Europa orientale furono sconvolti da un nemico che appariva invincibile: i turchi ottomani, che, nel 1453, avevano conquistato Costantinopoli e di là minacciavano le coste cristiane del Mediterraneo mentre incombevano sui Balcani. Fra Quattro e Settecento, l’Europa dovette fronteggiare il sultano d’Istanbul: non vennero mai meno, certo, né i rapporti commerciali né quelli diplomatici, ma gli uni e gli altri furono attraversati da momenti di duro conflitto. Come fermarli, dal momento che le cancellerie europee apparivano discorsi, anzi spesso ostili fra loro?
Non che mancassero le proposte, sotto forma di trattato tattico-strategico: anzi, ne esistono intere biblioteche. Ma, intanto, si batteva anche la via diplomatica, con esiti abbastanza discutibili sul piano degli accordi ma sovente eccellenti su quello letterario e addirittura antropologico: ché gli ambasciatori erano di solito scrittori abili, talora eccellenti. Lo riscontriamo in una molteplicità di testi, tra i quali, di recente, uno, che la benemerita fatica di Alessandro Gallotta ci consente adesso di consultare: la Relatione d’un viaggio fatto da Venezia in Costantinopoli (Firenze, Pahasar, pp. 125, euri 16), redatta dal gentiluomo vercellese Carlo Ranzo al seguito dell’ambasciatore veneziano Giacomo Soranzo tra 1575 e 1576. La missione diplomatica mirava a sondar gli umori del sultano Murad III all’indomani della battaglia di Lepanto (perduta dagli ottomani) ma anche della conquista di Cipro da parte turca. Carlo Rizzo, testimone curioso e spregiudicato, ci dà l’impressione di essere molto interessato ai turchi e di non essere per nulla animato nei loro riguardi da intenzioni bellicose. Sarebbe normale, nel compagno di un diplomatico incaricato di consolidare una fragile pace. Ma c’è qualcosa di più.
E il “qualcosa” ce lo racconta un altro libro, davvero bellissimo e sorprendente: Appello al Turco. I confini infranti del Rinascimento, di Giovanni Ricci (nuova Edizione, Roma, Viella, 2018, pp. 182, euri 20). L’età rinascimentale fu davvero un tempo di guerre durissime contro gli ottomani: noi euromediterranei guardiamo al nostro bel mare e pensiamo a Lepanto, ma ci sfuggono quasi del tutto le sciagure e le carneficine dell’area balcano-danubiana. Eppure, basta un’occhiata all’impressionante Le guerre turche in Ungheria 1551-1553 di Gizella Nemeth Papo e Adriano Papo (Trieste, luglio, 2018, pp. 372, euri 23, illustrato) per rendersi conto di quanto la lotta fosse dura. Eppure – sarà stata la paura, sarà stata la stanchezza, sarà stato il fascino che sempre i forti ispirano ai deboli quando sono vincitori –, se vasta era la pubblicistica diretta contro la barbarie, la crudeltà, la tirannia e la viziosità degli infedeli dal turbante e dalla mezzaluna, non meno forte (anche se magari talvolta meno evidente, meno esplicita quando non addirittura nascosta) era l’attrazione ch’essi ispiravano. L’Europa quattro-seicentesca era piena di gente che in un modo o nell’altro “tifava” per i turchi. Spesso per ragioni strategico-geopolitiche (“i nemici dei miei nemici sono miei amici”): così, ad esempio, la Francia di Francesco I e di Luigi XIV non poteva se non appoggiare, e nemmeno sempre di nascosto, la simpatia per i sultani che davano tanto filo da torcere all’impero asburgico e al regno di Spagna. Poi c’erano voci più interessanti e politicamente ancora più spregiudicate: tra esse, Ricci studia con particolare attenzione il caso celeberrimo dell’affascinante Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e mecenate dell’Alberti, e quello, fino a oggi oscuro fin quasi in casa sua, nella bella città marchigiana di Osimo, di un avventuriero e capitano di ventura che, verso la fine del Quattrocento, ne fu signore e che vagheggiò di unirsi al turco e di vederlo sbarcare in Italia: e che, pur non avendo mai rinnegato la fede cristiana, fu per questo maledetto da papa Innocenzo III.
