Lo stato innovatore

per Gabriella

LO STATO INNOVATORE – DI MARIANA MAZZUCATO – ed. LATERZA

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da www.huffingtonpost.it

Mariana Mazzucato: “La spesa pubblica? Serve”.

Intervista all’autrice de “Lo Stato innovatore”

“Lo stato ha gli sprechi nel suo DNA, perciò va tagliata la spesa pubblica? Questa è solo ideologia”. Diventa davvero difficile catalogare Mariana Mazzucato tra le consunte categorie del dibattito economico italiano. “Liberista? Statalista? Il vero problema è che in Italia non investono più né i privati né lo Stato” afferma Mazzucato in un lungo colloquio con l’HuffPost.

Romana d’origine e inglese d’adozione, la professoressa Mazzucato insegna “Economia dell’Innovazione” alla University of Sussex, in Inghilterra. Il suo ultimo libro, “The Entrepreneurial State”, ha raccolto consensi anche negli Stati Uniti, ed è stato recensito dal Financial Times. Ma nella prossima primavera sarà pubblicato anche da Laterza in Italia, con un titolo eloquente: “Lo Stato Innovatore”.

Professoressa, l’Italia ha un Pil da circa 1600 miliardi e una spesa pubblica che supera gli 800 miliardi, che rappresenta così oltre il 50% della ricchezza prodotta dal Paese. Lo stato deve investire ancora?

Tantissimi Paesi, inclusi gli USA, hanno una spesa pubblica attorno al 50% del Pil, perciò questo numero da solo non dimostra nulla. Ciò che conta è la composizione della spesa, e in Italia la maggior parte di quel 50% se ne va in pensioni e interessi sul debito, che sono altissimi proprio perché il debito è molto alto. In Italia ciò che manca da 20 anni è la crescita, perché se il denominatore (Pil) cioè la ricchezza prodotta aumentasse, calerebbero debito e interessi, quindi la spesa pubblica, e senza tagli. Il problema è la crescita anche perché il deficit in Italia è relativamente basso, 3%, e prima della crisi era al 4%. Ma anche se fosse zero, se non c’è crescita, il debito aumenta ed è su quello che si pagano gli interessi. Invece l’Italia continua a spendere pochissimi fondi in istruzione, sviluppo e corsi professionali, che farebbero crescere il Paese.

Eppure la ricetta del ministro Saccomanni e del nuovo commissario alla spending review Cottarelli prevede ancora tagli alla spesa pubblica per 32 mld in 3 anni.

Se il problema in Italia fosse che spendiamo troppo su tutto, sarei d’accordo anch’io. Invece la verità è che l’Italia non spende troppo, ma lo fa davvero molto male. Non voglio dire che non bisogna tagliare nulla, in Italia so benissimo che ci sono tanti sprechi, ma il problema è avere una strategia sul lungo periodo. Un insegnante in Italia guadagna troppo? Se vogliamo crescere, dobbiamo avere buone scuole, e quindi pagare di più gli insegnanti per attrarre i migliori. In Singapore il governo paga stipendi da 1 milione di dollari ai dirigenti statali, così da attrarre i cervelli migliori nel settore pubblico. Se invece i tagli di Saccomanni e Cottarelli vengono fatti in infrastrutture, educazione e sviluppo, le persone di talento non verranno mai a lavorare nella pubblica amministrazione. Piuttosto chiederei ad entrambi: cosa deve fare l’Italia per crescere? Su cosa vanno concentrati gli investimenti? È facile tirare fuori cure molto generali sui numeri dei tagli, come fanno i talebani del mercato come Michele Boldrin, Alberto Alesina o Francesco Giavazzi. Tagli che non servono a nulla se non si va a guardare nello specifico.

Però in qualche modo toccherà anche ripagarlo, il nostro debito. E in parte, i 32 miliardi di tagli annunciati serviranno anche a questo.

