L’acciaio che nessuno vuole più e il lavoro che scompare

per Gabriella

da www.pagina99.it   di Cristina Giudici   01 maggio 2014

Nel 1992, quando arrivò Luigi Lucchini “da lassù”, da Brescia, fu accolto con 38 giorni di sciopero dagli operai. La storia di quella fabbrica a Piombino è la storia della siderurgia stessa, di una città che  si sente eroica e martire allo stesso tempo.
La nostra ricostruzione, le voci degli operai, il futuro buio, lo stabilimento che è diventato buono per la propaganda politica

PIOMBINO – Per capire il disastro annunciato avvenuto alle acciaierie Lucchini, che si chiamano ancora così, sebbene Luigi Lucchini se ne sia andato nel 2003, lasciando nelle mani di Enrico Bondi e delle banche un debito di 300 milioni di euro, bisogna tornare indietro di qualche era geologica. Anche se poi si arriva sempre allo stesso punto, con una crisi sempre più grave, aggrovigliata, dove qui ognuno ci mette un pezzo di storia, molta fantasia, e retroscena, non sempre verosimili. E partire anche da quei tecnicismi, che farebbero perdere la pazienza persino al Dalai Lama. A Piombino infatti sono tutti tecnici esperti dell’acciaio, anche se vendono pesce al mercato.

E infatti chiunque in questo Comune di 34mila anime venga interpellato sulla storia travagliata della Lucchini, si mette immediatamente a tracciare schizzi su un foglio di carta, per far capire che non avrebbe mai potuto essere competitiva un’acciaieria, che contava su un ciclo integrale complesso e costruito male, con l’impianto di laminazione che distava 10 chilometri dall’altoforno, quello che ora è stato addormentato, perché, sindacati e operai a parte, non esiste nessuno, che lo consideri ancora competitivo ed economicamente sostenibile. E infatti chiunque venga interpellato, spiega che ai tempi della gestione dell’Italsider, prima della privatizzazione, sono stati assunti troppi dipendenti, (nel 1981 quando le acciaierie erano gestite dall’Ilva, i lavoratori erano quasi 8mila) e che la gestione politica dei dirigenti, scelta coi soliti riti, ha creato troppe falle, mai riparate. «Allora si saliva alla stazione di Orbetello che si era soldati semplici, e si scendeva a Piombino già generali», spiega sarcastico a pagina99 un ex manager per far capire come era l’andazzo.

Comunque quando nel 1992 arriva Luigi Lucchini da Brescia, “da lassù”, qui si dice ancora così per parlare della Lombardia, nella rossa Piombino, il primo padrone delle ferrovie, visto che a Piombino si producono soprattutto rotaie, che ancora fanno gola a molti imprenditori dell’acciaio, è stato accolto con 38 giorni di sciopero. Eppure quando si entrò a regime, si producevano oltre 2 milioni di tonnellate di ghisa, dicono orgogliosi i sindacalisti della Fiom, quelli insultati da Grillo durante il comizio di sabato scorso. Ma poi quando devono spiegare cosa è successo dopo, come si è arrivati a cedere il polo siderurgico nelle mani delle banche creditrici, si fa fatica a focalizzare le origini della decadenza dello stabilimento.

Qualcuno si affida ai rumors, sulle altre aziende del gruppo Lucchini, che avevano bilanci sempre positivi, anche nella fase calante del mercato siderurgico, mentre qualcun altro afferma che la gestione del Re dei tondini non era adatta a un polo siderurgico di tali dimensioni, una città che gira intorno alla città, nato dentro la città, e sopratutto a gestire i cali del mercato. E che insomma si stava meglio quando si stava peggio, con papá Stato a proteggere tutti. I più infuriati, come per esempio Paolo Francini, l’operaio che a Pasqua ha fatto lo sciopero della fame contro la chiusura dell’altoforno e fra coloro che hanno spinto per bloccare il traffico proprio nel giorno della sigla dell’accordo fra enti locali e il Governo per stanziare 250 milioni di euro, per bonificare le falde e diversificare il progetto industriale con l’adozione di un forno elettrico, ricorda che Lucchini nei tempi d’oro faceva lavorare gli operai in modo sconsiderato senza attenzione alla sicurezza, e infatti ci furono molti incidenti sul lavoro «e persino un lavoratore morto avvelenato dal gas e ritrovato solo 24 ore dopo», dice.