Del resto, erano in tanti a sperare nel Turco. La sua immagine faceva paura, ma al tempo stesso affascinava l’idea che nell’impero ottomano anche un pastore o un marinaio avrebbero potuto diventare vizir o ammiraglio; e, accanto all’idea del turco massacratore e impalatore, cresceva anche quella del sovrano barbaro, crudele, ma giusto. Era, anzi, un’idea radicata: come dimostra lo storico del diritto Marco Cavina in un saggio denso e preciso, Maometto papa e imperatore (Roma-Bari, Laterza, 2018, pp. 165, euri 18), dopo la leggenda medievale secondo cui il profeta Maometto avrebbe voluto diventar papa e aveva fondato una nuova religione perché frustrato nelle sue speranze, quando l’altro Maometto, l’ottomano Mehmed II, s’impadronì di Costantinopoli, lo shock per la caduta della “Nuova Roma” fu tale da far nascere le dicerie e le leggende più improbabili. In fondo, se il sultano aveva conquistato la capitale dell’impero, non gli spettava forse il proclamarsi imperatore a sua volta? E, mentre il gran principe di Mosca assumeva dal canto suo il titolo di zar(“Cesare”), si sparse la notizia che l’ottomano si fosse segretamente convertito al cristianesimo e ambisse a divenire anche papa. Questo era il vero scopo della sua minaccia di conquistare anche Roma. Vi fu perfino chi pensò sul serio che fosse giunto il momento per fondere cristianesimo e Islam in una nuova pacifica religione universale…
D’altronde, poiché si è detto di cristiani che si alleavano con i musulmani o simpatizzavano con essi in odio ad altri cristiani, bisogna pur aggiungere che anche in casa dei fedeli del profeta Muhammad le cose non andavano, né continuano ad andare, troppo bene. Tra Cinque e Ottocento, il sultanato turco e l’impero degli shah di Persia non fecero che combattersi: e il secondo chiese spesso agli europei appoggio contro il primo. In quel caso, non c’erano solo problemi politici e geopolitici a determinare l’ostilità: in essa molto pesava l’antica fitna,la guerra interna tra le due confessioni musulmane: la sunnita (maggioritaria, e propria degli ottomani) e la sciita (cui erano guadagnati gli iraniani). Sappiamo che quella lotta dura ancora ai giorni nostri: è anzi una delle chiavi per comprendere la turbolenza del mondo musulmano e la stessa radice del terrorismo. Ce lo spiega con impietosa chiarezza uno dei libri più lucidi che negli ultimi anni siano mai stati scritti al riguardo e che va meditato con attenzione fino dal sottotitolo: Mezzaluna sciita. Dalla lotta al terrorismo alladifesa dei cristiani d’Oriente di Sebastiano Caputo (Gog, pp. 188, 14 euri). Un libro che davvero ci fa sentire, come dichiara l’Autore, «l’odore delle cose»: una lettura sconvolgente, dalla quale molti usciranno senza dubbio con le loro primitive idee a proposito dei musulmani, e del loro rapporto con le potenze orientali, del tutto stravolte. Dei molteplici volti dell’Islam, lo sciismoè quello che i media più a lungo ci hanno tenuto nascosto. Leggete: capirete perché.