Nessuno dice che non importa se il debito supera i 2000 miliardi e il rapporto tra debito/Pil è al 130%. Ma il problema italiano è che c’è tanto debito perché non stiamo riuscendo a pagarlo, e così crescono interessi, perché i soldi con cui dovremmo pagarlo, provenienti dalla crescita, non arrivano ormai da 20 anni. Perciò è necessario chiedersi soprattutto su quali aree bisogna spendere per fare crescere il Pil. Il governo degli Stati Uniti spende 32 mld in un solo settore, la biotecnologia. Questo fa crescere sicuramente il debito, ma anche la crescita ne risente a lungo andare. Un altro esempio, paradossale, è che quando ci sono guerre, si producono armi che costano molto allo stato. Ma il meccanismo rilancia anche la crescita, perché le aziende producono e i dipendenti, o le loro famiglie, spendono di più. Metaforicamente, dobbiamo chiederci: qual è la guerra oggi?

Lei sposa quindi la linea dell’FMI, secondo cui il moltiplicatore per la crescita generato dall’incremento della spesa pubblica, é superiore alla crescita generata da tagli a spesa e tasse?

Dipende sempre da come si spende, perché per chi spende male il moltiplicatore e la crescita possono essere ugualmente bassi. Ci sono invece Paesi che ci riescono, e bene. La Cina è il Paese che spende di più sul verde, non solo su solare e vento, ma anche sulla riconversione di tutto l’esistente. Ebbene, molti investimenti cinesi privati vanno in Danimarca, Svezia e Finlandia, perché i danesi, ad esempio, il solare e il vento se lo producono da soli, fornendo servizi sul verde ai cinesi, e attirando parte di quegli investimenti. È questo che genera la crescita: lo stato dà solo un indirizzo, investendo su nuove aree e non sulle piccole imprese, e questo attira anche capitale privato estero, perché per fare un ponte prima spendi, ok, ma poi chiunque vuole costruire ponti viene da te a imparare e a costruirli, se sei stato bravo. Servono “mission oriented investments”: la grande missione di una volta era portare l’uomo sulla Luna, adesso c’è il cambiamento climatico che genera crescita.

Ma con i fondamentali economici che l’Italia ha oggi, come si finanziano ulteriori aumenti di spesa pubblica, seppure per investimenti?

L’Italia ormai è in Europa, usa l’euro, e non ha più una banca centrale per stampare moneta. Perciò serve una strategia di cofinanziamento da parte della Banca Centrale Europea (BCE) e della Banca Europea degli Investimenti (BEI). I diversi stati europei dovrebbero pensare insieme agli investimenti che servono di più, scegliendo cosa finanziare attraverso cofinancing tra BCE e BEI, e dietro l’emissione di bond. La priorità di questa strategia deve essere quella di attirare i cervelli migliori in Europa e creare expertise tecnologica, ovvero competenze. Gli Eurobond non sono stati ancora pensati per essere emessi in linea con piani strategici di sviluppo, ed è necessario stare attenti che non vadano a chiudere buchi qua e là.

Una maggiore integrazione con l’Europa porterebbe anche più stabilità e fondi da spendere in Italia? Nel nostro Paese cresce il movimento no-euro e le regioni già oggi non riescono a spendere tutti i fondi che ricevono.

Prendiamo gli Stati Uniti e l’Inghilterra: in entrambi i Paesi non si rischia la bancarotta da 400 anni, perché diventa quasi impossibile quando hai a disposizione una banca centrale, come succede al dollaro e alla sterlina. In Europa invece tutto passa dalla BCE e per questa ragione lo spread è alto, perché se hai una banca che presta, la finanza non ha paura di non rientrare degli investimenti, sa che nel caso la banca centrale corre in soccorso. Ma è anche vero che l’Europa dovrebbe curarsi di dare indirizzi di spesa, invece tutto questo quantitative easing è finito nelle mani delle banche che non stanno prestando. Ecco perché non basta neanche stampare moneta, ma bisogna trovare i giusti veicoli di spesa per la crescita. In Europa però la Germania è contro Grecia e Italia perché hanno un grosso debito, e così non permette lo sblocco di altri finanziamenti, con ricadute su speculatori e mercato dei bond: loro hanno veramente paura che noi non ripaghiamo il nostro debito. In America il governo ha finanziato molto ricerca e sviluppo, questo è anche un investimento, non solo spesa corrente, perché alla fine aiuta le casse del governo a rigenerare i fondi.

