Fonte: Il Corriere della sera
di Lucrezia Reichlin – 21 aprile 2018
La situazione congiunturale sta cambiando in modo inaspettato. La ripresa europea, grande consolazione di questi tempi per altri versi incerti, sembra essersi arrestata. Da gennaio i dati economici che segnalano l’attività del secondo trimestre del 2018 – in anticipo rispetto alla pubblicazione di quelli della contabilità nazionale – indicano un rallentamento. Questo è vero per la Germania, per la Francia e anche per l’Italia. Sono cifre che si riferiscono non solo alle aspettative delle imprese ma anche ai fatti della produzione industriale e del turnover. Tutto ciò non stupisce più di tanto poiché la ripresa della eurozona dura ormai da quasi cinque anni e la crescita è al di sopra del reddito potenziale da oltre un anno. Un rallentamento ciclico è quindi nelle cose. Negli Stati Uniti questo rallentamento sembra essere ritardato dagli annunci di tagli di tasse e deregolamentazione, tuttavia la crescita è anche lì al di sopra del potenziale. Se le misure del presidente Trump – come è probabile – non intaccheranno la crescita strutturale, ci sarà un aumento dei tassi di interesse e del deficit, sia esterno che interno, con un radicale aggiustamento al ribasso del Prodotto interno lordo. Tra il 2019 e il 2020 è dunque molto probabile che avremo una recessione da ambedue i lati dell’Atlantico. Se i rallentamenti ciclici sono inevitabili, non sono però tutti eguali. Nel caso di una nuova recessione, l’Europa ci arriverebbe più preparata che nel 2007.
Il debito delle famiglie e delle banche è ben al di sotto dei livelli degli anni antecedenti alla grande crisi e le istituzioni finanziare sono meglio regolate. Questo fa presagire che un’eventuale futura recessione non sarà associata a una crisi finanziaria e che le sue conseguenze saranno meno devastanti. Nonostante questo e nonostante l’Europa abbia oggi maggiori strumenti per affrontare le crisi rispetto al 2010, la lunga coda dell’ultima recessione ha intaccato — ovunque, non solo in Italia — la fiducia dei cittadini verso chi li governa e ha reso le nostre società meno coese.
Certamente la fragilità italiana non aiuta il partito delle riforme e alimenta la consueta diffidenza nei confronti del nostro Paese in una fase in cui l’Europa avrebbe più che mai bisogno di un’Italia autorevole ai tavoli delle trattative. E questi tavoli sono molti. Non c’è solo la riforma dell’euro-zona accennata prima, fondamentali sono anche la trattativa sul futuro bilancio europeo — resa più difficile dai circa 95 miliardi venuti meno con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione — e quella sui rifugiati: due dossier di importanza critica per l’Italia e per il futuro del progetto europeo.
In Europa, cooperazione tra Paesi e competizione per gli interessi nazionali si intrecciano in modo complesso. È impossibile pensare agli interessi nazionali senza avere una visione per l’Unione. Un atteggiamento puramente rivendicativo nei confronti dell’Europa così come una passiva accettazione dello status quo e la mancanza di un consapevole investimento tecnico e politico per acquisire capacità negoziale ai tavoli decisivi, ci rendono fragili.
Non siamo l’unico Paese dell’Unione a far fronte a una crisi di fiducia nella politica, siamo però più deboli di altri. Un rallentamento dell’economia ci troverebbe molto esposti e un’Europa incerta e divisa non ci gioverebbe. Anche se, come dicevamo, è probabile che una nuova recessione non si tradurrebbe in un’altra crisi finanziaria, quest’ultima comporterebbe certamente un altissimo rischio politico. Non c’è tempo da perdere. I dati economici ci ricordano che lo spazio per indugiare in politiche demagogiche e in messaggi confusi ai nostri partner si sta esaurendo.