L’Estremo Oriente; o meglio, il “Lontano Oriente”
È problematico da quando far iniziare l’orientalismo, a parte i suoi lontani prodromi che ci condurrebbero probabilmente al romanzo ellenistico. Ma, fra turqueries e chinoiseries, si direbbe proprio che fra tardo barocco e nascente illuminismo qualcosa di preciso al riguardo si configuri: quanto meno, l’Oriente al tempo stesso come “Altrove” e come “specchio magico” dell’Occidente (pensate all’Oriente allegorico-polemico delleLettres persanes di Montesquieu). D’altronde, se l’orientalismo è un po’ journal intime, un po’ sogno e un po’ “cattiva coscienza” di un Occidente europeo ormai diventato, con il colonialismo, padrone del mondo e delle sue risorse (è questa la tesi, di segno marxiano, di Edward Said), bisogna dire che le varie culture presenti nell’“Arcipelago Europa” lo hanno modellato a immagine e somiglianza di ciascuna di esse, cioè secondo la loro rispettiva esperienza storica. L’orientalismo spagnolo è siro-afro-andaluso, s’ispira agli umayyadi giunti nella penisola iberica nell’VIII secolo, alla costante prossimità con il Maghreb arabo-berbero, alla “nostalgia” di Granada e al dramma di marranos e di moriscos; quello francese si radica nelle memorie carolinge e crociate, è nordafricano-siriaco; quello inglese ha le sue scaturigini a sua volta nelle crociate (il Riccardo Cuor di Leone di Walter Scott), ma è soprattutto risucchiato dall’immenso, fantasmagorico scenario indiano; quello tedesco è fondamentalmente turco; quello russo è persiano-centroasiatico. La Cina e il Giappone restano un po’ capitoli a parte, il primo segnato dalla lettura illuministica e entrambi dall’esperienza gesuitica. Si noterà, in tutto ciò, una presenza indiana un po’ troppo leggera (Inghilterra a parte), vista la straordinaria importanza di quel subcontinente; e la quasi assenza di tutto il sudest asiatico, per trovare tracce apprezzabili del quale bisogna rivolgersi a quell’Europa occidentale un po’ “periferica” che è quella portoghese e olandese. Tutto ciò è vero soprattutto per l’Italia, per cui la storia del quale è alquanto limitata e provinciale (un po’ di cultura levantina che ci porta soprattutto ai Balcani, a Costantinopoli e alle isole greche; e, ohimè, “Tripoli bel suol d’amore” e “Inchiodata sul palmeto brulla immobile la luna – a cavallo della duna c’è l’antico minareto” dell’Italietta dal sogno coloniale frustrato. Poco d’altro.
Ma siamo il paese di Marco Polo, perdinci; e, se vogliamo, anche di Giuseppe Tucci e di Tiziano Terzani! Possibile che ci sia così poca India e quasi nulla di sudest asiatico? Ebbene, no: non è davvero così. L’Italia rinascimentale guardava già con attenzione all’Oceano indiano, com’è provato dalle ricche collezioni delle Wunderkammerndei principi rinascimentali. E se fra Otto e Novecento l’Università di Firenze poteva finanziare lo scienziato Paolo Mantegazza per inviarlo in India a ramazzar tesori con i quali metter su un piccolo “museo universitario indiano” (ancor oggi visitabile presso il locale Museo antropologico), una ragione ci sarà ben stata.
L’argomento sarebbe vastissimo. Ma, a titolo d’esempio, il recente libro di Marco Moneta, Un veneziano alla corte moghul. Vita e avventure di Nicolò Manucci nell’India del Seicento (Torino, UTET, 2018, pp. 314, euri 20) ci mostra come nel nostro XVII secolo – un secolo quasi ignorato nelle nostre scuole, e con quanto danno per noi! –,il “mal dell’Ignoto” potesse essere ardente e acuto, e divenire magari “mal d’India”. Nel novembre del 1653, un ragazzino quindicenne sfuggito al controllo dei genitori si butta a capofitto in una tartana diretta chissaddove e, oltre due anni dopo, ai primi del ’56, un veliero dell’East India Company lo riscodella, nel frattempo cresciuto, a Surat, nell’India occidentale. Il giovanissimo Nicolò Manucci, attraverso i Balcani, Smirne, la persia, Hormuz e l’Oceano è arrivato nell’immenso impero dei tartaropersiani musulmani eredi di Tamerlano, i “Moghul”, in eterna rotta con i raja e i maharaja induisti. L’adolescente veneziano crescerà: sarà soldato, cortigiano, medico, diplomatico e scriverà un libro di memorie parte in italiano, parte in francese e parte in portoghese, Storia do Mogor, metà romanzo picaresco e metà trattato antropologico, libro di avventure e a modo suo testimonianza. Moneta lo riassume con generosità e intelligenza, in modo da farcene gustar il sapore. Peccato che di questo straordinario maremagno esista, completa, solo una traduzione inglese di oltre un secolo fa: Moneta, però, grazie ai tipi della UTET con la quale già ha pubblicato il suo libro, potrebbe fornircene ora la versione originale che conosciamo solo da pubblicazioni rapsodiche.
