di Lillo Colaleo 6 giugno 2016
Il giorno dopo del voto è sempre un giorno nevrotico. Il susseguirsi delle dichiarazioni rende tutto surreale, con i leader politici che si alternano nelle dichiarazioni di stile, cercando di offrire una ottimistica lettura politica sul voto, quando loro stessi, d’altra parte, stanno cercando di costruirne una. Tra l’altro, con la partita ancora aperta ed il ballottaggio a due settimane da adesso.
La conferenza stampa del Presidente del Consiglio e segretario del principale partito di Governo Matteo Renzi è stata un miscela di nervosismo ed ottimismo. Il voto disomogeneo, la confusione, gli errori tattici degli avversari – che sono e restano di livello inferiore – hanno offerto la possibilità di respingere al mittente le critiche e le accuse, fin troppo spesso strumentali. Ma la débâcle, almeno in parte, c’è e si sente: nei numeri, nelle circostanze politiche, nelle scelte di liste, candidature e coalizioni, nei modelli politici e culturali, nella percezione comune. La luna di miele del 2014 è ormai un ricordo lontano: il primo segnale c’era stato già alle elezioni interne dell’anno passato – con sconfitte di un certo livello su alcune città e regioni – e trovano una conferma, questa sì omogenea, in questa tornata elettorale.
Su una cosa Renzi ha ragione: è ancora presto per trarre conclusioni definitive. La politica d’altra parte è dinamica e notevolmente cangiante. Questo vale tanto per questo risultato e vale per tutti, compreso lui. I ballottaggi sono lì dietro l’angolo e ancora c’è la possibilità di conseguire una vittoria di pregistio in queste elezioni amministrative, che vede la corsa su alcune tra le principali città della Repubblica (Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna). E che per questo, peraltro, hanno un notevole peso politico per nomi, numeri, autorevolezza, esposizione, incidenza. Motivo per cui sarà impossibile ignorare eventuali risultati negativi: con Napoli già altrove, le partite di Roma e Milano si caricheranno di significati profondissimi a livello nazionale ed internazionale.
L’impressione è che probabilmente aver provato a glissare le difficoltà puntando dritto sul Referendum di Ottobre sia stato uno sbaglio: acuire le divisioni sul sofferto quesito referendario costituzionale, aver velocemente snobbato il referendum sulle trivellazioni, non aver impegnato il Partito in una linea chiara e percepibile rispetto alle elezioni, rendendolo capace di dialogare ed arrivare all’elettorato, aver con disinvoltura lasciato irrisolto il problema politico del centro-sinistra e della sua anomala maggioranza di governo, con tutte le polemiche, gli strappi e le tensioni che ne derivano e la confusione, immensa, che creano, non hanno fatto altro che indebolire pesantemente la capacità di mobilitazione dei democratici all’interno dei territori.
Pur non costituendo una vera sconfitta, come giustamente osserva Renzi, bisogna tuttavia ammettere che il risultato è in sé per sé deludente. E che almeno un giudizio politico è possibile con tutta tranquillità darlo: il Partito della Nazione è un modello politico e culturale fallimentare. Il PD non è una forza politica autosufficiente e, in barba alla vocazione maggioritaria citata in conferenza stampa, l’unico risultato che ne deriva a stare così, in solutidine, con tutti e contro tutti, è l’isolamento e la solitudine stessa. Col voto anti-sistema raccolto, sistematicamente, da Movimento 5 Stelle ed, in piccolissima parte, dalla Lega Nord, col centro-destra di Berlusconi tornato vigorosamente in campo, capace, laddove unito, di raccogliere in modo deciso il voto moderato, con l’elettorato di sinistra abbandonato tra l’astensione, il dissenso e la dispersione in progetti embrionali, come Sinistra Italiana, la posizione del Partito Democratico è quella di un navigante abbandonato in mezzo ai flutti, che la posizione governista, condita di strappi e dimostrazioni muscolari di forza, non può bastare a stabilizzare e rendere facilmente comprensibile.