Dimenticandosi però che il Cavaliere Lucchini ammodernò la cookeria, e fece un piano di ingenti investimenti di 1,079 miliardi di euro, da realizzarsi nei successivi sei anni, ma poi solo in parte realizzati per migliorare la competitività della “fabbrica”, come la chiamano tutti. Passato remoto se si pensa a cosa è successo dopo. Che poi è simile o quasi a quello che è successo prima. Come ha spiegato bene anche Stefano Ferrari su un giornale on line di settore, Siderweb, «Il sistema produttivo piombinese di Lucchini soffre di molteplici criticità ed inefficienze, che mettono buona parte della produzione del sito, di fatto, fuori mercato. Squilibri sono risalenti a molti anni fa, nascosti dal boom dell’acciaio del 2004-2008, durante la fase russa, con la Severstal, per poi riemergere con maggiore gravità allo scoppio della crisi». E cioè quando la capacità dell’altoforno fu portata da 1,6 a 2,3 milioni di tonnellate annue di ghisa. La nuova capacità produttiva di acciaio liquido superava però la capacità di laminazione del Gruppo Lucchini, costringendolo a vendere sul mercato circa 700.000 tonnellate annue di semiprodotti.

Al di là delle ragioni tecniche legate all’andamento del mercato siderurgico, quello che si percepisce a Piombino, dopo la prima crisi del 2003, con l’arrivo nel 2005 del magnate russo di Severstal, Aleksei Mordashov, esponente di uno dei più grandi gruppi siderurgici al mondo, è che questa città si sente eroica e martire allo stesso tempo. Sempre in guerra con il mondo esterno. Dopo un periodo di crescita e di floridezza, durante la gestione russa, con un annuncio da parte di Mordashov di un piano di ingenti investimenti nel 2008 e di ampliamento dello stabilimento, che portò fra mille polemiche a una modifica sostanziale del piano regolatore della città, fece brindare operai e sindacati e a pensare: «Questa volta ce l’abbiamo fatta. Siamo salvi».

Peccato che poi arrivò la crisi finanziaria, e due mesi dopo Mordashov, fece retromarcia e cominciò a pensare alla ritirata strategica. Vendendo a se stesso, il 50% delle azioni della Lucchini, per un euro. E poi levò le tende. E così il sogno di un rilancio della fabbrica si fermò di nuovo. E ora che l’altoforno è quasi spento, che di fatto l’acciaieria si è fermata, che tutte le trattative avviate negli ultimi due anni, dopo che Piero Nardi, è diventato commissario straordinario, sono per ora tramontate, Piombino è diventata la città dei retroscenisti. E complottisti. Soprattutto se si parla con operai e sindacalisti ed ex manager fuoriusciti.

Allora c’è chi pensa che gli esponenti della Federacciai sono entrati a gamba tesa durante la recente trattativa con la tunisina Smc di Khaled al Habahbeh, un avventuriero pare, che venne nella piccola capitale dell’acciaio, offrendo tre miliardi e un sogno, a cui non era possibile non credere: la proposta dell’acquisto di tutto lo stabilimento, altoforno compreso, che nessuno vuole – nonostante i sindacalisti continuino a dire che sia stato un gioiello, che sono venuti a studiarlo da tutto il mondo, perché non vogliono arrendersi, neanche ora che è stato spento – per impedire che andasse in porto. Anche se col senno di poi, lo sanno tutti che Khaled, come lo chiamavano tutti quando arrivava qui per vendere sogni, non l’avrebbe mai presa un’azienda come questa. Costosa, poco competitiva, piena di debiti e soprattutto con troppi dipendenti.

E così, vista da qui la vicenda della Lucchini, è come la storia di Davide contro Golia. Al punto che se si guarda indietro a fare debiti non è stata l’acciaieria di Piombino, ma il resto del gruppo, come ad esempio Trieste, dicono i sindacalisti. E non quel famoso ciclo integrale della produzione dell’acciaio che nessuno si può più permettere se vuole rimanere sul mercato, dentro una crisi strutturale. Al punto che qui tutti sono convinti di aver visto in una parte dell’azienda, che si chiama Palude, molti prodotti semi lavorati di un’azienda del Nord, che aspirerebbe ad acquistare la parte produttiva dello stabilimento, quella della laminazione. A stare sentire loro, i piombinesi, la colpa è sempre degli altri. Della Federacciaio, che ha dei conflitti di interessi, della guerra in corso fra diversi pretendenti dei signori dell’acciaio, in Veneto e in Lombardia, che sono interessati alla parte più sana della “fabbrica”, la laminazione, per fare lo spezzatino e lasciare per strada tutti gli altri operai.