Certo, il “diario-romanzo” di Manucci sarebbe piaciuto a Emilio Salgari. Abbiamo parlato di orientalismo (non di esotismo: ma avremmo potuto fare anche ciò…) e non abbiamo ancor detto una parola di questo autentico Gigante Misconosciuto della “letteratura minore” (minore”?…) italiana, questo povero misconosciuto piccolo grande uomo schiacciato dalla sua trascinante fantasia, dalla sua portentosa grafomania, dalla sua patetica, commovente incapacità di gestire la propria vita. Un “forzato della penna”, un “eroico perdente” tormentato e sfruttato dagli editori, un pigmalione della fantasia di milioni d’italiani che sono stati adolescenti e giovani dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento. Ci hanno provato in molti, a “rivalutarlo” e a “riproporlo”; ancora in molti di più a sfruttarne le opere post mortem,fino al cinema e alla televisione. Oggi, finalmente, c’è forse chi sta cercando di rendergli giustizia con un’opera imponente. Grazie alla coraggiosa generosità di un lungimirante e raffinato editore fiorentino, Olschki, la studiosa britannica Ann Lawson Lucas, che a ciò ha letteralmente dedicato la sua vita fino dagli Anni Sessanta, sta pubblicando un monumentale lavoro programmato in quattro corposi volumi sul tema Emilio Salgari: Fantasia e Verità. È uscito in questi giorni il secondo dei quattro, in un certo senso quello centrale, in quanto ci porta al centro dell’“uso”, anzi della strumentalizzazione-mistificazione della sua opera in una fase nella quale l’Italia (o comunque chi la governava) stava facendo di tutto per attrezzarsi a divenire potenza “imperiale” e nello straordinario romanziere per ragazzi cercava lo spunto massimo per poter plasmare una gioventù eroica, avventurosa, conquistatrice. Ed ecco, della Lawson Lucas, Emilio Salgari. Una mitologia moderna tra letteratura, politica, società. II. Fascismo, 1916-1943. Lo sfruttamento personale e politico (Firenze, Olschki, p. 503, euri 35). Un libro che mi ha sconvolto, meravigliato e commosso. Nato nel 1940, sono salgariano convinto da quando, nel 1953, avevo tredici anni. Salgari è stato il mio tappeto volante alla scoperta del mondo, il mio cinema, la mia TV, il mio maestro di vita. Nel bene e nel male, nel mirabile e nel kitsch. Mi ha anche ingannato e illuso, ma io benedico, oggi, quell’inganno e quell’illusione.
Tiziano Terzani, più o meno mio coetaneo, era stato al pari di me, adolescente, lost in Borneo: era un membro della banda dei Bambini Orfani di Peter Pan che magari invecchiano ma non crescono, un eterno Tigrotto di Mompracem. Lo ritroviamo con tutta la sua generose, trascinante ingenuità nello studio incentrato sulla sua esperienza di testimone-militante nella guerra del Vietnam che gli dedica Luigi G. De Anna, Tiziano Terzani e la guerra nel Vietnam (Chieti, Solfanelli, 1918, pp. 316, euri 20)in un volume documentato ma profondamente compartecipe che si avvale altresì di una magistrale presentazione di Marco Barsacchi. Debbo confessare di essere molto debitore a Barsacchi nella comprensione dell’autentico spirito che anima le pagine di De Anna. Soprattutto per aver scritto la sua Presentazioneincentrandola sulla presenza di Thomas Fowler, «il decadente personaggio di Graham Greene». Seguendo questa intuizione mi sono chiesto il perché del bel libro scritto da un filologo nato in Puglia, naturalizzato fiorentino e che ha trascorso la metà circa dei suoi attuali poco più di settant’anni appunto a Firenze, altrettanto in Finlandia dove ha svolto il suo insegnamento universitario e che sta apprestandosi a passare il periodo, auguriamogli lungo, che Dio vorrà ancora concedergli in un remoto villaggio della Thailandia inseguendo un suo sogno a metà fra Greene, Conrad, Melville, Coomaraswamy e chissà chi altro, magari appunto Salgari… Di De Anna esce ora, sempre per lo stesso editore teramano, un suo sottile e a tratti inquietante romanzo, La thailandese e il colonnello, a metà strada fra la storia d’amore, il trhillinge il “racconto autobiografico” a chiave segreta. Da Marrakesh alle colline attorno a Firenze, cornice per le semidotte e semigaudenti riunioni di un tiaso di anziani signori che un po’ ricordano Amici miei, un po’ L’Armata Brancaleone (Monicelli c’entra sempre), si finisce presso a un tempietto funebre eretto fra i canali e le risaiedella Thailandia, nome che significa “il paese degli uomini liberi”. La ricerca della libertà: è questa la cifra ultima di quel che spinge a cercare l’Oriente?
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