Il Partito Democratico non può prescindere dal Centro-Sinistra. Non può prescindere, cioè, dall’elaborazione di una cultura politica, di una forza politica, che coaguli attorno a sé i valori, le organizzazioni e le soggettività di questo campo. La sua stessa esistenza è legata dal confronto, costruttivo, continuo con questo mondo, che costituisce il mondo di riferimento naturale, l’interlocutoro più vicino, la presenza più contigua alla propria natura e storia politica.
La dimostrazione è che laddove, almeno in piccola parte, questo collante naturale tiene e tiene pertanto la “connessione sentimentale” col proprio popolo, il Partito Democratico, o meglio ancora il Centro-Sinistra, riesce a raggiungere risultati che sono di un certo rilievo: Milano, Torino, Cagliari. Certo, anche qui la tenuta è labile, se non a volte perfino parziale, logorata dai nervosismi nazionali e locali, infastidita dalla perenne e stancante confusione politica di questa fase. Ma quantomeno esiste – con un Zedda che è di Sel e con un Pisapia lì sul palco accanto a Sala a Milano – e riesce a trasmettere l’idea che un centro-sinistra che tutto sommato esiste. Altrove, invece, la spaccatura è più pesante ed il danno si sente: a Roma, dove Giachetti raccoglie 200.000 voti in meno rispetto a Marino, ed una una parte dell’elettorato che si disperde tra M5S ed i 70.000 voti della sinistra radicale. Si sente a Napoli dove, nuovamente, il centro sinistra è diviso, con la Sinistra che va su de Magistris (42%) ed il PD sulla Valente (21%). E si sente, a dispetto del buon risultato, a Bologna, se è vero che il clima non è dei migliori, con l’uscente Merola al 39% (contro il 50% delle scorse elezioni) e la sinistra radicale che si divide tra Martelloni (7%), Badiali (1,5%) e Lorenzoni (1,25%).
Il Partito Democratico ha bisogno del centro-sinistra per essere un progetto politico vincente e coerente con la propria storia, le proprie idee, i valori del proprio popolo. E deve sopratutto tornare ad avere una sua precisa soggettività politica, slegata dalle vicende del Governo – giacché, come ogni cosa, anche questi passano – e dalle sue variabili, come ovvio che sia, maggioranze.
La presenza sul territorio, l’elaborazione politica, l’idea di comunità. Un soggetto pesante in quanto pensante, in quanto collettività che discute, si confronta, dialoga col proprio ambiente culturale, col proprio popolo, con le proprie idee, passioni e valori.
Il Partito Democratico non ha bisogno di essere il Partito della Nazione. Né la cassa di risonanza, o meglio dire di propaganda, del Governo, per quanto possa risulta importante il sostegno alla sua azione. Essendo questi piani che spesso tanto la maggioranza del Partito, quanto la minoranza del PD tendono a confondere, focalizzandosi, come tifoserie, sulla figura molto forte del Segretario e Presidente del Consiglio. Bisogna tornare a parlare del Partito, del Centro – Sinistra, del Governo come fenomeni che esistono a prescindere delle mozioni congressuali di una forza politica unita, seppur nelle sue ragionevoli differenze. E’ nell’Unità, nel dialogo, vero, di entrambe le parti, del riscoprirsi comunità all’interno e una volta da qui forza unitaria e leader nel proprio mondo rispetto a ciò sta fuori, che sta e deve stare la forza del Centro – Sinistra come motore propulsore del cambiamento in questo paese. Come è avvenuto alle Europee, come è avvenuto su Mattarella.
Per questo sì, non è ancora una sconfitta. E volendo sì, la sfida è ancora aperta.
Basta archiviare il Partito della Nazione e recupare il Centro – Sinistra.
Basta, insomma, volerla cogliere.