Per fare cassa, invece, il governo pensa di privatizzare e dismettere il patrimonio. C’è mercato? È una strategia che la convince?

Il mercato c’è di sicuro, si formerebbe la coda di chi vorrebbe venire a comprare, l’Italia ha generato imprese di livello, non è certo lo Zimbawe. Detto ciò, chi vuole vendere e privatizzare tutto, alla fine porterebbe l’Italia nel terzo mondo. Privatizzare in sé, senza un piano strategico per investimenti, non porta alla crescita dell’azienda, ma d’altronde neanche nazionalizzando le imprese si risolverebbero i problemi. Già negli anni ’90 c’è stata un’ondata di privatizzazioni, ma la Telecom non ha investito, per esempio, in ricerca e sviluppo e oggi è nelle condizioni che conosciamo. Nella Silicon Valley degli anni ’60, invece, pubblico e privato investivano insieme, portando alla luce tecnologie come il touchscreen che oggi usiamo sui nostri telefoni, e tutto era cofinanziato con partnership tra diversi soggetti. Ma anche negli Stati Uniti oggi si vive la tragedia di compagnie come Cisco, che investono più soldi per ricomprare le loro quote di mercato, anziché in investimenti al loro interno per sviluppare nuovi prodotti.

Come si possono spingere i privati a investire?

Penso che serva soprattutto uno stato coraggioso e competente, capace di fare investimenti anche in aree in cui il privato inizialmente non investe, ma che poi può decidere di sondare con l’emergere di nuove opportunità, stimolato da un’iniziativa statale lungimirante. Se guardiamo alla Germania, quel Paese cresce anche perché la Kfw, la banca pubblica, finanzia l’innovazione, mentre in Italia la Cassa depositi e prestiti non ha alcun ruolo. Le imprese non investono senza motivi, ma solo quando ci sono opportunità, e abbassare le tasse non attrae investimenti di per sé. Apple e Microsoft quando erano piccole investivano dove c’erano opportunità di mercato o tecnologiche, abbassare le tasse senza che le aziende vedano opportunità, porta solo all’aumento della ricchezza: abbassi il costo in tasse e quindi aumenti il loro profitto privato, ma non hai spinto automaticamente l’impresa a investire. In Italia, poi, si continua con la politica degli incentivi, invece servirebbe che il pubblico investisse in alcune aree, affinché il privato potesse poi seguirlo a traino investendo di suo, dopo aver compreso di poterne ricavare un profitto.

Il suo libro si apre così: “The state has not just fixed markets, but actively created them”. Si può fare un esempio di un “Stato Innovatore” e non solo regolatore?

Partendo dagli Stati Uniti e finendo in Cina, gli esempi sono tantissimi. Negli USA il governo ha prima coniato la parola nanotecnologia, e poi ha investito nel business, sviluppando un mercato che ha accolto successivamente capitali privati, ma solo 20 anni dopo l’intuizione iniziale. La China Development Bank viene usata dal governo cinese per spingere l’economia verde e non solo per regolamentarla. Anche il gigante Huawei ha avuto enormi prestiti da questa banca, e oggi è diventato la realtà mondiale che conosciamo. La finanza paziente genera innovazione e anche questo manca all’Italia. Parlare sempre male del governo non credo che porti nuove competenze nella pubblica amministrazione. Occorre ripensare lo stato, non ammazzarlo.

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