Colpa del commissario Piero Nardi, che secondo loro vuole favorire cordate a lui vicine, che non vedono l’ora di fare all’assalto alla diligenza, dei laminatoi, che impiega 400 operai in tutto, per mettere Piombino e i piombinesi in ginocchio. Come se non ci fosse quel miliardo di debiti nei confronti dei fornitori, le scorte di carbone quasi finite, l’acciaieria ferma, le navi in porto che non arrivano più e 70 milioni di liquidità rimasti, pare, nelle casse dell’azienda, fallita due anni fa. Allora è normale che ora tutti vogliano credere al nuovo sogno: questa volta indiano.

L’ultimo di una lunga serie di potenziali acquirenti, venti ad occhio e croce dall’inizio della crisi, che poi si sono tirati indietro. E allora ora tutti credono che arriverà un altro salvatore della patria, la loro patria, della fabbrica: Sajjan Jindal, che guida il polo siderurgico Jsw, e vorrebbe comprare i laminatoi e anche il forno elettrico, che ancora però non c’è. «Il bando di vendita scade a fine a maggio e poi se non ce la facciamo, l’azienda è morta, si venderà come un rottame», dicono operai e sindacalisti. Non in senso figurato, ma reale, perché sarà solo una scatola vuota. Il problema è il tempo, come fa notare il sindaco Gianni Anselmi, che è molto amato dai suoi concittadini perché ha una sola ossessione: salvare la fabbrica ed è riuscito a portare a casa l’accordo di programma siglato fra il governo ed enti locali molto ambizioso.

Il problema è il tempo, perché se va bene per il piano di riconversione ci vorranno tre anni, e nel frattempo nessuno sa ancora come e quando arriveranno i soldi, per gli ammortizzatori sociali per aiutare gli operai che resteranno a casa. Nessuno sa cosa faranno nel frattempo, sempre e se, gli indiani compreranno un pezzo della fabbrica.

Ma la verità è che tutti, o quasi, qui a Piombino, hanno giocato solo in difesa, a partire dai sindacati, e ora che Piombino domenica scorsa ha perso anche nel campo di calcio, la paura e l’angoscia crescono. Perché alla fine dal Cavaliere Lucchini, per arrivare a Mordashov, tutti ci hanno provato a raddrizzare un polo siderurgico, nato sghembo, che nel 2012 è arrivato allo stato d’insolvenza E allora è colpa di tutti, non solo della crisi strutturale dell’acciaio. Ed è inutile dire, come fa Mirko Lama, combattivo delegato sindacale della Fiom che nel «2020 in Europa ci sarà una richiesta di 200 tonnellate di acciaio». Perché nel frattempo l’acciaieria si è fermata e nei bar le ragazze guardano sul Tirreno le foto del nuovo salvatore della patria, che dovrebbe arrivare, forse, entro fine maggio, l’indiano Sajjan, e commentano «però è un bell’omo».

….

per chi volesse “respirare” l’atmosfera di Piombino e della sua acciaieria consigliamo di leggere ACCIAIO, l’opera prima di Silvia Avallone

da www.liberolibro.it

Acciaio di Silvia Avallone è un romanzo che racconta la storia della profonda amicizia tra due ragazzine di tredici anni che diventano donne in una provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte e ragazzi che sognano la fuga. Piombino è il palcoscenico degradato su cui recitano i personaggi, sempre curati e credibili, mai ridotti a stereotipi e a macchiette fumettistiche. Una via Stalingrado di pura fantasia – localizzabile nel quartiere periferico di mare noto come Salivoli e identificabile nel rione operaio dei Lombriconi  – presenta casermoni in stile sovietico dove vivono operai della Lucchini, famiglie marginali, piccoli spacciatori, ladruncoli, perdigiorno, studenti e ragazzi che in estate popolano la piccola spiaggia davanti all’Isola d’Elba.

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