di Lucrezia Reichlin dal Corriere della Sera 01 giugno 2014
Oggi sul Corriere della sera è stato pubblicato questo interessante editoriale di Lucrezia Reichlin, merita attenzione perchè affronta la realtà evitando slogan facili e “numeri a caso”.
Il leader di un grande Paese come l’Italia può, anzi deve, avere una voce autorevole in Europa. Senza farsi grandi illusioni. Con i piedi per terra. Dice Renzi: «In Europa ci si va per far valere le nostre idee sul futuro dell’Unione e non solo per farsi fare la lezione». Giusto, però è necessario riflettere su alcuni temi, non riducibili a facili slogan. Il primo è che cosa ci si attende dall’Europa nel suo insieme. La definizione, cioè, di un progetto comune che sia una base utile per affrontare le grandi questioni degli anni a venire: il rallentamento della crescita di lungo periodo; la bassa produttività; l’endemica, irrisolta, fragilità finanziaria; le diseguaglianze. Il secondo tema riguarda la strada da intraprendere in Europa per affrontare, nello stesso tempo, anche i problemi specifici dell’Italia: la stagnazione ventennale; il debito pubblico a rischio destabilizzazione; la storica difficoltà politica nell’individuare la via delle riforme; la grave spaccatura tra Nord e Sud del Paese.
Sul primo punto bisogna aprire un confronto di idee finora soffocato dai conflitti d’interesse fra i Paesi. Un dialogo serio, costruttivo, sul futuro dell’Unione, sul livello di integrazione fra i mercati, sulla filosofia di fondo tra competitività e solidarietà. L’Italia può svolgere un ruolo da protagonista. Per tutta l’Europa si prevede un calo della crescita potenziale nei prossimi anni – dovuta a fattori demografici -; la diminuzione della partecipazione al mercato del lavoro; bassi investimenti. Il problema non è solo europeo. Gli Stati Uniti, nonostante abbiano saputo, meglio di noi, affrontare la crisi del 2008 e abbiano prospettive di crescita migliori, sono vittime di simili incertezze. Il Prodotto interno lordo (Pil) del primo trimestre è stato addirittura negativo, cogliendo di sorpresa tutti gli esperti. Voci autorevoli, come quella di Larry Summers, parlano di «grande stagnazione», per l’America, ma più in generale per le economie mature. Uno scenario che apre il dibattito su quali siano le riforme più adeguate per favorire lo sviluppo economico. Quali strumenti dobbiamo, dunque, darci per stimolare la crescita dell’Unione nei prossimi dieci anni? Alla base di questa ripresa, incerta e anemica, c’è una carenza strutturale della domanda – come dice parte dell’élite americana – o, invece, ci sono problemi legati alla scarsa flessibilità dell’economia? Nel primo caso la via da percorrere è un programma massiccio di investimenti, nel secondo una combinazione di riforme dal lato dell’offerta (flessibilità dei mercati e liberalizzazioni) e del consolidamento del debito. Al di là delle divisioni di stampo ideologico questi sono temi difficili che impongono lucidità ed equilibrio. La leadership d’Europa deve avere il coraggio di agire in tal modo, con l’obiettivo di superare il conflitto interno tra Paesi deboli e Paesi forti. Anche i più «forti», in realtà, devono avere consapevolezza di non esserlo affatto se messi alla prova con le enormi sfide del futuro e con una crisi che non è ancora finita.
Veniamo al secondo tema: l’Italia. In queste ore riceverà un primo giudizio dell’Europa sulle scelte di politica economica. Nei giorni del dopo voto le reazioni sono state eccessive e scomposte. Sono stati diffusi molti numeri a caso. Guardando con maggiore distacco e sobrietà, vedo pochi margini per fare ripartire la domanda e un contesto ancora fragile per dare gambe alle riforme. Per quanto riguarda la domanda, è inopportuno, e probabilmente controproducente, parlare di rinegoziazione del Trattato, perché questo aprirebbe un processo lunghissimo con esito incerto. Con più sobrietà si è sostenuto che entro i confini del Trattato ci sono spazi per escludere la spesa di investimento, che cofinanzia i progetti europei, dalla contabilità sul limite del 3% del deficit pubblico. Questa era la strada perseguita dai governi Monti e Letta. Dopo le ultime misure del governo non mi è chiaro, tuttavia, se ci siano ancora i quattrini necessari. D’altro canto, sforare unilateralmente il limite del 3%, con il 132,6% di debito pubblico, esporrebbe il nostro Paese a nuovi e più gravi rischi finanziari. Bisogna trovare altre strade.
Data la scarsa credibilità che storicamente affligge l’Italia, considerata da sempre poco capace di attuare riforme che aiutino l’economia a ripartire favorendo investimenti e innovazione dal lato dell’offerta, è necessario individuare meccanismi che leghino l’attuazione delle riforme agli aiuti europei per il sostegno della domanda. Questo potrebbe essere fatto, per esempio, nel meccanismo di quei contratti bilaterali tra Paesi suggeriti dai tedeschi. Una proposta – lo ricordo – che è stata scartata perché considerata troppo invadente a livello nazionale. Dovrebbe ora essere reinterpretata e inserita nel quadro di un rinnovato piano collettivo per la crescita. Un programma in cui tutti i Paesi membri possano riconoscersi, ma che vincoli le capitali nazionali a dare garanzie affinché gli aiuti ricevuti non servano a rinviare il cambiamento, ma a facilitarlo.
L’Italia, alle ultime elezioni, ha votato per le riforme. Nonostante la volontà dei cittadini, il cammino resta impervio perché gli interessi precostituiti non sono spariti, né spariranno d’incanto. E nemmeno tutti gli ostacoli politici. Per questo credo sia essenziale che l’Italia faccia sentire la propria voce di grande Paese europeo, senza escludere di vincolare il cammino delle riforme nazionali a seri impegni comunitari, a fronte dei quali si potrebbero rinegoziare vincoli e finanziamenti.
1 giugno 2014 – Corriere della Sera